così è crollato il processo al modello Riace

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Con il rigetto dei ricorsi si chiude il processo Xenia che nel 2018 aveva portato alla sbarra il sindaco Mimmo Lucano e la sua idea di accoglienza e inclusione per i migranti

Una determina, la numero 57 del settembre del 2017, relativa ad alcune rendicontazioni dei progetti Cas per ottenere i finanziamenti ministeriali rispetto a spese che erano già state effettivamente sostenute. Una determina di poche migliaia di euro che, dopo la sentenza della seconda sezione della Corte di Cassazione, è costata la conferma della lieve condanna per falso (un anno e sei mesi con sospensione della pena) nei confronti del sindaco di Riace Mimmo Lucano che in primo grado era stato condannato alla pena monstre di 13 anni e due mesi di reclusione dal Tribunale di Locri.

Si chiude così, in terzo grado, il processo “Xenia” che nel 2018 aveva smantellato il “modello” di inclusione e integrazione messo in piedi in un minuscolo paesino della Calabria più periferica e in difficoltà. Un modello che aveva portato Riace al centro dell’attenzione dell’intero pianeta e che era crollato dopo l’arresto del primo cittadino finito ai domiciliari con l’accusa di associazione a delinquere, falso, abuso d’ufficio, truffa e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

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Le ispezioni della Prefettura

Tra gennaio e giugno del 2017, sono cinque le ispezioni che si susseguono a Riace inviate dall’allora prefetto Michele Di Bari. Ed è in quelle relazioni, molto diverse tra loro, che emergono le differenze più marcate sul modello finito sul banco degli imputati. Nella prima relazione consegnata dai funzionari sbarcati a Riace, con gelido linguaggio burocratico, si evidenziano numerose criticità legate ai residenti “a lungo termine”, sulla condizione delle case e sulla gestione del denaro. Una relazione che, nella sostanza, sembrava guardare solo all’aspetto burocratico dell’integrazione senza accorgersi della quotidianità “diversa” di Riace. Sarà questo il documento che darà il via all’inchiesta.

Ma se la prima relazione aveva “smontato” il modello Riace, nel maggio del 2017 arrivano nel piccolo borgo jonico altri tre funzionari della Prefettura di Reggio che di quel piccolo paese, tracciano un quadro che sembra venire da un’altra dimensione rispetto a quello precedentemente redatto dalla Prefettura. I funzionari ministeriali girano per il paese, ne respirano il profumo e raccontano di una scuola riaperta che grazie alla nuova linfa dei bambini venuti dal mare era diventata «un miscuglio di razze, dialetti, diademi e treccine» perché, annotano «una scuola senza bambini è la conclusione ingloriosa di un mondo, un universo senza futuro».

La condanna in primo grado

Sono 27 in tutto gli imputati rinviati a giudizio nel procedimento: tutti accusati, a vario titolo, di avere lucrato sui progetti dei migranti; tutti, secondo l’ipotesi d’accusa, coinvolti in un sistema d’accoglienza che, scrivevano i giudici locresi nelle motivazioni della sentenza di primo grado, era nato solo «per trarre profitto» che non aveva «nessuna connotazione altruistica, né alcunché di edificante» e che «si basava su una piattaforma organizzativa collaudata e stabile che si avvaleva dell’esperienza e della forza politica che Lucano possedeva». La sentenza, arrivata dopo un lungo processo, è pesantissima: Mimmo “il curdo” Lucano viene condannato infatti a 13 anni e due mesi di reclusione – quasi il doppio della pena rispetto alle richieste della pubblica accusa – e a milioni di euro di risarcimenti e multe. Una sentenza che sembra una pietra tombale nei confronti di un progetto che aveva portato Riace ad essere studiato in diverse università nel mondo come esempio di inclusione e integrazione e che verrà ribaltata dal successivo grado di giudizio.

Il processo d’Appello

È il secondo grado di giudizio a cambiare le carte in tavola. I giudici d’Appello di Reggio infatti smontano pezzo per pezzo la sentenza del primo giudice, identificando un unico reato concretizzato sulla determina 57 a firma di Lucano. Nelle oltre 300 pagine di motivazioni, i giudici reggini smantellano le ipotesi d’accusa, identificando il modello Riace come «una mission tesa a perseguire un modello di accoglienza integrata, ovvero non limitato al solo soddisfacimento dei bisogni primari, ma finalizzato all’inserimento sociale dell’ospite di ciascun progetto».

Nessuna associazione a delinquere quindi ma «condotte isolate, difficilmente collocabili in un disegno unitario ed anzi spesso frutto di iniziative tra loro scarsamente coordinate, se non conflingenti. Le reazioni ispettive, le prove per testi e financo le stesse conversazioni intercettate delineano un disordine amministrativo e contabile, ma anche l’assenza di un governo complessivo delle azioni». Una retromarcia senza se e senza ma rispetto al giudizio draconiano del tribunale locrese e che, in più occasioni, ristabilisce la verità su un modello di accoglienza nato dal basso e diventato manifesto internazionale di integrazione.



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