Come ogni anno i Castelli Romani sono soggetti a uno scempio ambientale legalizzato, ovvero i tagli a ceduo nel Parco Regionale per la produzione di legname di castagno. Premetto che questo articolo non vuole essere una mera critica a un sistema di taglio che comunque non è assolutamente sostenibile per le modalità invasive e per le ripetute e accertate violazioni che si risolvono con una ammenda irrisoria, bensì una riflessione dove non possiamo non considerare l’interezza del sistema energetico in cui viviamo, che comprende necessariamente anche la produzione di cibo e di energia per uso domestico. L’Agricoltura è la grande assente quando si parla di Cambiamenti Climatici, e sedicenti esperti finiscono per ridurre tutto al “bisogna forestare di più”, ma la tutela della Biodiversità e la Lotta ai Cambiamenti Climatici la si fa facendo i conti con i bilanci energetici. L’affermazione che più spesso leggo suona più o meno così: “più boschi abbiamo e più aumentiamo la biodiversità e riduciamo le emissioni di gas serra”. Non è detto che sia così, e come sempre è la Fisica a venirci in aiuto.
Partiamo dal discorso energetico. La produzione di legname per il riscaldamento domestico tramite termocamini è una realtà sempre più diffusa, anche a fronte dell’aumento del costo dell’energia avvenuto negli ultimi anni. Riscaldarsi con il pellet proveniente dal Canada non è così furba come soluzione, sia perché ci rendiamo dipendenti da variazioni del mercato globale che non possiamo controllare, sia perché l’impatto ambientale del trasporto non è trascurabile. Produrre la legna in loco è certamente migliore per i motivi appena detti, e anche perché se tutto funzionasse a dovere i Comuni potrebbero avere un controllo sull’operato delle ditte che effettuano i tagli. L’alternativa sarebbe quella di usare gas naturale, che però a differenza della legna non ha un bilancio di emissioni neutro. Bruciare legna infatti significa emettere CO2 che era già presente in atmosfera. È vero che sarebbe meglio mantenerla stoccata in un bosco vivo, nel sottobosco e nel suolo, ma se per farlo poi ci si riscalda con pellet canadese, o con legna proveniente da chissà dove, o peggio con gas naturale e GPL, magari mentre si scrive l’ennesimo articolo contro i tagli dei boschi nella propria casa ben riscaldata, si capisce che si tratta solo di ipocrisia.
Va inoltre detto che la superficie boschiva in Italia è aumentata molto negli ultimi decenni a causa dell’abbandono delle superfici coltivate e del conseguente reinstaurarsi della successione vegetale che porta alla creazione di nuovi boschi. Si tratta di aree boschive in stato di avanzamento che nel tempo diventeranno boschi vetusti in grado di sequestrare grandi quantità di carbonio. Quindi affermare genericamente che “bisogna riforestare il territorio italiano” ha una valenza praticamente nulla, perché per la creazione di un bosco occorre tempo e i suoli agricoli abbandonati rappresentano già un patrimonio di rigenerazione decennale, quindi semmai bisogna inserire il tema agricoltura in questo discorso più che continuare a pensare a riforestare non si sa ben cosa. Anche la presunta biodiversità non è necessariamente correlata all’avere boschi naturali, perché una volta stabilitosi un ecosistema più o meno stabile, questo avrà la sua fauna e flora e difficilmente ci saranno risorse per nuove specie. La biodiversità invece aumenta quando abbiamo una moltitudine di biotopi ed ecotoni diversi, anche con aree dove si svolgono attività agricole, dove specie molto diverse possono interagire e prosperare. Uno degli esempi più classici sono le radure, dove proprio la mancanza di alberi permette lo sviluppo di vegetazione bassa che fornisce cibo per specie che altrimenti in un bosco non riuscirebbero a vivere, come piccoli mammiferi e insetti impollinatori.
Ma torniamo al discorso agricoltura. Oggi l’Italia importa quasi tutto il cibo di cui si alimenta, cereali, soia per gli allevamenti, frutta e verdura, frutta secca. Perfino le mandorle ormai le importiamo dalle devastanti coltivazioni californiane, quando in Italia avevamo moltissima produzione locale grazie alle consociazioni con uliveti del Sud Italia. La domanda è: ha senso aumentare la superficie boschiva italiana e importare dalle Americhe quasi tutto il cibo di cui ci alimentiamo? Qual è l’impatto di queste produzioni e del continuo trasporto su distanze così lunghe? L’Agricoltura è il settore con il più alto tasso di emissioni climalteranti, però perfino presunti esperti scienziati non riescono a chiudere il cerchio del bilancio energetico e finiscono per parlare ideologicamente citando dati parziali che perdono significato. Il buon senso, ma anche la fisica, ci dice che per combattere i cambiamenti climatici dovremmo prima di tutto ridurre quanto più possibile l’importazione di cibo, perché possiamo anche riforestare tutta l’Italia, ma alimenteremmo la deforestazione in altri paesi, anzi in paesi dove non sorgono scrupoli nel devastare foreste per interessi economici. In sostanza stiamo solo spostando il problema altrove, ma la CO2 in atmosfera non rispetta i confini geografici. Dobbiamo invece come prima cosa recuperare queste aree abbandonate e renderle produttive mantenendo intatta la fertilità recuperata in decenni di abbandono. Oggi siamo in grado di coltivare in modo rigenerativo, ovvero integrando sistemi produttivi boschivi con produzioni a terra, o addirittura coltivando specie arboree a rapida crescita da usare come biomassa per aumentare la sostanza organica nel suolo. Un’agricoltura che stocca CO2 invece di immetterla, ma che allo stesso tempo permette una biodiversità senza precedenti, specialmente se con boschi confinanti.
Non andremo da nessuna parte finché non inizieremo a pensare all’insieme delle cose, finché penseremo a compartimenti stagni, modalità di pensiero dove perfino molti ambientalisti inciampano, specialmente chi si occupa di discipline molto specifiche ma che non ha mai osservato bene il territorio. I Castelli Romani sono l’esempio perfetto dove attuare pratiche del genere, dove potrebbe convivere una gestione oculata del parco per la produzione locale di legname senza che sia usato come banca per fare soldi, e contemporaneamente una produzione agricola nuova, diversificata e integrata con sistemi boschivi che diminuirebbe la necessità di attingere dai nostri boschi, unitamente alla produzione crescente di energia solare grazie a impianti fotovoltaici su tetti e capannoni. La produzione energetica potrebbe essere distribuita e diversificata, permettendo l’indipendenza sia energetica che alimentare, o comunque una forte autonomia. Tutto questo favorirebbe anche una capacità di trattenere acqua maggiore e minor necessità di acqua per coltivare, aiutando le nostre falde già fortemente provate. Il futuro è fatto di integrazione, non di ideologie, e troppi finti “esperti”, sia tra chi è a favore dei tagli sia nel mondo ambientalista, oggi parlano e scrivono senza aver mai osservato come funziona il mondo e come la specie umana dovrebbe integrarsi in esso.
Daniele Previtali
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