di Viviana Mazza
Trump si è preso la scena, rivelando il deserto di idee che il partito democratico deve attraversare. Demoralizzato, il campo progressista cerca voci e iniziative per capire«chi siamo e chi rappresentiamo». Primo obiettivo: ritrovare un contatto con la working class, “la base” dei lavoratori oscurata da élite e corporation
Il partito democratico non si è ancora ripreso. Alcune migliaia di persone hanno marciato per protesta contro l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca ma molti confessavano d’essere spossati e demoralizzati: nel 2017 erano mezzo milione, nella protesta più imponente nella storia americana. In una conversazione sul New York Times, qualche giorno fa, il commentatore conservatore Bret Stephens chiedeva alla collega progressista Gail Collins: «È passata una settimana dall’insediamento. Ti senti: a) indignata e pronta alla battaglia; b) disorientata e svogliata; c) pronta a leggere finalmente tutti i 12 volumi di A Dance to the Music of Time di Anthony Powell?». E Gail rispondeva che ha così tanta difficoltà ad affrontare la realtà che non riesce più a guardare i notiziari.
Bernie Sanders: «Il partito democratico ha abbandonato la classe operaia. Ora la classe operaia ha abbandonato lui»
«La mia prima risposta è: quale resistenza?», ci dice lo stratega democratico Angelo Greco, quando gli chiediamo se dopo le lotte intestine e il panico stia emergendo finalmente una risposta della sinistra al trumpismo. Greco lavora per diverse organizzazioni e candidati progressisti, dalla campagna di Bernie Sanders nel 2016 all’organizzazione “Our Revolution” che ne ha continuato la missione, e ha anche collaborato con quella di Kamala Harris. Alla parola resistenza, in realtà, preferisce accountability: «Stiamo cercando di pensare a come sarà possibile mettere l’amministrazione Trump davanti alle sue responsabilità, ma allo stesso tempo e soprattutto a come mettere il partito democratico davanti alle sue responsabilità. Sono molto confuso sulla strategia, perché è tutto così disaggregato e decentralizzato. E a volte questo può essere un asset, ma in questo momento può anche essere dannoso, perché nessuno sa cosa fare. Abbiamo, non dico tra tutti i democratici, ma diciamo all’interno della sinistra, un approccio misto su come gestire Trump: schiacciarlo alle sue responsabilità? Lavorare con loro su alcune idee populiste come ha detto anche Bernie, per esempio sull’Efficienza? Non ho la risposta e non credo che ce l’abbia nessuno. Tutti stanno in silenzio, con la testa sotto la sabbia».
John Fetterman: «Non capisco perché sia controverso dire che abbiamo bisogno di un confine sicuro»
La lotta per la leadership del Democratic National Committee (Dnc) era vista come un punto di passaggio importante per “riformare il partito” da Joseph Geevarghese, direttore esecutivo di Our Revolution, all’indomani della vittoria di Trump. «Alla fine, credo che stia avvenendo un riesame fondamentale di chi siamo, come partito, e di chi rappresentiamo», ci disse allora. «Ci sarà un’elezione per il prossimo presidente del Dnc in primavera e penso che questa domanda — chi siamo e chi rappresentiamo — influenzerà la sua selezione. La questione fondamentale che dobbiamo affrontare è l’influenza delle corporation all’interno del partito. Quello che Trump e i repubblicani sono riusciti a fare con successo è identificarsi come il partito dei lavoratori e della working class e questo significa che hanno definito noi come il partito delle corporation, di Wall Street e delle élite. Ma secondo me questo non è davvero chi siamo noi e chi sono loro…. Penso che rivedremo le lotte del 2016 e 2020: i populisti economici rappresentati da Bernie Sanders e Elizabeth Warren si scontreranno con i sostenitori delle corporation all’interno del partito. Consentiremo alle corporation di influenzare la piattaforma democratica e le sue politiche? Quello che ha distrutto il partito democratico è che non puoi prendere soldi sia dalle corporation che da piccoli donatori e rappresentare entrambi».
Marie Gluesenkamp Perez: «Non esiste un miracoloso trucco che sistemerà i democratici: servono candidature dal basso»
Lo scontro è evidente anche sui social: nel giorni scorsi qualcuno criticava il marito di Kamala Harris, Doug Emhoff, che va a lavorare per un grosso studio legale dove rappresenterà società di private equity; ma il deputato della California Ro Khanna lo difendeva mettendo in guardia dai «test di purezza», anche perché — ricordava — Lincoln era un avvocato e Franklin Delano Roosevelt aveva fatto i soldi con investimenti immobiliari, nell’oppio e nel carbone.
Alla fine, peraltro, i due favoriti per la leadership della Dnc, Ken Martin del Minnesota, che ha vinto, e Ben Wikler del Wisconsin, entrambi uomini bianchi di mezza età, sembrano figure piuttosto mainstream anche se l’uno sostiene il ritorno del potere ai partiti statali e l’altro viene accusato di essere uno strumento dei grossi finanziatori e dei consulenti del partito di Washington. Non sembrano affrontare davvero la questione delle responsabilità del partito democratico per l’elezione di Trump, ma forse è una “bolla” in cui è impossibile farlo. «Va detto che il Dnc non è come un partito europeo» osserva Greco «dove il leader parla di politica e definisce l’agenda; è più concentrato sull’organizzazione, la raccolta fondi e la trasmissione del messaggio, anche se ci sono persone che cominciano a pensare che dovrebbe essere qualcosa di più».
Gail Collins: «Ho così tanta difficoltà ad affrontare la realtà che non riesco più a guardare i notiziari»
Ripartire dal basso
Chi vuole ripartire ci sta provando dal basso. Greco lavora anche con una organizzazione che appoggia l’aumento del salario minimo: stanno mobilitando lavoratori e sindacati per far pressione sui politici democratici a livello statale a New York, in Illinois, Maryland, perché approvino leggi o referendum sul salario minimo. «Il nostro messaggio è: se avete perso contro Trump è perché non avete parlato dei bisogni dei lavoratori».
Geervarghese sottolinea l’importanza delle elezioni nei distretti scolastici, nei consigli municipali, nelle legislature locali perché «è quello che hanno fatto i repubblicani, riorganizzarsi a partire dalla base» e perché «dobbiamo formare nuovi leader, ci sono una manciata di progressisti, ma il partito è più controllato dai centristi».
Mariann Edgar Budde: «Presidente, abbia pietà delle persone Lbgtq e dei migranti. Io radicale? E’ solo frutto dei tempi»
Rebecca Katz, Julian Mulvey e Tommy McDonald, tre strateghi democratici che hanno lavorato con Sanders (e Biden), con i senatori John Fetterman della Pennsylvania e Ruben Gallego dell’Arizona, hanno appena fondato a Philadelphia la “Fight Agency” con l’obiettivo di riconquistare la working class. Guardano alle elezioni di Midterm del 2026 e alle presidenziali del 2028 e vogliono aiutare candidati “non tradizionali”, outsider con un appeal populista e anti-establishment, anche indipendenti. È un riconoscimento che viviamo in un’era populista. Fetterman, che quando vinse nel 2020 veniva descritto come un unicorno, un raro candidato che riesce a funzionare nelle città multietniche e nel sobborghi dei professionisti istruiti ma non spaventa la working class bianca, è andato a trovare Trump a Mar-a-Lago ed è stato uno dei 12 senatori democratici che si sono uniti ai repubblicani nel votare il Laken Riley Act, legge che autorizza l’espulsione di immigrati illegali accusati di furto o di crimini violenti. Sanders si è schierato con l’ex stratega di Trump, Steve Bannon, contro i visti H1B per immigrati specializzati.
Gavin Newsom: «Trump non utilizzi la tragedia umana dei roghi a L.A. per vantaggi politici e per diffondere disinformazione»
Un esempio di come andare avanti è Marie Gluesenkamp Perez, 36 anni: era la deputata più incerta della Camera nelle ultime elezioni, ma ha riconquistato un distretto “rosso” repubblicano nelle campagne dello stato di Washington. Proprietaria di un negozio di auto, dice che il partito democratico deve smetterla d’essere condiscendente nei confronti degli elettori working class. «Il 40% dei bambini che nascono nel mio distretto hanno almeno un genitore dipendente dal fentanyl. Empatia è prendere sul serio la sicurezza al confine», ha detto al New York Times. «Spero che altre persone normali mi vedano e decidano di correre. Non esiste un miracoloso trucco che sistemerà il partito democratico, il modo per farlo è avere genitori con figli piccoli, persone delle comunità rurali, gente che lavora in piccole imprese che si candida e viene presa sul serio». Ha incontrato Kamala Harris una sola volta, alla sua festa di Natale al Naval Observatory (la residenza del vicepresidente) a Washington. Aveva notato che le ghirlande usate per le decorazioni erano di plastica: «Signora vicepresidente, dove vivo io crescono queste piante». Ma Harris si è allontanata, sollevando gli occhi al cielo. «Non credo che abbia capito quello che cercavo di dire. È molto più facile guardare fuori, criticare gli altri, anziché guardarsi allo specchio. Non è facile l’accountability nei confronti di sé stessi».
La domanda «chi siamo?» resta cruciale. Mentre Geervarghese dà la colpa a Bill Clinton di aver portato i democratici verso il centro perdendo i lavoratori e i sindacati, Richard Haass, ex ambasciatore e presidente emerito del think tank Council on Foreign Relations, ci dice che il partito dovrebbe guardare proprio a Clinton come modello per ripartire. «I democratici sono missing in action. Accendi la tv, va sui social e c’è sempre e solo Trump. Io penso che nel breve periodo dovrebbero opporsi alle politiche con cui sono in disaccordo, non opporsi a tutte le cose che fa Trump solo perché è Trump. Ma devono capire chi sono. Credo che abbiano perso il contatto con gli americani su questioni come il confine, sulle questioni woke, e sono troppo legati ad alcuni sindacati come quello degli insegnanti: a New York spendiamo per alunno più di chiunque altro ma i risultati non lo dimostrano. Certo è un problema: se cominciano a ridefinire sé stessi, parti influenti del partito democratico non saranno d’accordo perché come tutti i partiti è una coalizione. Ma se la parte progressista rifiuta, resteranno all’opposizione per molto tempo. È un momento di resa dei conti. Forse tra due anni possono riprendersi la Camera, difficilmente il Senato ed è troppo presto per parlare del 2028. Ma l’analogia storica è che, dopo la sconfitta di McGovern, i democratici formarono il Democratic Leadership Council e alla fine ridefinirono il messaggio in chiave più centrista e trovarono il messaggero. Il suo nome era Bill Clinton».
Il giorno dopo l’insediamento, mentre Trump si sentiva all’apice del potere, una vescova anglicana, Mariann Edgar Budde, lo ha stupito chiedendogli dal pulpito di «avere pietà» degli immigrati e delle persone transgender. È giusto definirla di sinistra? La vescova ha replicato a una giornalista: «Come americana e come cristiana, sono più che altro proprio al centro. Se appaio radicale, è semplicemente frutto dei tempi in cui viviamo».
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link