di Edoardo Sassi
La retrospettiva inaugurata dalla regina consorte di Norvegia, Sonja Haraldsen, e dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella
È una mostra di cui si sa quasi tutto, perché arriva a Roma dopo una lunga tappa al Palazzo Reale di Milano (con enorme, prevedibile, successo di pubblico). Vedere o rivedere però, tutte insieme, cento opere di uno dei maestri della pittura a cavallo tra Otto e Novecento — il grande cantore dell’angoscia contemporanea Edvard Munch (1863-1944) — fa comunque il suo effetto. Soprattutto per la forza espressiva dei contenuti di un’arte che parla (anche) di sofferenza, malattia, angoscia, solitudine. Ma soprattutto di morte.
Uno dei pittori più amati dal grande pubblico
Ed è un paradosso come uno dei pittori meno idilliaci della storia sia diventato, nei decenni, anche uno dei più amati dal grande pubblico, successo trainato senza dubbio dalla fama planetaria dell’Urlo, unica opera al mondo ad aver ispirato (anche) un’emoticon, e tra le pochissime, forse con la Gioconda, ad aver generato di tutto, dai d’après di Andy Warhol ai rotoli di carta igienica.
L’«Urlo» presente solo con una versione litografica
L’Urlo, va detto subito, nella mostra inaugurata il 10 febbraio a Palazzo Bonaparte dalla regina consorte di Norvegia Sonja Haraldsen e dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, non c’è. Nessuna delle tre versioni principali (da tempo ritenute intrasportabili e rimaste a Oslo). C’è però una rara litografia del 1895, e soprattutto c’è l’altro Munch, con opere iconiche e altre meno note, interamente selezionate all’interno della più grande galleria espositiva «monografica» del mondo, il Munchmuseet di Oslo, che possiede 28 mila opere dell’artista oltre ai suoi testi, alle lettere, alle foto che amava scattare, agli oggetti personali.
«Il grido interiore»
Anche questa mostra romana — sottotitolo Il grido interiore, prodotta da Arthemisia — è curata da Patricia G. Berman, studiosa statunitense che di Munch è una delle massime esperte al mondo. E che infatti ha saputo scegliere dando al percorso, sia pur con i limiti dovuti a una sintesi di taglio antologico, una sua esaustività. C’è tutto Munch, o quasi: quello della Disperazione di un uomo sullo stesso ponte e sotto lo stesso cielo allucinato che anticipa di appena un anno (1894) il già citato Urlo; quello della Notte stellata (1922-244) e delle Ragazze sul ponte (versione del 1927), quello della Malinconia (1900-1901) che apre il percorso espositivo. Ma lungo le sale si possono ammirare anche aspetti meno noti della (sterminata) produzione dell’artista norvegese, dai primi quadri che già rivelano un’ottima mano sia pur maggiormente ancorata alla prassi accademica, ai rari filmini che Edvard girò con pionieristiche telecamere (possedeva una Pathé-Baby comprata nel 1927), riprese in cui si intravedono esperimenti di moderna (per allora) alienazione urbana. Non manca un focus sul rapporto tra Munch e l’Italia, dove l’artista viaggiò a lungo. Tra i lavori esposti anche un disegno con la tomba dello zio Petrus Andreas Munch, storico, sepolto nel cimitero acattolico di Testaccio.
Un viaggio dentro l’inquietudine della condizione umana
Nell’insieme, un intenso viaggio tra Simbolismo ed Espressionismo nascente, dentro l’inquietudine della condizione umana: un viaggio tra i colori urlanti di una pittura di netto impianto autobiografico, con i numerosi Autoritratti e le tante tele dove risuona l’eco delle crisi psichiatriche, dei dolori, dell’alcolismo, dei tanti lutti familiari — tra cui la morte dell’amata sorella — fino alla tormentata e tragica relazione con Tullia Larsen, la cui sagoma dai rossi capelli torna ripetutamente lungo il percorso (fino al 2 giugno, intero 18 euro, mostrepalazzobonaparte.it).
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