Gareth Rubin, Sherlock Holmes, mito e antidoto

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«C’è qualcosa di stranamente accogliente nel caos che Holmes impone a quella stanza: carte, provette, manufatti tribali africani sparsi ovunque. Potrebbe esservi necessario affrontare il disordine o farvici strada con cautela, ma, a quel punto, vi ambienterete come se aveste sempre vissuto lì». Poche righe, e dalle pagine di Sinister. La città delle ombre (traduzione di Giuseppe Maugeri, Longanesi, pp. 304, euro 18,60), ci si trova già immersi nel clima inconfondibile che regna al 221B di Baker Street, l’indirizzo londinese del più celebre detective della storia del romanzo poliziesco, Sherlock Holmes.

Scrittore e giornalista britannico, già autore di The Turnglass. La clessidra di cristallo (Longanesi, 2023), un romanzo che intreccia con eleganza i codici del fantastico, Gareth Rubin non è certo il primo a cimentarsi con l’idea di riprendere il personaggio di Holmes, creato da Sir Arthur Conan Doyle alla metà dell’Ottocento. Quasi un centinaio di autori diversi hanno dato vita ad altrettanti tra romanzi e racconti apocrifi in circa un secolo. Ma Sinister, frutto dalla felice coincidenza rappresentata dal fatto che l’agente letterario di Rubin è lo stesso di Anthony Horowitz, anch’egli autore di alcune riscritture di Holmes particolarmente felici e che questo ha favorito un contatto con gli eredi di Conan Doyle, interessati a trovare nuovi interpreti del celebre personaggio, non è un libro che possa essere confuso con altre produzioni seriali.

A partire dallo scenario della Londra vittoriana, descritta attraverso i salotti del potere come le zone dominate dalla criminalità, e dalla miseria, Rubin mette in scena una storia inquietante che evoca le paure e il contesto culturale dell’epoca, facendo ritrovare al lettore tutti gli affascinanti elementi delle indagini di Holmes. Solo che in questo caso, il detective finirà per dover collaborare con il suo più noto avversario, il professor James Moriarty, una sorta di genio del crimine, per far luce sulla minaccia che grava su un giovane attore teatrale, ma in realtà sulla Gran Bretagna e l’intera Europa, sull’orlo di una guerra come quella che di lì a poco, siamo nell’ultimo decennio dell’Ottocento, finirà per travolgere l’intero continente.

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Gareth Rubin

I romanzi apocrifi di Sherlock Holmes ammontano ad oltre un centinaio e diverse decine di autori si sono cimentati con le indagini del detective di Baker Street: quale approccio ha seguito per avvicinarsi e interpretare a suo modo quello che rappresenta un autentico simbolo della cultura popolare e della storia della letteratura?
È vero, molti altri autori hanno provato a scrivere dei romanzi con Holmes come protagonista, ma, ad essere estremamente sinceri, perlopiù l’esito è stato piuttosto orribile. Personalmente, mi sono avvicinato a questa sfida con la voglia di scrivere qualcosa che potesse piacere agli appassionati del genere, ma che allo stesso tempo risultasse anche fresco, nuovo. E l’idea che Holmes fosse costretto a collaborare proprio con Moriarty, il suo principale avversario, è emersa come qualcosa che sarebbe potuto diventare affascinante e contorto, quindi ancor più intrigante. Tutti gli appassionati lettori delle storie di Holmes hanno sempre voluto conoscere qualcosa di più del personaggio del professor Moriarty che di persona era apparso in un’unica storia. Inoltre, le persone dimenticano spesso che Conan Doyle ricorreva anche all’umorismo nei suoi racconti, così ho cercato di metterne una dose ancora maggiore in questo romanzo che riprende i suoi personaggi più noti.

Concretamente, come è nata l’idea di scrivere questo romanzo?
Penso che ogni autore di romanzi polizieschi o di thriller sogni di scrivere prima o poi una storia con Sherlock Holmes come protagonista: esiste forse un personaggio altrettanto ingegnoso o allo stesso modo famoso in tutto il mondo? Perciò, mi ritengo davvero fortunato che gli eredi di Arthur Conan Doyle mi abbiano chiesto di farlo.

Nel mio romanzo ho scelto che il detective indaghi insieme al professor Moriarty, il genio del crimine che combatte da sempre. Questo perché li considero come due facce della stessa medaglia

L’intrigo che fa da sfondo alla storia narrata in «Sinister» ha una dimensione internazionale, degli aspetti da romanzo gotico, ma fa eco anche alle idee legate al transumanesimo e al potere della scienza di creare qualcosa di simile a un superuomo. Cosa aveva in mente quando ha iniziato a scrivere il libro?
Arthur Conan Doyle era davvero molto interessato alla scienza e a quella che oggi forse chiameremmo fantascienza. In «The Creeping Man» (L’avventura dell’uomo che camminava a quattro zampe, compresa nella raccolta Il taccuino di Sherlock Holmes, 1927), il detective si misura con le idee del transumanesimo e nel romanzo Il mondo perduto (1912) – che fa parte della produzione «fantastica» di Conan Doyle dove non compare Sherlock Holmes, nda – si parla di una spedizione che in Sudamerica si imbatte in un territorio ancora attraversato dai dinosauri. Volevo aggiungere una nuova dimensione alle storie di Holmes proprio ampliando i riferimenti a questi aspetti. E spero davvero che questo approccio abbia prodotto gli esiti sperati.

Nel suo romanzo, Sherlock Holmes è costretto a collaborare con il suo più celebre avversario, il professor James Moriarty. Da cosa nasce questa particolare scelta narrativa?
Moriarty è un personaggio sorprendente almeno quanto lo è lo stesso Holmes. Probabilmente avrebbe potuto raggiungere qualsiasi traguardo si fosse prefissato in questo mondo, ma ha scelto consapevolmente il crimine come tela dove esprimere la sua «arte». Del resto, segretamente, non vogliamo forse tutti essere «i cattivi», non crede? Essere liberi dalle convenzioni sociali e vivere alla grande… Ne sono sicuro.

Da lettori, siamo portati ad immaginare Holmes e Moriarty come l’incarnazione di due aspetti, simmetrici e contrari, dell’animo umano. Scrivendo allo stesso tempo dei due, lei ha invece scoperto che possiedono anche degli aspetti sorprendentemente simili?
Senza dubbio, arriverei a parlare addirittura di due facce della stessa medaglia. Per molti aspetti si potrebbe dire che Moriarty rappresenta ciò che Holmes potrebbe essere se solo ogni tanto si lasciasse andare. Per questo, alla fine hanno in qualche modo bisogno l’uno dell’altro per stimolarsi reciprocamente sul piano analitico e mentale. Forse avrebbero dovuto essere coinquilini.

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Sul fondo del romanzo, emerge un ritratto della Londra vittoriana, una sorta di «luogo della memoria» della grandezza sinistra e dell’ambiguità decadente dell’Inghilterra imperiale. Come ha lavorato su questo aspetto della storia e cosa rappresenta ai suoi occhi quel «luogo» e quella stagione della storia del suo Paese?
L’età vittoriana è davvero un periodo avvincente da studiare. Una fase storica connotata da un’enorme ambizione, da un desiderio di progresso, apprendimento, espansione. Ma, allo stesso tempo, è anche un’epoca segnata dalle difficoltà, dalla rabbia e dall’egoismo. L’immagine è quella di qualcuno che muore in mezzo alla strada, ma che viene ignorato dai passanti. Credo che all’epoca sia accaduto qualcosa di simile a questo: tutte le capacità umane furono in qualche modo assorbite dal mondo fisico – si trattasse delle esplorazioni o di capire l’arte e la chimica -, lasciando però così davvero poco spazio all’umanità, al modo di sentirci vicini agli altri. Stiamo decisamente meglio ora. E forse proprio perché abbiamo saziato in passato, almeno in parte, la nostra sete di conoscenza.

Nel romanzo si evoca il movimento culturale legato al transumanesimo, celebre all’epoca di Conan Doyle ma che sembra aver trovato nuova vitalità grazie a figure come Elon Musk: il «suo» Sherlock Holmes sta indagando sul mondo che ci circonda, anche se forse non ce ne siamo accorti?
Ah! In effetti, forse. La prossima volta che vedrò Elon, glielo chiederò.



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