La vera scienza della contemporaneità? È l’intelligence.

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Domani, nell’Aula dei Gruppi parlamentari di Montecitorio sarà conferito al prefetto Gianni De Gennaro il Premio Cossiga per l’Intelligence 2025, alla presenza di Autorità politiche civili e militari.  A promuovere il Premio è stato il prof. Mario Caligiuri, presidente della Società Italiana di Intelligence, professore ordinario e Direttore del Master in Intelligence all’Università della Calabria.
L’iniziativa, dunque,  porta anche quest’anno oltre alle firme i Gianni Letta e Giuseppe Cossiga, anche quella personale di Mario Caligiuri, Presidente della Società Italiana di Intelligence, ma soprattutto studioso di questo settore come pochi altri oggi in Italia e in Europa. Il Premio di quest’anno è stato assegnato al prefetto Gianni De Gennaro, l’uomo che è stato il primo direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza della Repubblica, nel 2007, e che ha ricoperto il ruolo di Autorità delegata per la sicurezza durante il Governo Monti.

Un’ eccellenza italiana- dice il prof. Mario Caligiuri- di altissimo profilo istituzionale. Per il Prefetto Gianni De Gennaro sarà un riconoscimento ennesimo per quello che lui è stato nella vita, come superpoliziotto, e di quello che, come uomo di Stato, ha reso e fatto al servizio della Repubblica. L’apertura dei lavori -moderati da Giorgio Rutelli, vicedirettore dell’Adnkronos- sarà affidata a Federico Mollicone, presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati, seguita dagli indirizzi di saluto di Mario Caligiuri, presidente della SOCINT, e Giuseppe Cossiga, figlio del Presidente emerito e custode della sua eredità politica e istituzionale. La relazione centrale alis- sarà tenuta invece dal presidente della Giuria Gianni Letta. Dopo di lui, l’intervento di Lorenzo Guerini, presidente COPASIR  e infine le conclusioni dello stesso Gianni De Gennaro.

L’occasione è ghiotta per un’analisi generale sul ruolo dell’Intelligence oggi in Italia, e soprattutto sulla necessità di rafforzare ulteriormente questo settore della storia repubblicana che viene considerato dai massimi esperti della materia come uno degli apparati di sicurezza nazionale più efficienti e più sofisticati d’Europa. Insomma, in tema di Servizi segreti, facciamo la nostra bella figura. Ma quello che invece incuriosisce molto è che mentre un tempo di servizi segreti non se ne parlava mai, o quando accadeva se ne parlava solo in chiave negativa, oggi invece questo “mondo dell’intelligence” ha scelto di diventare una sorta di palazzo di vetro e raccontarsi, con tutti i limiti oggettivi possibili, al mondo esterno come non l’aveva mai fatto prima. Perché? Come mai questa scelta che potrebbe anche risultare “insidiosa”?

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Intervista a Mario Caligiuri

Presidente, oggi non si parla d’altro che di Intelligence e di servizi segreti e molti, uomini politici soprattutto, sono ancora restii ad ammettere di conoscere il tema. Cosa accadeva in passato?

Partiamo da un concetto che mi pare fondamentale e irrinunciabile. Un uomo di stato non può che essere un uomo di intelligence. Sono arrivato a questa conclusione approfondendo, prima con convegni, che sono poi diventati pubblicazioni scientifiche, le figure di Francesco Cossiga, Aldo Moro, Giulio Andreotti, Enrico Mattei ed Alcide De Gasperi.

Francesco Cossiga
Allora le faccio il primo nome, Francesco Cossiga?

Di Cossiga la “passione per le spie” è nota, ma lo è di meno quella di Moro, che invece era attentissimo a questo ambito, sapeva utilizzare le informazioni che da lì provenivano e dialogava efficacemente con gli uomini che praticavano l’intelligence. A cominciare da Stefano Giovannone, capocentro dell’intelligence a Beirut, considerato uno dei protagonisti del “lodo Moro”, che il presidente della DC cita in due lettere dalla prigione delle Brigate Rosse/ quelle a Rebecchini e Piccoli.

È vero che Giulio Andreotti era assai lontano da questo mondo?

Ricordo sempre a me stesso che Giulio Andreotti per anni diresse il ministero della Difesa, a cui facevano capo i Servizi, così come nelle funzioni di presidente del Consiglio e ministro degli Esteri le interlocuzioni erano costanti. E non possiamo dimenticare poi che la prima legge che regola il funzionamento dell’intelligence in Italia viene approvata nel 1977 proprio durante uno dei suoi governi, forse il principale dei suoi governi, con l’appoggio esterno del PCI di Enrico Berlinguer.

E di Enrico Mattei invece che mi dice?

Enrico Mattei deve alla sua esperienza partigiana i primi contatti con l’intelligence, che gli consentirà poi una estrema sensibilità sull’importanza di queste funzioni, applicata all’economia.

Presidente, come ha fatto uno studioso come lei che viene dal mondo universitario della pedagogia e della comunicazione pubblica ad innamorarsi del mondo dell’Intelligence?

Partiamo da un punto fermo. Dal mio punto di vista, lo studio dell’intelligence risponde a una necessità sociale e democratica.

In che senso?

Secondo me noi viviamo nella società della disinformazione intenzionale e permanente, in cui tutto viene manipolato per conquistare la mente delle persone. Pertanto, c’è bisogno di uno strumento educativo che possa consentire di reggere le conseguenze delle rapidissime trasformazioni sociali. Nello stesso tempo, la democrazia ha bisogno di stabilità e continuità, per fronteggiare la fluidità di processi sociali sempre più indefinibili.

Ma tutto questo cosa ha a che fare con il mondo dell’intelligence?

C’entra moltissimo. Lo studio dell’intelligence ricade sia nell’ambito pedagogico, poiché aiuta a selezionare le informazioni rilevanti, e sia delle istituzioni democratiche, in quanto rende trasparente, per quanto possibile, una funzione determinante dello Stato, dove la sicurezza diventa un diritto di libertà, come argomentava Carlo Mosca. Ecco perché penso che una materia di questa natura, secondo me, debba essere studiata scientificamente nelle università e prima ancora didatticamente nelle scuole.

Riconosco che il master sull’Intelligence che lei ha messo in piedi all’Università della Calabria è uno dei fiori all’occhiello del campus calabrese. Non credo sia stato tutto rose e fiori…

L’Università della Calabria ha sviluppato da più di vent’anni gli studi sull’intelligence. È dal 1999 che ha inserito lo studio dell’intelligence nei corsi di studio nell’ambito dell’insegnamento di “Teoria e tecniche della comunicazione pubblica”. Nel 2002 venne avviata con la Rubbettino Editore la prima collana di studi d’intelligence in Italia e al 2007, su sollecitazione del presidente emerito Francesco Cossiga, risale l’organizzazione del primo Master in intelligence promosso da un ateneo pubblico italiano, entrando dalla porta principale con docenti di qualità, poiché nel coro docente della prima edizione c’era anche l’attuale capo dello Stato Sergio Mattarella.

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Bella soddisfazione per lei professore, immagino…

Non finisce qui. L’anno successivo è stato istituito un centro studi universitario con il compito di approfondire i temi della sicurezza nazionale, con particolare attenzione alla criminalità e alla ‘ndrangheta oltre che alla dimensione economica e dell’educazione familiare. Dal 2009, il Centro ha poi dato impulso a collane scientifiche con la Rubbettino, pubblicando finora più di trenta volumi, tra i quali anche un resoconto dell’esperienza maturata nell’ambito dei primi dieci anni di vita del Master in Intelligence, curato da Marco Valentini e da me.

Mille incontri diversi mi pare di capire?

In realtà abbiamo promosso tantissimi convegni scientifici sui temi del potere occulto, della ‘ndrangheta e della ricostruzione storica dell’intelligence nel nostro Paese. In tali attività, sono state predisposte anche innovative tesi di laurea, come per esempio, l’impatto di un partito islamico nel sistema politico italiano e realizzato un sito internet accademico, con l’intenzione di farlo diventare uno strumento di dibattito scientifico nel settore.

Quanto ha sofferto la solitudine dei primi arrivati

Le dico solo che nell’aprile del 2016, l’Università della Calabria ha sensibilizzato i rettori italiani sull’importanza dello studio dell’intelligence, proponendo un seminario tenuto a Roma presso la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane in cui è stata presentata l’esperienza degli studi sull’intelligence maturata nell’ateneo calabrese. A presiedere la riunione c’era l’allora Presidente della CRUI Gaetano Manfredi, poi ministro e oggi sindaco di Napoli e presidente dell’ANCI. Da questa iniziativa è poi successivamente scaturito un protocollo di intesa tra CRUI e DIS, e nel settembre del 2017, è stata anche indetta la prima università d’estate, che ha visto la partecipazione di decine di studenti provenienti da tutta l’Italia. Abbiamo anche promosso lo studio dell’intelligence e della cultura della sicurezza nelle scuole superiori, con un innovativo progetto nell’ambito dei progetti di Educazione alla Costituzione. Frutto di questo lungo impegno è stata l’attivazione del primo corso di laurea magistrale in Intelligence d’Italia, nell’anno accademico 2018-19, definendo un comitato di indirizzo composto da qualificate presenze pubbliche e private. Le do un altro dato, il programma di studi intende considerare l’intelligence come punto di incontro di saperi umanistici e scientifici, in una originale prospettiva operativa, strategica e storica, dispiegandosi in larghezza e profondità. Una bella sfida, non crede?

Gianni De Gennaro, Francesco Cossiga
Perché lei continua a sostenere che in tema di cultura dell’Intelligence noi italiani siamo in ritardo?

Perché storicamente il nostro Paese è stato caratterizzato da un ritardo nella cultura della sicurezza, che riguarda sia le classi dirigenti pubbliche che private, insieme al sistema mediatico ed accademico. Nel 2003 ho avuto modo di compiere sulla rivista dei nostri Servizi che allora si chiamava “Per Aspera ad Veritatem”, una riflessione sullo stato dell’arte sugli studi dell’intelligence nelle università e nel sistema culturale italiano, rilevando una serie di elementi che non ne avevano consentito lo sviluppo. All’epoca, in ambito accademico nel nostro Paese c’erano in tutto meno di dieci tra corsi e insegnamenti che riguardavano, per lo più indirettamente, gli intelligence studies ed erano allocati negli ambiti delle scienze politiche, della criminologia e della comunicazione pubblica.

Quanto è importante la formazione delle nuove generazioni su questi temi?

Semplicemente essenziale. Vede, ritengo sia giusto evidenziarlo, ma l’intelligence è un metodo di trattazione delle informazioni che utilizziamo tutti ogni giorno per assumere decisioni il più possibile consapevoli. E questo ha ricadute sia individuali che collettive. L’insieme delle conoscenze, competenze, abilità che l’individuo acquisisce durante la sua esistenza rappresenta le fondamenta di uno Stato democratico, che è tale solo se ci sono cittadini consapevoli, in grado di individuare controllare e sostituire i propri rappresentanti, ed élite responsabili, che esercitano il potere il più possibile in direzione degli interessi della maggioranza della comunità.

Quando parla di formazione essenziale lei pensa alle scuole superiori o solo alle Università?

Molto prima. Secondo me, occorrerebbe che fin dalle scuole elementari si studiasse l’intelligence, che dovrebbe essere una materia di base, come l’italiano e la matematica, per avvicinare le persone alla sempre difficile comprensione della realtà. Progressivamente, nelle università l’intelligence dovrebbe essere una materia di studio trasversale dovunque, non solo nei percorsi delle scienze della sicurezza, delle scienze delle decisioni e dei data scientist. Questi profili sono spesso orientati da contesti militari, tecnologici, economici e matematici, non ponendo l’accento sulla indiscutibile dimensione umana dell’attività di intelligence. Aspetto fondamentale, se si pensa, per esempio, che negli ultimi anni i Servizi israeliani stanno assumendo contemporaneamente hacker per sottrarre informazioni dai recessi più reconditi della Rete e laureati in filosofia per interpretarle. L’intelligence è un antidoto all’incertezza determinata dai cambiamenti sconvolgenti di questi tempi. Non a caso, Edgar Morin pone l’educazione all’incertezza come uno dei sette saperi fondamentali per il futuro. Ovviamente per educare all’intelligence, occorre prioritariamente formare i formatori di intelligence.

Professore, ormai non si parla d’altro che di Intelligenza Artificiale, ma anche di un conflitto di intelligenze?

Esatto. Secondo me, in questa fase della sua millenaria esperienza, l’uomo si sta trasformando in un Dio, sostituendosi alla natura e alla divinità, con lo sviluppo dell’ingegneria genetica e dell’intelligenza artificiale. Di fatto, ogni persona sta vivendo contemporaneamente in tre dimensioni: quella fisica, quella virtuale e quella ibridata, quest’ultima destinata a crescere. Nel frattempo, l’intelligenza artificiale sconfigge gli umani sia nel gioco degli scacchi, come è avvenuto con Deep Blue nel 1996, e sia in quello del gioco orientale del Go, con Alpha Go nel 2016. La differenza è sostanziale: Deep Go ripeteva le mosse inserite dai programmatori, mentre Alpha Go ha avuto le indicazioni iniziali da parte degli informatici e successivamente si è regolato in base alle mosse dell’avversario umano attraverso percorsi che rimangono ignoti e acquisiti attraverso il machine learning. Contemporaneamente si stanno costruendo piattaforme tecnologiche che consentiranno la trasmissione del pensiero. Difatti, le interfacce neurali prevedono una connessione diretta tra uomo e computer e attraverso queste il collegamento con la mente di altre persone.

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Di questo passo dove arriveremo?

L’esperimento di Neuralink, finanziato in gran parte da Elon Musk, tende a creare una simbiosi controllata tra intelligenza umana e intelligenza artificiale. Inoltre, va considerato l’impatto della fisica quantistica, verso il quale si stanno orientando consistenti investimenti a livello globale. Tale sviluppo consentirà di dare risposte a problemi oggi irrisolvibili con una potenza di calcolo impressionante rispetto ai computer attuali, che con queste nuove tecnologie saranno teoricamente inviolabili. Ma non solo velocità e sicurezza verranno incrementate con la tecnologia quantistica, ma ci sarà anche maggiore profondità, poiché i dati vengono raccolti pure negli interstizi che non fanno parte dei singoli sistemi. Nel frattempo, si sta sperimentando la possibilità di sostituire i chip elettronici con materiali biologici dove installare l’intelligenza artificiale. Infatti, le sinapsi del cervello umano possono gestire fino a 100.000 collegamenti contemporaneamente. In prospettiva potrebbe esserci il teletrasporto, che consentirà lo spostamento immediato della materia attraverso lo spazio.

Sembra vera e propria fantascienza, professore?

La certezza che ho è che tutte queste variazioni metteranno a dura prova la capacità biologica di adattamento biologico e cerebrale delle persone, accentuando una dinamica che si sta accentuando progressivamente dall’invenzione della stampa. Tutto questo incide direttamente sull’’intelligenza umana, delineando uno scontro tra intelligenze: quella umana, formatasi in migliaia di anni, e quella artificiale, che è in corsa per realizzare l’algoritmo definitivo, che programma sé stesso. Come è stato peraltro annunciato nei giorni scorsi.

Prevede che in futuro la realtà sarà del tutto diversa da questa?

Secondo Ray Kurzweil il 2043 sarà l’anno della “singolarità”, quando l’intelligenza artificiale supererà quella umana. Il 2043 anticipa di undici anni l’ambientazione del racconto di Philip K. Dick “Minority report”, in cui i crimini vengono previsti prima che si commettano. E l’intelligenza artificiale inevitabilmente comporterà uno spill-over, un salto di specie come quello che segnò il passaggio dall’uomo di Neanderthal all’uomo Sapiens e da questo si sta arrivando all’uomo Simbioticus, caratterizzato da una inevitabile ibridazione tra uomo e macchina. Se adesso siamo orientati dall’intelligenza artificiale nell’immediato futuro potremmo anche essere controllati. A riguardo, Alan Turing, uno dei padri dell’intelligenza artificiale e protagonista della decifrazione del codice “Enigma” utilizzato dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale, rispose affermativamente quando gli domandarono se la macchina potesse sviluppare una coscienza. Infine, sullo sfondo non può escludersi un ulteriore tipo di intelligenza: quella aliena.

Sembra di leggere un romanzo avveniristico…

Non so quanto dare credito all’affermazione di AimEshed, ex numero 1 del programma di sicurezza spaziale israeliano, che alla fine del 2020 aveva affermato l’esistenza di un contatto su Marte con queste intelligenze, a suo dire circostanza nota ai supremi governanti statunitensi e israeliani. Di sicuro, Giordano Bruno alla fine del Cinquecento, con la sola forza del pensiero, aveva ipotizzato l’esistenza di “infiniti mondi”. Le frontiere quindi si possono ulteriormente allargare e l’intelligence deve padroneggiare questi scenari. Da un lato perché, come affermato nel 2017 da un ex colonnello del KGB che in questi mesi sta tenendo il mondo con il fiato sospeso dal Cremlino, Vladimir Putin, “chi comanda l’intelligenza artificiale comanda il mondo”,dall’altro perché le notizie sui possibili avvistamenti degli Ufo sono da sempre controllate dai militari e dall’intelligence. 

Da anni lei scrive e ripete che l’intelligence è un metodo per processare informazioni e analizzarle ai fini delle decisioni politiche finali. Cosa significa?

Le faccio un esempio. Partirei dai “no vax”, che secondo me, in ogni caso, sono una evidente manifestazione del crescente disagio sociale che è presente a prescindere nella società. Se il disagio sociale diventasse fuori controllo porrebbe un fondamentale problema di sicurezza nazionale, con gravi ripercussioni sulla credibilità delle istituzioni. Appunto per questo l’intelligence assume un ruolo straordinariamente rilevante. Se lo ricordi bene, compito dell’intelligence è prevedere quanto può accadere. Pertanto, il tema del disagio sociale potrebbe presto essere prioritario nelle attività dei Servizi.

Non le sembra un’analisi eccessiva?

Vede, questo fenomeno è presente da tempo e in maniera diffusa nella società in cui viviamo, ed è fortemente collegato non solo con la sicurezza nazionale ma anche con lo scenario digitale. Il rapporto dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale “Il mondo che verrà 2022”, evidenziava come il tema della disuguaglianza stesse progressivamente crescendo con la globalizzazione e in Italia più che altrove, tanto che il divario di reddito tra il 10% più ricco e il 10% più povero aveva già allora raggiunto il rapporto di 11 a 1, superiore alla media internazionale. Nel documento dell’Ispi era contenuto il saggio di Yves Mény “La nuova e vecchia rabbia”, in cui si ricordava che nella storia vi fosse un costante avvicendamento di periodi di pace e di scontri sanguinosi, in quanto la violenza è insita nello sviluppo umano. I miglioramenti sociali sono stati il risultato, secondo Mény, di violenze e disordini oppure sono stati la conseguenza di eventi traumatici, come i diritti sociali ottenuti dopo le due guerre mondiali.

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Come se ne esce professore?

Va detto che sono innumerevoli le cause che contribuiscono alla formazione del disagio sociale. Tra queste, vi sono l’inarrestabile immigrazione collegata con il declino demografico, la perdita di potere di acquisto dei cittadini occidentali, la trasformazione del lavoro con la prevalenza di quello precario, l’impatto sconvolgente dell’intelligenza artificiale e la società della disinformazione, della quale le fake news rappresentano l’esempio meno pericoloso, poiché, secondo me, la vera disinformazione proviene da sempre dalla propaganda del potere, quindi oggi dalle multinazionali e dagli Stati.

Mi faccia per favore un esempio concreto…

Provo a spiegarmi meglio. La società della disinformazione si caratterizza per la dismisura delle informazioni da un lato e per il basso livello di istruzione sostanziale dall’altro, determinando un corto circuito cognitivo che allontana le persone dalla comprensione della realtà. La pandemia da Covid, per esempio, oppure le guerre in corso in Ucraina e in Medioriente rappresentano, dal mio punto di vista, la materializzazione della società della disinformazione.

Fatta la diagnosi, quale è la terapia migliore in questi casi?

In questo scenario, l’intelligenza artificiale è destinata a sostituire molte professioni, sia ripetitive che intellettuali, tanto che uno studio del Dipartimento del Lavoro statunitense prevede che chi inizia adesso il percorso scolastico, una volta terminati gli studi, svolgerà al 64% una professione che ancora non è stata inventata. Ad oggi, in effetti, non abbiamo sviluppato a riguardo una “coscienza”, in quanto non abbiamo maturato una consapevolezza sulle conseguenze dello sviluppo dell’intelligenza artificiale che è prevalentemente in mano ai privati. L’attuale disagio esistenziale proviene da lontano, come dimostra la dilatazione del disagio nella società, con l’aumento esponenziale dei disturbi psicologici e psichiatrici. Il disagio sociale si manifesta e si espande a livello digitale ed ha marcati risvolti politici. Gli esempi sono numerosi come evidenziano gli esiti delle controverse primavere arabe, i tentativi di condizionamento elettorale in numerose nazioni, le rivelazioni di Wikileaks che dimostrano lo scarto tra dichiarazioni ufficiali dei governi e comportamenti reali, il terrorismo che viene amplificato dalla Rete come ha confermato il caso dell’Isis, l’uso delle tecnologie e del web sempre più avanzato da parte della criminalità.

Tanta carne sul fuoco professore?

A proposito, oggi occorre essere responsabili: più che mai occorre un sistema che tuteli il diritto dei cittadini alla sicurezza, concetto sempre più ampio che comprende non solo la sicurezza fisica intesa come controllo dei confini, ma anche quella ambientale, sociale, alimentare, sanitaria e via dicendo. In tale scenario l’attività di intelligence orientata alla sicurezza diventa ancora più rilevante, probabilmente indispensabile. Esaminando il contesto italiano, va ricordato che un giovane su quattro tra i 15 e i 29 anni non studia e non lavora, comportando un costo annuo per la collettività nazionale di circa 36 miliardi di euro. Inoltre, prima della pandemia più di un quinto dei nostri connazionali aveva difficoltà a pagare le spese mediche e più di cinque milioni e mezzo, negli ultimi tre anni, si sono indebitati per pagare le spese sanitarie. Tali indicatori evidenziano un malessere economico profondo. A questo si deve aggiungere la disoccupazione giovanile, molto elevata nelle regioni meridionali, che alimenta le mafie. La prevalente dimensione digitale comporta, quindi, la necessità di una cyber education che deve essere intesa come un insieme di saperi da insegnare obbligatoriamente nelle scuole, poiché, come ricordava Robert David Steele, “la forza maggiore di una nazione è rappresentata da una cittadinanza istruita”. A riguardo va ricordato come segnale significativo il recente accordo sottoscritto tra il Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara e il Direttore Generale dell’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale Bruno Frattasi per introdurre nelle scuole Italiane la cultura della cybersicurezza, intesa nella sua vera accezione: conoscere i rischi della Rete per poter utilizzare consapevolmente le straordinarie opportunità di conoscenza del Web.

Siamo in presenza di un nuovo allarme sociale

Dal 2017 vado ripetendo sempre ai miei studenti che, in un certo senso, il disagio sociale si potrebbe considerare il paradigma interpretativo della realtà contemporanea, in quanto costituisce la manifestazione più evidente della crescente disuguaglianza globale. Pertanto, se il disagio sociale diventasse fuori controllo diventerebbe appunto un problema fondamentale di sicurezza nazionale, in quanto determinerebbe gravi ripercussioni sulla credibilità e sulla stabilità delle istituzioni democratiche. E tutto questo richiede la necessaria attività preventiva dell’intelligence. Molto dipenderà dal reale impatto delle misure del PNRR, occasione per realizzare interventi concreti e strutturali, soprattutto nelle regioni meridionali.

Un paese libero e civile come il nostro, dunque, da quello che colgo dalle cose che mi dice dovrebbe investire sempre di più in questo settore?

Le faccio una premessa: dal mio punto di vista è in atto uno scontro per conquistare la mente delle persone. È una strategia geopolitica.

Cosa intende dire professore?

Che nel corso della storia sono state maturate diverse teorie geopolitiche in base alle quali, rispettivamente, dominava il mondo chi controllava i mari, il centro della terra, l’aria o lo spazio. Infatti, il controllo dei mari ha consentito all’Inghilterra di costruire un impero che si estendeva in tutti i continenti; la presenza culturale nelle linee di faglia tra l’Asia e l’Europa è ancora oggi strategica come nel “grande gioco” dell’Ottocento; il dominio dell’aria venne teorizzato dal generale italiano Giulio Douhet dato che proprio il nostro paese utilizzò in Libia nel 1911 per la prima volta gli aerei in un conflitto; la corsa allo spazio tra le due superpotenze ideologiche dopo la seconda guerra mondiale venne considerato un fattore determinante. Negli ultimi vent’anni, si è progressivamente esteso lo spazio cibernetico che è asimmetrico per definizione dove piccoli Stati come territorio possono essere grandi potenze, quali Israele e Corea del Sud. Dal cyber spazio arrivare al sesto dominio il passo è stato breve, poiché nel 2030 tecnicamente tutti i cittadini del mondo potranno essere connessi a Internet.

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E questo cosa comporterà per il mondo libero?

È semplice, se tutti siamo collegati tutti potremmo essere controllati e quindi in gran parte condizionati. Pertanto, si potrebbe parlare di una “geopolitica della mente”, intesa come il campo di battaglia dove si sta svolgendo la lotta per il potere, in modo da esercitare il dominio definitivo sulle persone e sulle nazioni, poiché oltre il controllo della mente non può esserci altro. Da sempre, infatti, il nostro modo di pensare è già in gran parte condizionato dalla genetica e dall’ambiente, cioè dalla famiglia da cui nasciamo e dal contesto sociale e nazionale in cui viviamo, che condizionano inevitabilmente il nostro futuro, trasmettendo inoltre dei pregiudizi che orientano la percezione della realtà.  In tale quadro si può inquadrare, la “geopolitica delle emozioni”, teorizzata da Dominique Moïsi che ipotizza i continenti della speranza, della paura e dell’umiliazione sostenendo che “viviamo tutti lo stesso tempo ma lo percepiamo in maniera differente”.

Cosa c’entra l’intelligenza artificiale con questa sua analisi?

Non dimentichiamo che la geopolitica della mente è collegata direttamente allo studio del futuro. La società post-industriale è basata soprattutto sulla progettazione del futuro, tanto che dopo la Seconda guerra mondiale, politici, accademici, scienziati e operatori dell’intelligence, si sono esercitati sul futuring. Non sembri pertanto casuale che lo studio del futuro sia materia di insegnamento nelle scuole scandinave, e sarebbe bene lo diventasse anche in Italia, integrando tanti decrepiti percorsi disciplinari scolastici e accademici. Non a caso, mai come in questi anni di guerra russo-ucraina e rinnovato conflitto arabo-israeliano, è evidente come accanto alla guerra reale vi sia quella dell’informazione, che provoca effetti distorsivi devastanti. Per descriverli Marshall McLuhan ricordava che “quello di cui i pesci non sanno assolutamente nulla è l’acqua”. Vale lo stesso per noi che siamo totalmente immersi nella disinformazione e percepiamo l’esatto opposto della realtà.

Ma questo, professore, glielo richiedo, con l’intelligence che cosa ha a che fare?

L’intelligence, se lo ricordi bene, è importante non solo per predire accadimenti e fenomeni sociali ma soprattutto per interpretare gli eventi in un contesto caratterizzato dalla dismisura delle informazioni. E mentre in passato il consenso era ottenuto con la forza, attualmente è raggiunto attraverso la persuasione e la propaganda, in uno scenario in cui diventa sempre più difficile distinguere il vero dal falso e il legale dall’illegale. Pertanto, prevalere nell’informazione è determinante. Non a caso Bill Gates aveva evidenziato che per cittadini e imprese è essenziale eccellere nel settore dell’informazione, ma come strategia nazionale gli Stati Uniti già nel 1997 hanno definito il concetto di “information dominance”, in base al quale “nei conflitti di domani prevarrà chi racconterà la storia migliore”. Se la Guerra fredda è stata soprattutto una guerra di intelligence, combattuta attraverso le spie e le informazioni, la disinformazione e l’influenza culturale, con la globalizzazione e il cyberspazio lo scenario si è profondamente trasformato: la manipolazione è diventata capillare e incontenibile e viene utilizzata non tanto per finalità politiche, quanto economiche, con gli stati diventati entità finanziarie e con le multinazionali che condizionano i governi democratici. Pertanto, occorre prima di tutto comprendere che la necessità sociale dell’intelligence richiede prima di tutto lo sviluppo della cultura della sicurezza, che richiede un grande investimento culturale appunto sull’educazione, che dovrebbe occupare il primo posto nelle agende dei governi, che invece sono erroneamente concentrati solo sull’economia. Ce lo spiega chiaramente il premio Nobel Joseph Stiglitz: la società si è evoluta negli ultimi due secoli in base all’aumento della capacità di apprendimento. Una dimostrazione evidente che l’educazione viene prima dell’economia. E non il contrario.

 

Pino Nano



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