L’ombra dei dazi sul Nord Est: il 25% costerebbe fino a 4 miliardi

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Dopo Canada, Messico e Cina, l’ombra dei dazi americani si allunga sull’Europa. Con impatti economici che rischiano di colpire sia settori in salute, come farmaceutica e alimentare, sia industrie in difficoltà, come automotive e lusso. Per quanto sia oramai chiaro l’uso strategico, più che commerciale, delle politiche tariffarie volute da Donald Trump, l’economia è destinata a subirne gli impatti in più direzioni.

Un dazio è essenzialmente una tassa sul consumo di beni importati, perciò, l’effetto immediato è un aumento dei prezzi sul mercato interno. A pagare questo aumento sono dunque i consumatori del bene finale, o le imprese utilizzatrici delle materie prime e dei beni intermedi. L’aumento dei prezzi riduce la quantità domandata di un bene in relazione al suo grado di sostituibilità con altri consumi, o con la produzione interna. Per capirci, un dazio sui farmaci o sulle materie prime agricole si ribalta immediatamente sulla spesa dei consumatori, riducendo il loro potere d’acquisto.

Anche nel caso ci siano imprese nazionali pronte a sostituire l’importazione, i prezzi aumentano, poiché i produttori interni – per definizione meno efficienti di quelli esteri, altrimenti non ci sarebbe stata l’importazione – rientrano in gioco solo grazie alla protezione assicurata dal dazio. La storia recente dei dazi americani, avviata nel 2017 dalla prima presidenza Trump, mostra però come l’effetto sostituzione non ci sia stato. Sono semmai cambiati i mercati di origine delle importazioni – i dazi sulla Cina hanno spinto le esportazioni negli Stati Uniti da Vietnam, India e Messico – contribuendo ad accrescere il deficit commerciale, che negli ultimi sei anni è raddoppiato.

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Dalla politica tariffaria può trarre qualche beneficio lo Stato che incassa il gettito. I valori sono tuttavia limitati: per gli Stati Uniti la stima delle entrate generate da un dazio su tutte le importazioni porta a un valore inferiore all’1% del Pil. Inoltre, come avviene con ogni tassa sui consumi, la politica tariffaria funziona in modo regressivo suoi redditi: chi ha di meno, paga in proporzione di più.

La riduzione delle importazioni causa evidentemente un contraccolpo sugli esportatori esteri. Nel caso degli Stati Uniti – la cui economia vale un quarto di quella mondiale e con importazioni che nel 2024 sono arrivate a 4.700 miliardi, valore pari a più del doppio del Pil italiano – le ripercussioni non possono che essere pesanti. Perciò, se sul mercato interno gli americani pagheranno una maggiore inflazione, sui paesi colpiti dai dazi l’eccesso di offerta creerà un pericoloso effetto deflattivo. Ci sono infine due altri impatti da considerare sui mercati internazionali: da un lato valutario, con il probabile rafforzamento del dollaro, e dall’altro di incertezza, soprattutto dato il modo con cui vengono prese le decisioni alla Casa Bianca, indifferente ad ogni accordo stipulato nelle istituzioni multilaterali, a partire dal Wto.

Per un’economia aperta come il Nord Est, dove le esportazioni superano il 40% del Pil, non si tratta di buone notizie. L’Italia è tra i paesi più esposti sul mercato Usa. Non solo per le esportazioni dirette – 75 miliardi, a fronte di meno di 30 di importazioni – ma anche per quelle indirette, ovvero quei flussi di beni che arrivano sul mercato americano attraverso le catene del valore guidate da gruppi tedeschi (soprattutto meccanica e componentistica auto) e francesi (fornitura moda di alta gamma). Se misurato in termini di valore aggiunto incorporato nei prodotti, gli Stati Uniti risultano il primo mercato dell’export italiano.

Ma quante sono le imprese del Nord Est più esposte su questo mercato? Grazie all’Osservatorio sul commercio estero realizzato da Unioncamere Veneto in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari è possibile valutare in dettaglio le aree di maggiore impatto delle politiche tariffarie della Casa Bianca. Per quanto riguarda il Veneto, nel 2023 l’export verso gli Stati Uniti misurava 7,6 miliardi di euro, pari al 9,2% del totale. Le imprese venete con relazioni commerciali dirette con gli Stati Uniti sono 7.500, che corrispondono a un terzo di tutti gli esportatori. Ci sono però 4 mila imprese che dipendono dal mercato Usa per oltre il 20% del portafoglio estero, e ben 2.800 per le quali la dipendenza supera il 50%. In valori assoluti il settore più colpito è quello meccanico, ma in termini di incidenza relativa spiccano l’occhialeria e l’orafo, che sul mercato americano contano rispettivamente per il 28% e il 22% di tutte le vendite estere.

Per il Friuli Venezia Giulia gli Stati Uniti pesano relativamente più che in Veneto: i 2,4 miliardi esportati nel 2023 sono pari al 12,3% del totale. Le imprese della regione coinvolte su questo mercato sono 1.300, delle quali 523 sono esposte per oltre il 50% del proprio export. Anche in questo caso i settori che verrebbero più colpiti da una politica tariffaria generalizzata sono quelli tipici dell’industria regionale: il mobile-arredo (320 milioni di export negli Usa) e soprattutto cantieristica e forniture trasporti (oltre un miliardo), che sul mercato americano concentra quasi il 50% delle vendite estere.

L’impatto sull’economia del Nord Est rischia perciò di essere pesante: in base a una stima prudenziale, una tariffa del 25% su tutte le nostre esportazioni negli Usa porterebbe una contrazione da tre a quattro miliardi di euro. Con effetti gravi in alcuni settori e molte imprese, specie quelle meno diversificate. 



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