Su “terzogiornale” del 10 febbraio, Gian Giacomo Migone (vedi qui) ha giustamente denunciato la cattiva coscienza di quella parte dell’opposizione che continua a non ammettere il vero problema alla base della mancata consegna del criminale libico alla Corte penale internazionale: il “patto scellerato” concluso a suo tempo dall’ex ministro Pd del governo Gentiloni, Marco Minniti, con le autorità libiche, patto che ha permesso e continua a permettere la detenzione di migliaia di migranti in campi di prigionia che, a quanto pare, sarebbe meglio chiamare “campi di tortura”. Questo silenzio è perfettamente funzionale alla politica di Meloni, che, come scrive Migone, “è riuscita a trasformare il caso Almasri in una disputa con il potere giudiziario” e “non intende rinunciare alla paternità (o alla maternità) di una politica spregiudicatamente ostile a ogni forma di immigrazione”.
In cosa consiste la disputa giudiziaria? Anzitutto, nella trasmissione al tribunale dei ministri, da parte del procuratore di Roma Lo Voi, della denuncia contro Meloni, Nordio e Piantedosi presentata dall’avvocato Li Gotti, che ha suscitato le ire della stessa Meloni, pronta a far passare come suoi avversari politici tanto Lo Voi quanto Li Gotti, di cui invece sono noti i periodi di militanza in formazioni di destra. Ancora una volta, Meloni si è dimostrata abilissima nello sfruttare i meccanismi della comunicazione (tanto da farci sospettare che la denuncia sia stata inoltrata per favorire il suo governo, ipotesi che non appare del tutto assurda, dato il passato politico del denunciante): ancora una volta, la magistratura “si mette di traverso” alle iniziative del governo, che con tutto il suo impegno si batte per la difesa dei nostri sacri confini. Vorremmo però soffermarci soprattutto sulle giustificazioni del proprio operato addotte dal ministro della Giustizia Nordio.
Fino a pochi giorni fa, Nordio sembrava arrampicarsi sugli specchi, eccependo sul mandato di arresto per Almasri richiesto dalla Corte penale internazionale con motivazioni giudicate inconsistenti da vari esperti. In particolare, Carla Del Ponte, già procuratrice della stessa Corte, ha sostenuto che non era compito di Nordio entrare nel merito di tale mandato; egli doveva limitarsi a trasmettere la richiesta di arresto alla Corte d’appello di Roma. Di fronte a obiezioni di questo genere, il governo Meloni (soprattutto nella persona del ministro Piantedosi) si è rifugiato nella difesa della “ragion di Stato”: la consegna di Almasri alla Corte penale internazionale avrebbe potuto comportare conseguenze molto gravi per la sicurezza del nostro Paese, in primo luogo perché la Libia, per ritorsione, avrebbe potuto liberare dai campi di prigionia migliaia di migranti, che si sarebbero riversati inevitabilmente sulle nostre coste. L’argomento è un po’ più valido di quanto sembrerebbero (vedremo tra un po’ perché abbiamo usato il condizionale) essere le argomentazioni di Nordio, e infatti è stato più o meno implicitamente condiviso anche da molti opinionisti che amano definirsi “liberaldemocratici”.
Tuttavia, né lo statuto della Corte penale internazionale (adottato dall’Italia con la legge 12 luglio 1999, n. 232), né la legge 20 dicembre 2012, n. 237, che stabilisce “le norme per l’adeguamento” del nostro Paese allo stesso statuto, contemplano la “ragione di Stato” come un motivo per non dare corso alle richieste di arresto provenienti dalla Corte. Prima di proseguire, apriamo una parentesi.
L’art. 11 della nostra Costituzione dichiara che “’l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. È in base a questa dichiarazione che alcuni si oppongono all’attuale impegno dell’Italia nel conflitto russo-ucraino; a questi di solito si obietta che il seguito dello stesso art. 11 pone dei limiti alla parte precedente. Proviamo dunque a leggere questa seconda parte: “[l’Italia] consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
Saremmo grati a qualche esperto costituzionalista se ci spiegasse in che senso questa seconda parte dell’art. 11 ponga dei limiti al “ripudio della guerra” contenuto nella prima. Ma c’è anche un altro aspetto che non ci pare trascurabile: si dice infatti che l’Italia accetta “limitazioni di sovranità” se queste hanno la funzione di assicurare la pace tra nazioni, favorendo “le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Ora, cos’è la Corte penale internazionale se non un’organizzazione di questo tipo? E la rinuncia alla “ragion di Stato” non potrebbe rientrare in queste “limitazioni di sovranità”?
Comunque sia, negli ultimi giorni è sceso in campo un nuovo sostenitore delle ragioni di Nordio, l’illustre giurista Sabino Cassese, ormai chiamato a consulto su qualsivoglia problema. Non vogliamo minimamente contestare la competenza di Cassese; tuttavia, può essere interessante dare un’occhiata più ravvicinata allo statuto della Corte penale internazionale e alle “norme di adeguamento” (legge 2012/237). Ora, all’art. 4, punto 1, di quest’ultima legge c’è scritto che “il ministro della Giustizia dà corso alle richieste formulate dalla Corte penale internazionale, trasmettendole al procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma perché vi dia esecuzione”; più avanti (art. 11, punto 2), si precisa che il procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma, “ricevuti gli atti” (corsivo nostro), “chiede alla medesima Corte d’appello l’applicazione della misura della custodia cautelare nei confronti della persona della quale è richiesta la consegna”. Non si parla dunque di possibilità del ministro della Giustizia di entrare nel merito del mandato di arresto della Corte penale internazionale.
Un certo potere discrezionale è posseduto dalla sola Corte d’appello di Roma, la quale può anche “pronunciare sentenza contraria alla consegna” (art. 12, punto 1b). Tuttavia, il suo potere è limitato da quanto previsto dall’art. 59, punto 4, dello statuto della Corte penale internazionale: “L’autorità competente dello Stato di detenzione non è abilitata a verificare se il mandato d’arresto è stato regolarmente rilasciato secondo i capoversi a) e b) del paragrafo 1 dell’articolo 58”. Questi capoversi dicono, in sintesi, che il mandato è emesso se la Corte ha ritenuto che la persona da arrestare a) abbia commesso reati di competenza della Corte e b) che il suo arresto sia necessario per garantire la sua presenza al processo (la Corte non può giudicare in contumacia) o evitare la continuazione dei crimini che gli si addebitano. Quindi, si direbbe che la Corte d’appello non abbia la possibilità di entrare nel merito della richiesta di arresto, ma solo di verificarne la correttezza formale: ma questo le è stato reso impossibile dalla mancata trasmissione della documentazione relativa, e quindi non ha potuto fare altro che ordinare la scarcerazione del generale libico. L’ipotesi che Nordio abbia commesso il reato di omissione di atti d’ufficio non appare dunque totalmente infondata.
Le difese, più o meno d’ufficio, dell’operato di Nordio e del governo Meloni nella vicenda Almasri sono dunque ispirate a un solo principio: sottomettersi alle richieste della Corte penale internazionale solo quando non entrino in contrasto con i nostri interessi, cioè quando servano soltanto a far bello l’Occidente nella difesa dei valori di pace, giustizia e democrazia. Questo è stato molto facile nel caso dell’ex presidente serbo Slobodan Milošević, di vari dittatori africani e, da ultimo, di Putin. Quando, al contrario, si tratta di agire contro leader del “libero Occidente”, come Netanyahu, o contro personaggi il cui arresto ed eventuale condanna può provocare un danno alla “ragion di Stato”, la Corte diventa “la Corte dei miei stivali”, nel linguaggio degli ex neofascisti come Gasparri, oppure le sue delibere vengono sottoposte a una serie di rilievi critici da parte di illustri giuristi, che, suonano, almeno a prima vista, piuttosto capziosi.
L’esito più o meno automatico di questo atteggiamento è il rifiuto dell’Italia a unirsi alla protesta di 79 paesi, tra cui quasi tutti quelli dell’Unione europea (bell’esempio di europeismo!), per le sanzioni contro la Corte penale internazionale annunciate da Trump. Senza volere in alcun modo giustificare quest’ultimo, non si deve dimenticare che gli Stati Uniti non hanno mai aderito a questo organismo, come, tra gli altri, la Russia, la Cina e Israele: almeno questi Paesi non sono così ipocriti come il nostro.
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