La ricostruzione impossibile – Peter Beaumont

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Dopo che Donald Trump ha invocato quella che è stata descritta come una “pulizia etnica” dei palestinesi per ricostruire la Striscia di Gaza e farne una “costa azzurra” statunitense – un’idea tanto irrealizzabile quanto folle – è tornata in primo piano la questione di come, se e quando sarà ricostruita Gaza.

La realtà è che, nonostante tutte le promesse di riqualificazione del territorio dopo i precedenti conflitti, la ricostruzione – quando c’è stata – nel migliore dei casi è stata molto parziale, e sempre subordinata alle pretese di Israele.

Uno degli esempi più lampanti è quello del periodo successivo alla guerra del 2014, quando fu istituito un complesso sistema per monitorare la distribuzione dei materiali necessari alla ricostruzione. Poiché Israele obiettava che Hamas avrebbe dirottato il cemento, l’acciaio e altre risorse per realizzare i tunnel, fu predisposta una procedura di controllo dell’Onu nota come Meccanismo di ricostruzione di Gaza. Progetti e ditte selezionati avrebbero dovuto presentarsi presso specifici magazzini. Una volta controllate le carte e i documenti d’identità, avrebbero potuto avere il materiale che gli era stato assegnato. Il meccanismo, esageratamente complicato, senza risorse sufficienti e destinato a fallire, non ha mai funzionato. Al contrario, ha permesso l’emergere di un mercato clandestino, a volte proprio davanti ai cancelli dei magazzini custoditi, dove ci si accordava per avere i sacchi di cemento.

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Tutto questo spiega in parte quanto sia complessa la ricostruzione di Gaza. Non si tratta solo di un problema logistico, per quanto colossale sia l’impresa. È anche un problema politico. Gli studiosi hanno notato che le passate esperienze della ricostruzione a Gaza, e i veti imposti da Israele, sono stati usati come strumenti di dominazione e di conflitto. Il divieto di far entrare i materiali edili nella Striscia è stato una costante dell’embargo israeliano fin da quando è stato imposto nel 2007. Centinaia di prodotti, dalle attrezzature per trivellazioni alla resina epossidica fino agli stampi in cemento, all’asfalto e ai cavi elettrici, sono stati dichiarati articoli dual use (a duplice uso, civile e militare).

Questa volta l’impresa sarà di proporzioni quasi infinitamente più grandi, così come i bisogni dei palestinesi. In primo luogo c’è la questione delle macerie. Secondo una stima di Un Habitat e dell’Unep, i programmi dell’Onu per gli insediamenti umani e per l’ambiente, a dicembre a Gaza c’erano cinquanta milioni di tonnellate di macerie e detriti, diciassette volte più di tutte le rovine generate dagli altri conflitti nel territorio dal 2008. Se raccolte in un unico luogo, coprirebbero una superficie di cinque chilometri quadrati. L’Unep stima che lo smaltimento richiederà fino a vent’anni e costerà 909 milioni di dollari. In passato i palestinesi di Gaza hanno fatto ampio ricorso al riciclo dei calcinacci, lavorandoli in impianti all’aperto, un motivo di scontro con Israele secondo cui Hamas usava il cemento recuperato per scopi militari.

Inoltre c’è la questione di quanto tempo richiederà la ricostruzione. Mentre alcuni esperti hanno ipotizzato che potrebbero volerci decenni, la realtà è che questo dipenderà dalle condizioni politiche. Dopo la seconda guerra mondiale, le città tedesche – grazie al piano Marshall – furono rimesse in piedi in circa dieci anni, anche se in alcuni casi la ricostruzione è continuata fino agli anni novanta. Con un quarto di tutte le strutture di Gaza distrutte o gravemente danneggiate – comprese scuole e ospedali – e il 66 per cento degli edifici almeno in parte danneggiati, la prima questione sarà capire cosa si può salvare e identificare le persone (potenzialmente un milione) che hanno bisogno di alloggio e supporto a lungo termine.

Lasciando da parte gli appelli di Trump a trasferire permanentemente i palestinesi da Gaza, un rischio della ricostruzione è il danno sociale che si può generare allontanando le persone dalle loro reti sociali. Un’innovazione introdotta con successo dall’Onu nei campi profughi in Giordania durante la guerra civile siriana consisteva nell’allestire rifugi mobili che gli abitanti potevano spostare per preservare le comunità e le strutture sociali.

Sotto diversi aspetti, tuttavia, quello dell’alloggio potrebbe non essere il problema più grave. Il sistema idrico e igienico-sanitario di Gaza – già sull’orlo del collasso prima dell’inizio della guerra – è in rovina. Si stima che fino al 70 per cento degli impianti idrici, fognari e igienico-sanitari nel nord del territorio abbia subìto danni. Nella città di Gaza i danni riguardano più del 90 per cento di questo tipo di impianti – compresi gli stabilimenti di desalinizzazione – in una situazione in cui i residenti dipendono dalle pompe elettriche per riempire i serbatoi sui tetti e la rete elettrica è gravemente compromessa.

Oltre alle infrastrutture, più della metà dei terreni agricoli di Gaza sono stati rovinati dal conflitto, mentre il 95 per cento dei bovini e la metà degli ovini sono stati macellati.

Questo suggerisce che ci sarà bisogno di qualcosa di simile a un piano Marshall, anche se quasi certamente senza il coinvolgimento dell’amministrazione Trump, che ha chiarito che non pagherà e ha liquidato la sua agenzia di sviluppo, Usaid. Queste considerazioni sollevano molte domande, tra cui come, con Hamas ancora presente, si possa trovare un meccanismo che permetta una ricostruzione su vasta scala tenendo a bada Israele e Trump. Solo così si metterà fine all’incubo dei palestinesi di Gaza. ◆ fdl

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