Una delle iniziative dei Parkinsonauti guidati dal loro presidente Stefano Ghidotti – .
La vulgata olimpica vuole che di Parkinson si ammalino prevalentemente i pugili. La scena memorabile della mano tremante del re dei massimi Mohammed Ali che accende la fiaccola dei Giochi estivi di Atlanta 1996 è un’immagine che continua a fare il giro del mondo e allora divenne la vera testimonial del Parkinson che non solo era salito sul ring ma guardava il mondo intero stando sotto il cielo di Olimpia.
La storia di Marco Evoldi non è affatto isolata nel pianeta rugby. In Argentina sono nate associazioni che aiutano ex rugbisti professionisti affetti da Parkinson. E in Europa è suonato l’allarme. Secondo uno studio prodotto dall’Università di Glasgow 412 giocatori di rugby scozzesi che avevano giocato a livello internazionale, nati tra il 1900 e il 1990, erano risultati affetti da patologie neurodegenerative e prevalentemente Parkinson.
Nel rugby professionistico la possibilità di ammalarsi di di questa malattia è tre volte superiore rispetto alla media della popolazione universale e si arriva a una esposizione 15 volte superiore per ciò che attiene alle patologie degenerative Sla, Alzheimer e demenza senile. «Je souffre de la maladie de Parkinson», fu l’annuncio choc che l’ex nazionale francese del rugby Marc Dal Maso, fece nell’ottobre del 2012 quando l’ex tallonatore aveva 44 anni ma la sua sfida quotidiana alla malattia era iniziata quando ne aveva 30 ed era in piena attività agonistica.
«Ci sono sport che possono in qualche modo favorire l’insorgere di certe malattie e il rugby è uno di questi. Potrebbe essere la conseguenza di un trauma o un forte choc fisico? Sì, potrebbe, ma non c’è davvero nulla di sicuro e io non voglio tormentarmi con questo genere di domande, il mio combattimento è un altro», confessava Dal Maso che da allora non si è mai arreso ed è diventato un punto di riferimento per tutti i parkinsoniani francesi ai quali ricorda da uomo di mischia: « La malattia è sempre con me, si evolve con me. Non la puoi accettare, se lo facessi sarei morto. Bisogna perciò che io sia forte e che siate forti».
Nessuno è più forte, specie mentalmente, di Stefano Ghidotti, 63 anni odontotecnico di Palazzolo sull’Oglio, atleta di triathlon al quale nel 2017 è stato diagnosticato il Parkinson. «Sono un malato di sport prima che di Parkinson e dopo la diagnosi sono diventato un mental coach e istruttore di 1° livello di Nordic Walking». Questo il suo nuovo biglietto da visita e anche la filosofia che trasmette dal blog aperto nel gennaio 2018 con il nome “parkinsontriathlon.blog” poi diventato uno dei canali di comunicazione dell’Associazione Parkinson&Sport, nata nel novembre dello stesso anno, da cui ha preso il nome. In oltre 220 articoli comunica con persone e atleti che come lui convivono con la stessa patologia.
Atleti amatori che sulla scia di Ghidotti, nonostante il loro costante problema di salute riescono a praticare sport come il triathlon, ma anche nuoto, running e ciclismo. Si tratta di una vera e propria comunità sportiva che negli anni ha raccolto oltre 450 soci, disseminati in tutta Italia, che, ognuno con la sua modalità e capacità, fanno sport e attività fisica, un supporto terapeutico fondamentale per affrontare i sintomi e l’avanzare della malattia. Sono il club degli impavidi “Parkinsonauti”.
«È il nome che ci ha ispirato Lorenzo Dallura, un siciliano che un paio di anni fa ha lasciato Milano ed è tornato nella sua terra. Parkinsonauta coglie a pieno il senso che è quello di farsi esploratori della propria malattia per cercare nuove risposte e soluzioni ai problemi che abbiamo. Smettere dunque di guardare ogni giorno a ciò che abbiamo perso, per concentrarci invece sull’orizzonte futuro di una vita che si rinnova continuamente grazie a tutta una serie di progetti, a cominciare proprio dallo sport che è scientificamente provato: genera benessere fisico e mentale, producendo dopamina, il neurotrasmettitore la cui assenza è la causa del nostro male. Fare sport è una terapia che ha lo stesso peso dei farmaci».
E proprio per il farmaco Stefano sotto pandemia ha vestito anche i panni del “giornalista” con le interviste sul web intitolate “Prendo la levo e arrivo”. «Il riferimento era alla somministrazione quotidiana del nostro salvavita, la Levodopa, che deve essere assunta 60 minuti prima dei pasti». Alla fine del lockdown il liberi tutti dei Parkinsonauti li ha portati a montare in sella a una bici per la prima delle tre edizioni di “Bike riding for Parkinson Italy”. “In 10 siamo partiti da Pavia pedalando alla volta di Roma. Abbiamo attraversato la via Francigena per tagliare il traguardo a piazza San Pietro dove poi siamo stati ricevuti da papa Francesco». Un viaggio ripreso dal docufilm Non ci fermerai che ha avuto poi un sequel per le altre due edizioni di “Bike riding for Parkinson Italy”: la Torino-Venezia e la Gran San Bernardo-Pavia, con arrivo questa volta al Mondino che è uno dei migliori centri specializzati per la cura del Parkinson.
«A Palazzolo, città natale di Stefano, sull’esperienza scandinava degli Alzheimer Caffè e del Parkinson Cafè della Fondazione Silvana e Bruno di Arzignano, VI, partirà a breve il progetto “Parkinson Caffè”, uno spazio di condivisione, dove, in un luogo neutro, faremo rete con medici, specialisti e operatori senza camice, in cui la persona non avverta la condizione di malato. Si tratta di un percorso che prevede la crescita di gruppo per neutralizzare quei sintomi invalidanti del Parkinson che al suo insorgere causano apatia, disagio, la paura e senso di solitudine. La nostra mission è: non arrendersi mai alla malattia, ma credere fino in fondo alla possibilità di una cura Noi Parkonauti siamo i protagonisti di scelte di stile di vita che possono farci continuare a godere appieno di ogni giorno, fino a quello in cui finalmente arriverà la nostra cura».
LA STORIA/ MARCO EVOLDI, UNA VITA NELLA MISCHIA CON IL MIO AMICO P.
![L'ex rugbista e allenatore Marco Evoldi (terzo da sinistra) L'ex rugbista e allenatore Marco Evoldi (terzo da sinistra)](https://www.avvenire.it/c//2025/PublishingImages/1860186435be4fd783f70afc373e9858/Immagine-IMG-20250204-WA0014.jpg?dt=1739464272031)
L’ex rugbista e allenatore Marco Evoldi (terzo da sinistra) – .
«L’amico P è entrato nella mia vita quando avevo 32 anni. Si è annunciato con un crampo che poi è diventato un dolore lancinante, insopportabile. Notti insonni, spasmi e poi ho scoperto che si trattava di discinesie e distonia, movimenti involontari e semiparalisi. Insomma un grande caos».
È il racconto di Marco Evoldi, classe 1984, rugbista, ex pilone, allenatore e dirigente sportivo, nato e cresciuto nel Rugby Mantova. Dopo vent’anni nel club della sua città ha cominciato a girare per i campi di mezza Lombardia: Leno, Valle del Chiese, Valeggio e Bassa Bresciana. Tutti club in cui si è sempre occupato del rugby di base, da predicatore, ascoltatissimo, della grande cultura internazionale del “Progetto Scuola” applicato alla palla ovale. Un Progetto che per apprenderlo a pieno a un certo punto ha sentito il bisogno di andare a conoscerlo direttamente da una delle fonti più autorevoli della cultura rugbistica, l’Argentina. «Sono cresciuto con allenatori che ti inculcavano la storia del rugby solo “sanguepugnicalcisacrificifatica” e questa prospettiva mi andava stretta, perché ho sempre creduto a uno sport intelligente da praticare in un ambiente positivo che dia la possibilità a un giovane di seguire un percorso di crescita personale che vada di pari passo con quello sportivo. E seguendo questa direzione, che parte da una passione vera, i risultati che ho ottenuto sono stati straordinari».
Una passione che lo ha portato dall’altra parte dell’Oceano. Come direbbe papa Francesco, alla fine del mondo. «Con il gancio di un amico avvocato argentino, senza conoscere una parola di spagnolo mi sono gettato nella mischia a occhi chiusi. Per un anno e mezzo ho fatto l’“allenatoresalumiere” a Cordoba. Niente soldi a fine mese dal rugby e allora per mantenermi lavoravo come cuoco in un locale dove un giorno venendo a mancare il pizzaiolo mi dissero: “Tu sei italiano, quindi la pizza la sai fare bene”. Mai fatta prima una pizza in vita mia, ma con l’aiuto di un tutorial su youtube ho impastato e infornato una pizza secondo me agghiacciante – sorride – . Ma grazie al luogo comune “italiano bravo pizzaiolo” è piaciuta». Ma piaceva molto di più il “Tano italiano” del settore giovanile del Club di Cordoba, allenatore anche della squadra femminile. «Un’esperienza unica fatta in un grande club che preparava giocatori selezionabili dalla loro nazionale, i mitici Pumas. Da lì sono passato a una piccola realtà più familiare che ricordava un po’ i nostri club, ad Alta Gracia. Una cittadina di 40mila abitanti dove quando arrivo trovo una squadra giovanile con appena 4 ragazzi. Al presidente chiedo quale obiettivo abbiano in testa e questo mi fa: “Formare buone persone”. Lo guardo perplesso e gli faccio capire che sono un allenatore e non una onlus. Allora lui mi diede una risposta che è diventata mia quando parlo ai ragazzi: “Da una buona persona è probabile che possa uscire un buon sportivo. Da una cattiva persona mai».
All’Alta Gracia da 4 giocatori, come previsto da Marco, passarono a 40 tesserati. «Piccoli miracoli di questo sport che dona centinaia di storie di “redenzione”. Storie che Marco ha appena raccolto in un libro intitolato Il mio amico P (Editoriale Sometti. Pagine 142. Euro 15,00) non sa se la sua vita di malato di Parkinson cambierà in meglio, ma intanto da vero rugbista non ha mollato di un centimetro la presa e si è sottoposto a DBS. (Deep Brain Stimulation). «È un’operazione chirurgica a cui si può sottoporre il 10% dei malati di Parkinson e il 31 luglio scorso all’Ospedale Santa Maria Maggiore di Reggio Emilia, dove questo intervento lo fanno da vent’anni, mi hanno rimesso a nuovo. Nella testa mi hanno applicato uno stimolatore elettrico che quando il mio cervello manda gli input sbagliati interviene per correggerli. Sono un uomo nuovo che va a corrente – sorride – ma ogni aumento di volteraggio non è uno scherzo perché il mio corpo lo avverte. Però per fortuna il dolore è sparito e piano piano sto recuperando i movimenti degli arti. Tutto questo grazie a medici bravissimi ma soprattutto uomini e donne eccezionali, perché una parola gentile e una carezza al malato sono molto meglio di mille terapie».
Si intenerisce Marco che è orgoglioso di appartenere alla grande tribù degli uomini rudi del rugby. «I rugbisti spesso sono rudi anche nella vita di tutti i giorni, ma poi scopri che sono anche i più sinceri e senza filtri, come me. Il mondo del rugby non mi abbandona mai. Nel resto della società invece qualche amico l’ho perso perché non ha retto nel vedermi nelle condizioni in cui ero, ed è scappato. Posso anche capirli – sorride – perfino la Polizia quando mi fermava alla guida della mia auto era sul chi va là vedendo quei movimenti strani del mio corpo… Una volta un bambino che allenavo vedendo il tremolio mi fa: “Ma ti stai fermo un attimo?”. Alla Bassa Bresciana per non sentirmi ripetere quella domanda al primo giorno giocai a carte scoperte, ai ragazzi e ai loro genitori dissi presentandomi: salve, io sono malato di Parkinson». Fu una stagione eccezionale. Un papà che poi è diventato un amico, mi disse che sapeva bene cosa significasse il mio dolore, perché da anni accompagnava i malati a Lourdes».
Il vero miracolo per Marco è svegliarsi al mattino e affrontare la giornata con il suo fido gatto rosso, Gingerino. «Non è facile accettare che questa condizione sia per sempre. Ma so che il Parkinson ormai è una parte di me e non posso mica fare la guerra a me stesso. Quindi lo accetti, impari a conoscerlo ed è fondamentale capire come gestirlo». Marco dopo l’ultima esperienza con i ragazzi del Valeggio si è preso un anno sabbatico dal rugby e ha in mente un secondo libro che è un diario della sua esperienza argentina. «Non sono un credente ma ho fatto un fioretto: se la DBS fosse andata a buon fine la prossima estate sarei tornato in Argentina. Ci andrò a luglio, anche perché il libro è stato tradotto in spagnolo e vogliono diffonderlo, grazie agli amici del rugby che lo hanno letto e gli è piaciuta la mia storia – sorride salutandoci -… Quasi quanto la mia pizza».
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