Nuovo Giornale Nazionale – L’AZIONE DI TRUMP

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Ricordate Charlie Chaplin ne Il grande dittatore, quando gioca a palla con un grande mappamondo di gomma, travestito da Adolf Hitler? Ebbene, quella scena profetica potrebbe identicamente valere nella realtà per il mondo transazionale di Donald Trump, in cui tutto si contratta e, parimenti, si commercia, in competizione aperta con gli altri player globali. Saltati tutti i vincoli autoimposti dal diritto internazionale (ormai inutile oggetto woke nel museo storico della tramontata pax americana), contano oggi e domani i soli rapporti di forza. Ma la cosa paradossale è che a credersi forti siano proprio i Paesi medio-piccoli del Global South, come Messico, Panama e Colombia, che odiano l’Occidente, come tutti quelli che stanno dalla loro parte come potenziali alleati, perché i loro ricordi risalgono ai tempi in cui gli Stati Uniti, potenza egemone, facevano rispettare e rispettavano le leggi e le istituzioni internazionali.

Oggi che l’Onu è diventato terzomondista e antioccidentale, il loro potere di condizionamento si dimostra semplicemente inesistente, perché di fatto la loro interdipendenza commerciale e politica dagli Stati Uniti è semplicemente un dato incontrovertibile di fatto. Se n’è ben accorto il fragile Governo colombiano del socialista Gustavo Petro, che non voleva riprendersi i suoi espatriati espulsi da Trump e che, come la sua collega messicana, Claudia Sheinbaum, ha dovuto fare precipitosamente marcia indietro sulla questione dei migranti, visto che gli Usa ospitano la cifra record di circa 37 milioni di persone di origine messicana! E Trump, come i suoi predecessori alla Casa Bianca, deve fare i conti con un’immigrazione illegale che ogni anno vede l’assalto di 2 milioni di persone alle sue frontiere sud.

Poiché l’80 per cento dell’export messicano è destinato agli Usa, così come avviene per altri Paesi del Sud America, se solo Trump dovesse imporre insuperabili barriere tariffarie sarebbero proprio i Paesi latinoamericani a subire una grave depressione economica, mettendo ad alto rischio la tenuta dei loro Governi. Che farebbero bene, dal canto loro, come anche tutti gli altri che si fanno illusioni sul carattere “transazionale” di Trump (nel senso che le minacce rappresenterebbero solo una precondizione a trattare), a non ignorare come funziona il mondo degli affari. Le multinazionali, così come i grandi gruppi industriali e finanziari, hanno bisogno di stabilità e di un quadro chiaro e affidabile di regole per poter programmare i loro investimenti internazionali a lungo termine. E dato che Trump agisce in base alle sue convenienze, non si può stare mai certi sul rispetto degli impegni concordati.

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Durante il suo primo mandato, l’attuale presidente Usa ha negoziato un accordo commerciale con Messico e Canada, conosciuto con l’acronimo Usmca (United States-Mexico-Canada Agreement), che oggi Trump intende rivedere chiedendo nuove concessioni e facilitazioni commerciali a favore dell’America. In tal modo, però, secondo gli analisti finanziari internazionali, si tende a creare una logica iper-protezionistica, in base alla quale gli scambi commerciali sono sicuri soltanto all’interno dei confini nazionali. Il che potrebbe andare bene per quegli Stati che hanno territorio, popolazione e un’economia favorevoli, per quanto riguarda i livello di consumi interni e l’autosufficienza alimentare ed energetica, mentre per tutti gli altri sarebbe drammatico, non avendo un mercato interno minimamente sufficiente all’autosostentamento.

 

La speranza che il Global South ripone in Trump è molto semplice: il tycoon ha sgombrato il campo per la durata del suo mandato dalle follie moralizzatrici del woke, e la sua attitudine a parlar chiaro potrebbe rendere le cose più facili dal punto di vista degli accordi transazionali multi o bilaterali. Da lui, infatti, non c’è da aspettarsi proposte che abbiano come condizione a trattare la solita retorica sul rispetto dei valori occidentali, che non interessano nulla ai quattro quinti della popolazione mondiale. Tutti gli attori internazionali (e noi europei in particolare) debbono convincersi che il mondo transazionale trumpiano di Maga (Make America Great Again) non ha alcun interesse altruistico su come vanno le cose del mondo, dato che così la pensano esattamente i suoi competitor planetari di Cina, Russia e India, tanto per citare solo i maggiori. Questi ultimi, tra l’altro, non hanno nulla da temere dalla sospensione degli aiuti americani all’estero, che verranno mantenuti solo per quella parte che offra benefici concreti alla politica di Maga.

 

L’obiettivo di Trump, per quanto riguarda Paesi esortatori netti di migranti, come El Salvator e Guatemala, è di far accettare ai loro Governi lo status “Paesi terzi sicuri”, in modo da costringerli sia a riprendersi tutti i fuoriusciti, non autorizzati a entrare legalmente negli Stati Uniti, sia ad accettare le domande di asilo per i migranti in transito, provenienti dagli Stati confinanti. Del resto, Panama ha già provveduto a intensificare i controlli per respingere la maggior parte degli irregolari che tentano l’attraversamento del Darien Gap, zona insalubre e altamente a rischio per il transito degli asilanti. Ma è proprio il presidente panamense, José Raúl Mulino, filo trumpiano, a essere nel mirino della nuova Amministrazione, che reclama la proprietà del Canale con l’accusa di aver violato la neutralità, tassando le navi commerciali americane e cedendone di fatto il controllo a un conglomerato cinese con sede a Hong Kong. Dato l’attuale presepe, come si muoverà la pastorella Ursula (von der Leyen) per trattare con i nuovi feudatari del mondo?

 

Con una serie di ordini esecutivi già firmati, il nuovo corso della politica estera americana promette di seguire la filosofia “America First”, puntando a rinegoziare impegni internazionali e a ridefinire il ruolo degli USA nelle organizzazioni globali.

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Mentre il mondo osserva con apprensione le prime mosse dell’amministrazione americana gli operatori umanitari e le organizzazioni internazionali si interrogano sull’impatto diretto delle decisioni che spaziano dal congelamento degli aiuti internazionali al disimpegno da accordi chiave come quello di Parigi sul cambiamento climatico.

 

Sin dal primo mandato, Donald Trump ha adottato un approccio conflittuale nei confronti delle Nazioni Unite e delle loro agenzie. Durante la sua prima presidenza, gli Stati Uniti si sono ritirati da organizzazioni come l’UNESCO e il Consiglio dei Diritti Umani, riducendo i finanziamenti per l’UNRWA (l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi) e minacciando di tagliare ulteriori contributi. Tuttavia, questa politica non è stata priva di contraddizioni. Infatti gli Stati Uniti sotto Trump sono rimasti comunque il principale contributore finanziario delle Nazioni Unite, fornendo più fondi rispetto a qualsiasi altra nazione, inclusa la Cina, per molte delle principali agenzie, come il Programma Alimentare Mondiale (WFP) e UNICEF. Questo dimostra come l’approccio di Trump non sia stato di totale disimpegno, ma piuttosto di utilizzo strategico del peso economico americano per ottenere riforme e vantaggi geopolitici.

 

Lo mantellamento dell’USAID sembra essere l’inizio di una più ampia azione che prepara il terreno per tagliare drasticamente i fondi e demolire le Nazioni Unite, proprio come Trump ha già promesso di fare con la NATO . La sua amministrazione ha ripetutamente messo in dubbio l’efficacia delle istituzioni multilaterali, descrivendole come ostacoli burocratici che limitano la sovranità degli Stati Uniti e prosciugano le risorse americane. Mentre la NATO è stata un pilastro fondamentale della sicurezza statunitense ed europea per decenni, Trump ha suggerito che le nazioni membri dovrebbero finanziare la propria difesa o rischiare di perdere la protezione degli Stati Uniti, minacciando di fatto di ritirarsi dall’alleanza.

 

Questa stessa logica potrebbe ora essere applicata alle Nazioni Unite, dove gli Stati Uniti sono il maggiore contributore finanziario. Tagliando i finanziamenti e delegittimandone il ruolo, Trump potrebbe tentare di minare la capacità dell’ONU di funzionare, forzando un passaggio da un ordine internazionale basato su regole a un sistema in cui la diplomazia nazionalista e transazionale sostituisce la cooperazione multilaterale.

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Storicamente, i tentativi di indebolire o abbandonare le istituzioni globali hanno portato a una grande instabilità e a conflitti. La Società delle Nazioni fallì negli anni ’30 perché le potenze leader, tra cui gli Stati Uniti, si rifiutarono di impegnarsi pienamente, consentendo a stati aggressivi come la Germania nazista e il Giappone imperiale di agire senza controllo. Allo stesso modo, dopo la prima guerra mondiale, le politiche isolazioniste e la mancanza di coordinamento internazionale contribuirono alle condizioni che portarono alla guerra globale. Se gli Stati Uniti si ritirassero dall’ONU o dalla NATO, creerebbero un enorme vuoto di potere che nazioni rivali come Cina e Russia sarebbero ansiose di colmare. 

 

Un fattore che dovrebbe preoccupare ancor più la Casa Bianca è la comprensione che, in geopolitica, il vuoto non esiste. Chi si ritira da uno scenario geostrategico lascia il campo ad altri attori internazionali. Non si dubiti: nazioni come la Cina saranno pronti a offrire il proprio sostegno, sottolineando l’inaffidabilità degli Stati Uniti come Paesi alleati, per subentrare con le proprie strategie di soft power, consolidando il loro ruolo di potenza antagonista globale.

 

La Cina infatti ha già ampliato la sua influenza all’interno delle agenzie dell’ONU, usando la sua posizione per modellare le regole del commercio globale e le politiche di sviluppo in modi che favoriscono modelli di governance autoritari. Nel frattempo, la Russia ha cercato a lungo di indebolire le alleanze occidentali e considererebbe il declino della NATO o dell’ONU come una vittoria strategica, consentendole di espandere la sua portata militare e politica senza una resistenza occidentale coordinata.

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Le implicazioni globali di una mossa del genere sarebbero gravi e destabilizzanti. Senza la NATO, la sicurezza europea si fratturerebbe, costringendo le singole nazioni ad aumentare drasticamente la spesa militare o a cercare nuovi accordi di sicurezza, potenzialmente con la Cina o altre potenze emergenti. Senza l’ONU, i meccanismi diplomatici di risoluzione dei conflitti si eroderebbero, rendendo più difficile contenere le crisi internazionali. Le nazioni più piccole che dipendono dalle iniziative ONU sostenute dagli Stati Uniti per la sicurezza, gli aiuti e lo sviluppo economico rimarrebbero vulnerabili, costringendole ad allinearsi con potenze alternative. Il risultato sarebbe un ordine mondiale più frammentato e instabile, in cui il diritto internazionale ha meno peso e i conflitti regionali aumentano senza controllo.

 

La storia ha dimostrato che quando le istituzioni globali vengono smantellate, il mondo non diventa più stabile o sicuro, ma diventa più pericoloso, diviso e incline a conflitti su larga scala. Se Trump persegue questa strada, le conseguenze a lungo termine potrebbero essere molto pericolose, non solo per la stabilità globale, ma anche per il ruolo dell’America come leader mondiale.

 

Un’offensiva di ordini presidenziali questa lanciata da Trump che, creando il caos, ha sopraffatto anche il potere legislativo, annullando le decisioni e i finanziamenti già stanziati dal Congresso. Poi, non rispettando le decisioni di quello giudiziario, ha creato una crisi istituzionale senza precedenti in un Paese in cui la democrazia si basa sul rispetto della Costituzione e del sistema dei pesi e contrappesi, il “check and balance” tra potere esecutivo, legislativo e giudiziario.

 

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Questo era il piano ideato nel 2016 dal suo ex consigliere politico Steve Bannon, quello della “deconstruction of the administrative state”, lo smantellamento dell’apparato federale per imporre le decisioni del presidente in modo da avere un potere assoluto senza limiti o controlli. Un’idea poi raffinata da John McEntee e Russell Vought che hanno elaborato il Project 2025.

 

Per ora l’ultimo bastione in difesa della legalità negli Stati Uniti, anche se fortemente limitato da magistrati con la Bibbia in mano e le tasche piene dei regali dei lobbysti amici, resta la magistratura che però è sempre più indebolita dalle nomine politiche che vengono fatte. Basti pensare al viceministro della Giustizia, Emil Bove, che era l’avvocato personale di Trump, il quale ha lanciato l’affondo contro gli inquirenti federali.

 

Nelle prime tre settimane della sua amministrazione, Trump si è mosso in velocità per smantellare le barriere dell’integrità pubblica del governo federale. Lunedì ha costretto i dirigenti degli uffici responsabili dell’etica governativa e delle denunce dei whistleblower a dimettersi. Ha ordinato la sospensione dell’applicazione di una legge che proibisce alle aziende americane di corrompere i funzionari dei governi stranieri per ottenere gli appalti.

Le ultime mosse sono arrivate quando Hampton Dellinger, dell’Office of Special Counsel, e David Huitema, responsabile dell’Office of Government Ethics sono stati licenziati. Dellinger è a capo di un ufficio federale che esamina le denunce dei whistleblower e gestisce l’Hatch Act che tra l’altro proibisce ai dipendenti federali di svolgere attività politiche all’interno del governo federale. I responsabili dell’OSC hanno un incarico a tempo di cinque anni e possono essere licenziati solo per inefficienza, abuso d’ufficio o negligenza del dovere. Proprio lo scorso anno Dellinger aveva chiesto al Congresso di varare nuove disposizioni per impedire ciò che Musk e il DOGE stanno ora facendo. Dellinger afferma di essere stato dimesso il 7 febbraio con una e-mail inviatagli da Sergio Gor, direttore del personale presidenziale alla Casa Bianca. È stato informato che la sua posizione era stata assunta da Doug Collins, un fedele alleato ed ex deputato repubblicano della Georgia, che è stato di recente confermato come segretario per gli Affari dei Veterani. Dellinger si è rivolto alla magistratura per bloccare il suo licenziamento e un giudice federale di Washington gli ha dato ragione e ha ordinato la sua reintegrazione, alla quale la Casa Bianca si è opposta ricorrendo in appello.

 

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David Huitema pure è stato licenziato nello stesso modo. Era stato confermato come responsabile dell’Office of Government Ethics dal Senato a novembre scorso e ha iniziato ufficialmente il lavoro a dicembre. L’Office of Government Ethics è stato creato dal Congresso per denunciare e impedire i conflitti di interesse del ramo esecutivo ai sensi dell’Ethics in Government Act.

 

“È l’inizio della presidenza più corrotta che abbiamo mai visto nella storia della Casa Bianca”, ha detto Norm Eisen, ex ambasciatore degli Stati Uniti nella Repubblica Ceca, intervistato dall’Associated Press.

 

Uno dei primi ordini esecutivi firmato da Trump è stato quello che annullava le direttive dell’ex presidente Joe Biden in cui veniva proibito ai dipendenti federali di accettare doni dai lobbisti e impediva che i manager federali ottenessero consulenze dalle lobby. Alla luce di questi cambiamenti la Trump Organization ha annunciato che non farà accordi con governi stranieri ma solo con aziende private all’estero, un cambiamento significativo rispetto al patto etico dell’azienda nel primo mandato.

 

Ora la Trump Organization ha stretto accordi per hotel e resort di golf in Vietnam, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Gli esperti di etica governativa hanno espresso le preoccupazioni che gli interessi finanziari personali del presidente possano influenzare la politica estera del Paese. Per ora sono allarmi inascoltati, sminuiti dai vassalli di Trump che lanciano accuse contro i magistrati “di sinistra”. Musk, dal canto suo, ha chiesto l’impeachment del giudice che ha limitato l’accesso ai sistemi finanziari federali a lui e alla sua squadra. Si profila la resa dei conti tra la Casa Bianca e un ramo indipendente e paritario del governo: quello giudiziario. Con i repubblicani che hanno la maggioranza sia alla Camera che al Senato sono loro, i giudici, l’ultima speranza per difendere la democrazia negli Stati Uniti di Trump.

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