Ricordare le foibe senza sconti, una via d’uscita dal rancore

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Sono state un apice di orrore, inghiottitoi carsici in cui partigiani jugoslavi gettarono gli italiani, fascisti e non fascisti. Una parte della destra lo ha qualificato come “genocidio” perpetrato dai comunisti titini: furono vittime tutti coloro che potevano opporsi all’instaurazione del regime nell’area. Nell’anno in cui Gorizia e Nova Gorica sono capitali europee della cultura transfrontaliera, tutto questo bisognerebbe ricordare

«Il ricordo non deve servire alla ripresa di divisioni e rancori», dice il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel giorno dedicato alla memoria delle foibe, ieri, a ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale e ai fatti che hanno insanguinato il confine orientale. Invano.

Invano se lungo tutta la penisola ieri è stata tirata la giacca alla Storia per rivendicare il primato di una visione di parte, post-fascisti e post-comunisti a rinfacciarsi le colpe, a illuminare le proprie ragioni e occultare quelle degli altri. Come se il passato non dovesse mai passare e rendesse impossibile semplicemente onorare i morti con occhi non avvelenati da un’ideologia miope. Quando sarebbe opportuno rimboccarsi le maniche, evitare le semplificazioni di comodo, approfondire una materia assai complessa. Resa ancora più ostica da oltre quarant’anni di oblìo artatamente voluto (e qui sta un errore esiziale del defunto Partito comunista italiano per non entrar in contrasto con il maresciallo Tito) ma almeno da trenta svelata da numerosi e documentati studi che hanno il “difetto” della complessità e non possono essere ridotti a una battuta da talk show. Studi, va precisato a onor del vero, spesso in contraddizione ma che, se soppesati con criticità, riescono a tracciare almeno alcuni punti fermi e favorire la comprensione. Programma purtroppo assai vasto in tempi in cui prevale la logica dello slogan.

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Che cosa furono

Una premessa è doverosa. Le foibe sono un apice di orrore, sono inghiottitoi carsici in cui partigiani jugoslavi gettarono gli italiani, fascisti e non fascisti, uomini, donne, ragazzi, già cadaveri o ancora vivi e destinati a morire nelle cavità tra atroci sofferenze.

Valga per tutte la testimonianza di Giovanni Redeticchio, uno dei pochi sopravvissuti che riuscirono a risalire la voragine e a salvarsi: «Fummo condotti in sei, legati con un unico filo di ferro e sospinti verso l’orlo di una foiba. Uno di noi si gettò urlando nel vuoto. Un partigiano (jugoslavo, n.d.r.) ci impose di seguirne l’esempio. Poiché non mi muovevo mi sparò contro. Il proiettile, anziché ferirmi, spezzò il filo di ferro che teneva legata la pietra e quando mi gettai nella foiba il masso era rotolato lontano da me. Subito dopo vidi precipitare quattro compagni feriti dalle raffiche di mitra. Poco dopo fu gettata nella cavità una bomba che scoppiò sott’acqua schiacciandomi con la pressione dell’aria contro la roccia. Verso sera riuscii ad arrampicarmi per la parete scoscesa e guadagnare la campagna».

Una parte della destra, desiderosa di intestarsi la tragedia delle foibe, lo ha senza dubbio qualificato come “genocidio” perpetrato dai comunisti titini oppure, scegliendo termini coniati con le guerre dei Balcani degli Anni Novanta, come “pulizia etnica”, e quantificando anche in cinquantamila gli italiani assassinati. Benché anche una vittima sia di troppo, gli studi di due storici come Raoul Pupo e Roberto Spazzali riducono il numero a una cifra compresa tra i 3 e i 5 mila, sommando gli infoibati (un migliaio le salme sinora recuperate dalle cavità) ai deceduti nei campi di concentramento jugoslavi.

Dati che coincidono con quelli di Galliano Fogar, segretario dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia autore di numerosi libri sul tema del confine orientale e scomparso nel 2011.

Tre comunità

Per comprendere cosa accadde in quelle terre da sempre multietniche negli anni fatali tra il 1943 e il 1945 è tuttavia opportuno allargare l’orizzonte verso un passato più esteso e complicato durante il quale gli italiani non furono sempre “brava gente”, per usare un eufemismo. Le tre comunità, italiana, slovena e croata, vissero in sostanziale accordo quando stavano sotto l’egida della Repubblica di Venezia. Altrettanto quando furono parte dell’Impero austro-ungarico.

La convivenza divenne complicata dopo la Prima Guerra mondiale quando la regione divenne italiana e la situazione precipitò con l’avvento al potere di Benito Mussolini. Il fascismo abolì nelle scuole l’insegnamento dello sloveno e del croato, la stragrande maggioranza dei posti pubblici furono assegnati agli italiani, furono italianizzati i cognomi slavi così come i toponimi dei luoghi.

L’assimilazione forzata marciò di pari passo con una repressione feroce di qualunque opposizione. I tribunali speciali macinavano condanne a morte degli attivisti di gruppi irredentisti slavi. Squadre di camicie nere si resero responsabili di crimini efferati.

È censito il caso, ad esempio, di un anziano croato di 92 anni impiccato al campanile di una chiesa perché non parlava italiano: non conosceva la nostra lingua. Dopo il 1941 e l’invasione della Jugoslavia da parte delle forze nazi-fasciste aumentarono i crimini di guerra. Da una lettera del commissario civile del distretto di Longanatico Umberto Rosin all’Alto commissario per la provincia di Lubiana Emilio Grazioli: «Si procede ad arresti e a incendi… fucilazioni in massa fatte a casaccio e incendi dei paesi fatti solo per il gusto di distruggere. La frase “gli italiani sono peggio dei tedeschi” che si sente mormorare dappertutto compendia i sentimenti degli sloveni verso di noi». Su ordine del prefetto di Fiume Temistocle Testa tutti gli uomini del villaggio di Podhum di età compresa tra i 14 e i 64 anni, in totale 108, furono ammazzati. Testa giustificò la carneficina parlando di una rappresaglia per l’uccisione di sedici soldati.

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Quando le sorti della guerra si rovesciarono, scattò la resa dei conti unita alla volontà dei partigiani di Tito di annettere alla futura Jugoslavia socialista l’intera Venezia Giulia. Il combinato disposto di questi due fattori produsse le foibe, dove furono gettati non solo fascisti, ma tutti coloro che potevano opporsi all’instaurazione del regime titoista nell’area come antifascisti moderati, comunisti in dissenso con la linea del partito, professori, maestri, parroci. Insomma tutte persone che avevano un ruolo preminente nella società italiana.

Nell’anno in cui Gorizia e Nova Gorica sono capitali europee della cultura transfrontaliera, tutto questo bisognerebbe ricordare, senza sconti per gli altri, ma nemmeno per se stessi. È il solo modo per guardare avanti.

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