Violenza giovanile. I criminologi incolpano la famiglia

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Quando si esaminano le cause della violenza giovanile si tirano in ballo la droga, l’alcool, la ludopatia, la dipendenza dalla rete, oltre alle famiglie problematiche ed ai modelli umani irraggiungibili e frustranti. Ma c’è dell’altro. Vittorino Andreoli, nel suo ultimo libro (‘L’ira funesta’) parla di ‘rabbia’ che esplode. Mentre l’ira nasce da cause esterne (un insulto, un danno, una lesione) e provoca reazioni immediate, la rabbia, invece, è qualcosa che ci cova, alimentata da situazioni di disagio personale e sociale. Ecco allora masse di individui sfogare su chiunque, il rancore subconscio che nutrono verso la vita, senza alcun collegamento ai loro problemi. Oggi, poi, alcuni criminologi, alla luce delle conversazioni con i giovani accusati di gravi reati, incolpano un tipo di educazione.
Mauro Grimoldi, noto esperto di criminologia minorile, nel suo recente libro (‘Dieci lezioni sul male’), attribuisce una buona fetta di responsabilità al tipo di famiglia che abbiamo creato negli ultimi decenni. Così, dando per assodata l’aggressività tipica dei ragazzi provenienti da famiglie problematiche, oppure quella dei figli inseriti in cosche di criminalità organizzata, per i quali il crimine è regola sociale, secondo Grimoldi occorre piuttosto rivolgere l’attenzione alle cosiddette famiglie normali. Noi abbiamo creato un tipo di famiglia molto presente, che protegge il bambino
dalle frustrazioni e lo mette a capotavola del desco famigliare.
Si tratta della ‘famiglia affettiva’, diversa rispetto alla ‘famiglia normativa’ di fine ‘800, inizio ‘900, in cui l’educazione era finalizzata, magari a suon di ceffoni, al rispetto delle regole collettive. Ora, la ‘famiglia affettiva’ regala senza dubbio ai nostri figli un’infanzia serena e gratificante, tuttavia le frustrazioni tendono a spostarsi all’età adolescenziale, quando si presentano i problemi della vita scolastica, della relazione di gruppo e delle prime esperienze amorose. Così, può capitare che i ragazzi avvertano, da parte dei genitori, una sorta di obbligo a proteggerli anche oltre i termini naturali dell’infanzia.
Non dimentichiamo che l’adolescenza è un’età molto fragile, non meno della vecchiaia. Il problema è che il ragazzo, per potersi ‘individuare’, deve ‘separarsi’ dai genitori. Egli vive, infatti, un periodo di passaggio in cui celebra simbolicamente il lutto del bambino che è stato per dar vita all’adulto che si appresta ad essere. Accade così che a commettere crimini, anche gravi, sono spesso ragazzi di buona famiglia, apparentemente adattati ma che, a causa di un’estrema sensibilità, soffrono di seri problemi emotivi e rivelano qualcosa di strutturalmente malato nel rapporto con gli altri. Si tratta degli stessi che, nelle interviste del giorno dopo, sono definiti bravi ragazzi. Questi ‘minori sofferenti’, poveri di strumenti culturali e di capacità comunicative, sentendosi socialmente inadeguati, approdano ad un tipo di ‘sessualità facile’. Quale può essere la storia affettiva spostata sui social, oppure uno stupro di gruppo, consumato come surrogato di un rito di passaggio ed in stato di scarsa consapevolezza.
Diciamo che, in questo tipo di esperienze, sia genitori che figli pagano un alto prezzo. In caso di crimine, i genitori, da una parte, credono all’innocenza del proprio figlio e lo difendono sempre.
Questo, sia perché possiedono di lui l’immagine interiorizzata del bambino che è stato, sia perché vedono messa in pericolo la loro autostima di genitori. I ragazzi, invece, vivono ciò che hanno fatto come se non li riguardasse.
Non hanno idea del perché hanno fatto male ad una persona o perché l’hanno uccisa. Vittime di un interno conflitto delirante, essi rimuovono tutto. Si parla, in questo caso, di ‘castrazione della parola’. In tutto questo c’è un’amara verità. Se il ragazzo fosse riuscito a trasferire la sua sofferenza interiore sul linguaggio verbale, confidandosi con qualcuno, non avrebbe avuto bisogno di esprimersi con l’azione criminosa.

Affermano i criminologi che questi adolescenti percepiscono il crimine compiuto come un fatto ‘meteorologico’, fatale ed inarrestabile: “Oggi c’è il sole, oggi piove, oggi mi sono trovato ad ammazzare una persona”. Ne deriva che il compito degli operatori è quello di far rientrare questi ragazzi nella coscienza del delitto commesso. Esso consiste nel portarli alla constatazione che loro c’erano. Allora, il rimedio è uno solo. Aprire ‘sportelli di ascolto’ in tutte le scuole. Ma devono essere aiuti strutturali, integrati nel sistema scolastico.

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Luciano Verdone





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