Oggi la città di Cosenza ha rinnovato la sua secolare devozione verso la Madonna del Pilerio, patrona della città e dell’arcidiocesi. Le celebrazioni sono iniziate con l’accensione del cero votivo offerto dall’amministrazione comunale, durante una solenne Messa presieduta dall’Arcivescovo Metropolita Giovanni Checchinato. In assenza del sindaco Franz Caruso, l’assessore Damiano Covelli ha rappresentato il Comune in questa significativa cerimonia.
Nel pomeriggio, alle 16:00, si è svolta la tradizionale processione per le vie principali della città, preceduta da una funzione religiosa officiata da monsignor Leonardo Bonanno, vescovo emerito di San Marco-Scalea. Durante la processione, il simulacro della Vergine è stato accompagnato da numerosi fedeli e ha fatto soste significative per gli omaggi floreali da parte del prefetto e del sindaco.
La devozione alla Madonna del Pilerio affonda le sue radici nel XVI secolo, quando, nel 1576, si crede che la Vergine abbia salvato Cosenza da una devastante epidemia di peste. Successivamente, nel 1783, la Madonna del Pilerio è stata invocata per proteggere la città durante un violento terremoto. Da allora, ogni 12 febbraio, la comunità cosentina celebra con fervore la sua patrona, rinnovando una tradizione di fede che attraversa i secoli.
Le celebrazioni odierne si inseriscono in un contesto di eventi religiosi iniziati il 4 febbraio con il settenario in onore della Madonna del Pilerio, caratterizzato da messe quotidiane, catechesi giubilari e momenti di preghiera comunitaria.
La giornata si è conclusa con una messa vespertina, lasciando nei cuori dei fedeli un rinnovato senso di appartenenza e devozione verso la loro celeste patrona.
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L’omelia di mons. Checchinato
Conosciamo bene il testo del Vangelo di Cana, che descrive non tanto il “primo”, ma il “principio” dei segni compiuti da Gesù, perché in esso -come in un archetipo- si possono trovare nascosti dalle parole e dai fatti raccontati tutte le realtà che corrispondono al Vangelo, la buona notizia. Il termine “segno” è una delle parole chiave del Vangelo di Giovanni che chiama in questa maniera quelli che gli altri evangelisti chiamano miracoli e ce ne offre ben sette. Il segno di Cana lascia trasparire la potenza di Dio che si manifesta attraverso il Figlio, ma rappresenta anche un motivo di trasformazione, di rieducazione interiore, offrendo un invito alla conversione. C’è una festa di nozze ma manca il vino, elemento ritualmente essenziale per la celebrazione, e questa mancanza ci ricorda ogni situazione che impedisce di fare festa, ovvero il complesso delle tensioni e delle contraddizioni – anche tragiche – che segnano in profondità le forme della convivenza umana, chiudendo gli spazi della condivisione e della fraternità. Dopo uno scambio di battute tra Gesù e la Madre, quest’ultima dice ai servitori: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”; nelle situazioni di difficoltà, in cui mancano le condizioni materiali per la celebrazione della festa della vita, riceviamo l’indicazione di affidarci alla parola del Signore, di puntare tutto su di essa. E questa parola ci indica la possibilità di un esito positivo di fronte alle difficoltà che non è rappresentata dall’individuazione di ciò che manca con un surrogato ad hoc, ma attraverso la proposta di un itinerario nuovo, e comporta una radicale rieducazione della vita interiore e del modo di guardare il mondo. Il fatto nuovo nelle nozze di Cana non è costituito semplicemente dall’abbondanza del vino, ma da quello che è avvenuto nell’intimo del cuore, là dove è in atto una trasformazione radicale che consente di discernere ciò che è buono e ciò che è bello: la conversione interiore, che si accompagna alla scoperta che si può impegnare la vita per custodire e promuovere la vita altrui. Se ci si affida alla parola di Gesù, diventa chiaro che il senso della vita non può consistere nel difendere i privilegi personali o di gruppo, pochi o molti che siano, affermando magari che in questo consiste la pace e la sicurezza, ma nel dare il proprio contributo affinché ognuno possa vivere una vita degna di essere vissuta.
Una Chiesa “in uscita” sceglie di farsi carico della storia e non può dunque ignorare le questioni che provocano nel mondo disuguaglianze profondissime e sofferenze inaudite, a carico della stragrande maggioranza delle persone che abitano il pianeta. Anche noi ci troviamo, come di discepoli a Cana, a fare i conti con qualcosa che manca e rende la festa impossibile, o possibile solo ad alcuni privilegiati. Per noi, una sfida con cui fare i conti è quella rappresentata dalla economia dell’esclusione e della disuguaglianza, poiché -ci dice Papa Francesco- “questa economia uccide” e non è vero che la crescita economica favorita dal libero mercato migliori la condizione dei più poveri. E così, se da una parte cresce il bisogno di sicurezza, soprattutto da parte dei gruppi umani che hanno paura di perdere i propri privilegi, dall’altra si alimentano i serbatoi della miseria e della disperazione che possono arrivare a forme violente di protesta e di odio sociale. “Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé” – si dice al n. 59 dell’EG – “non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità”. Negli ultimi due decenni anche in Italia è aumentata a dismisura la percentuale di quanti sperimentano sulla propria pelle il carattere illusorio delle promesse di crescita. I numeri che segnalano l’aumento delle famiglie in povertà assoluta dicono che allo zoccolo duro della povertà tradizionale, per così dire, si è aggiunto un inedito esercito di nuovi poveri di coloro che fino a poco tempo fa conducevano una vita non diversa dalla maggioranza dei loro vicini, che facevano progetti di vita, avevano stili di consumo, coltivavano reti di relazioni tipici di una società benestante, che di colpo si sono ritrovati nell’indigenza radicale. Cittadini per i quali l’orizzonte si è rovesciato di colpo, come avviene nei naufragi (Revelli). In questa situazione, cambia radicalmente il modo di pensare la sicurezza. Essa si traduce in atteggiamenti, pratiche sociali e (ancora una volta) politiche che – più o meno apertamente – individuano nei gruppi umani più fragili non le vittime più esposte agli effetti della crisi globale, ma i principali responsabili di essa. La povertà dei più marginali ritorna ad essere una colpa ed una minaccia per l’ordine pubblico, o il decoro urbano; è significativo il fatto che è stata coniata una nuova parola per indicare la paura dei poveri o della povertà: aporofobia. Il risentimento diffuso verso le persone che migrano, verso i Rom, verso le persone senza dimora, costituisce il segno di una metamorfosi morale. Il rancore che alimenta il comportamento pubblico di molti è l’indicatore eloquente di una sorta di “malessere da perdita”, provocato dalla percezione dello scarto tra aspettative di benessere e precarietà sperimentata. Non ci vogliono molti studi per verificare che all’origine della crisi finanziaria, e delle sue conseguenze, vi è una profonda crisi antropologica, che si evidenzia nella negazione del primato dell’essere umano, e nella idolatria del denaro. Questa crisi profonda fa emergere la necessità di una conversione personale e comunitaria a ciò che è essenziale e che non passa, ovvero alla gioia dell’evangelo, come suggerisce il Vangelo di Giovanni di oggi. È questo il fondamento che permette di affrontare la globalizzazione dell’indifferenza (n. 54), di sognare una Chiesa povera, disponibile ad impegnarsi per la liberazione dei poveri e dei sofferenti, nella misura in cui si converte alla povertà a cui il Vangelo chiama.
L’ancoraggio al Vangelo permette alla Chiesa tutta di trovare il fondamento della “speranza che non delude” (Romani 5,5) ponendo attenzione al tanto bene che è presente nel mondo per non cadere nella tentazione di ritenerci sopraffatti dal male e dalla violenza. Ma i segni dei tempi, che racchiudono l’anelito del cuore umano, bisognoso della presenza salvifica di Dio, chiedono di essere trasformati in segni di speranza. (n. 7). Nella bolla di indizione del Giubileo il Papa dice che i segni di speranza più attesi in questo anno giubilare sono le iniziative per la pace, per la difesa della vita, a sostegno dei carcerati, degli ammalati, dei giovani, dei migranti, degli anziani, dei miliardi di poveri che mancano del necessario del vivere e che sono nella maggior parte dei casi vittime e non colpevoli. La responsabilità di porre i segni della speranza riguarda tutti, perché non si può fare festa da soli. Non c’è festa quando c’è la guerra: ecco che papa Francesco rinnova l’appello affinché con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari si costituisca un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri. Un altro invito è destinato alle Nazioni più benestanti, perché stabiliscano di condonare i debiti di Paesi che mai potrebbero ripagarli. Prima che di magnanimità, è una questione di giustizia. “Come insegna la Sacra Scrittura” – aggiunge Francesco – “la terra appartiene a Dio e noi tutti vi abitiamo come «forestieri e ospiti» (Lv 25,23); se veramente vogliamo preparare nel mondo la via della pace, impegniamoci a rimediare alle cause remote delle ingiustizie, ripianiamo i debiti iniqui e insolvibili, saziamo gli affamati” (n. Bolla 16). Le sollecitazioni che vengono dal vangelo di oggi sono fondamentali anche per il cammino della nostra Chiesa diocesana. Anche qui siamo chiamati ad approfittare di questo anno giubilare per maturare un atteggiamento personale e comunitario di ascolto profondo delle persone più in difficoltà, per cercare di risalire alle cause della povertà e della disuguaglianza e cercare di rimuoverle, con il contributo di tutti. In questa prospettiva, alcune questioni come quelle del lavoro e della casa si pongono come particolarmente urgenti, senza dimenticare i problemi legati alla carenza strutturale dei servizi sociali e sanitari. Si tratta di un lavoro da fare insieme, nella consapevolezza che proprio i dimenticati, i senza voce, gli esclusi, rappresentano misteriosamente ma realmente le fondamenta nascoste, i pilastri (i pilerii…) della nostra città. E quando avremo operato in modo che tutti possano sedersi al tavolo del banchetto preparato da Dio per tutti i popoli del mondo, potremo gustare il vino nuovo delle nozze che lui ha tenuto in serbo per ognuno, perché si faccia festa, tutti insieme, e per sempre.
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