La responsabilità dell’Australia per la detenzione arbitraria sull’isola di Nauru

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Con due decisioni di portata storica, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha decretato la responsabilità dell’Australia per la detenzione arbitraria di richiedenti asilo trasferiti o reindirizzati verso i centri di detenzione offshore situati nella Repubblica di Nauru. Attraverso la sottoscrizione di due memorandum d’intesa con Nauru nel 2012 e nel 2013, l’Australia ha stabilito che le richieste di asilo presentate nel suo territorio vengano esaminate offshore su quest’isola, trasferendo forzatamente le persone migranti nel piccolo Stato insulare del Pacifico.

Il 9 gennaio 2025, il Comitato delle Nazioni Unite ha deliberato su due casi riguardanti rifugiati e richiedenti asilo sottoposti a detenzioni prolungate e arbitrarie proprio presso il Centro di elaborazione regionale di Nauru. “Uno Stato non può sottrarsi alle proprie responsabilità in materia di diritti umani delegando l’elaborazione delle richieste d’asilo ad un altro Paese”, ha dichiarato Mahjoub El Haiba, membro del Comitato, aggiungendo: “quando un Paese esercita un controllo effettivo su un’area, i suoi obblighi secondo il diritto internazionale rimangono saldi”.  

Il primo caso esaminato dalle Nazioni Unite riguarda 24 minori non accompagnati provenienti da Iraq, Iran, Afghanistan, Pakistan, Sri Lanka e Myanmar, tutti intercettati in mare dalle forze di polizie australiane mentre fuggivano dalle persecuzioni nei loro Paesi d’origine. I minori erano diretti in Australia: tra il 2013 e il 2014, sono stati portati sull’Isola di Natale, piccolo territorio australiano nell’Oceano Indiano, e trattenuti in detenzione obbligatoria per periodi compresi tra i due e i 12 mesi.

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Nel 2014 sono poi stati trasferiti a Nauru e trattenuti nel sovraffollato Centro di elaborazione regionale, caratterizzato da carenza di acqua potabile e servizi igienici, alte temperature e umidità e da cure mediche inadeguate. Secondo quanto esaminato dal Comitato, quasi tutti i minorenni hanno sofferto un deterioramento della loro salute fisica e mentale, manifestando autolesionismo, depressione, problemi renali, insonnia, mal di testa, problemi di memoria e perdita di peso. Nonostante quasi tutti avessero ottenuto lo status di rifugiati intorno a settembre 2014, sono però rimasti detenuti a Nauru. 

Nel secondo caso, una richiedente asilo iraniana è arrivata in barca sull’Isola di Natale nell’agosto 2013 con il marito, il patrigno, la sorellastra e un cugino maschio: nessuno di loro aveva un visto valido. Sette mesi dopo, la donna è stata trasferita a Nauru e trattenuta nel Centro di elaborazione regionale. Le autorità nauruane le hanno riconosciuto lo status di rifugiata nell’aprile 2017, ma non è stata rilasciata nell’immediato. Tredici mesi dopo il riconoscimento del suo status, è stata trasferita in un’area di supporto -sempre a Nauru- per ricevere assistenza sanitaria. Solo nel novembre 2018 è stata trasferita nella terraferma australiana per motivi medici, ma è comunque rimasta detenuta in varie strutture. 

In entrambi i casi, le vittime hanno presentato reclami al Comitato per i diritti umani, sostenendo che l’Australia aveva violato i suoi obblighi ai sensi del Patto internazionale sui diritti civili e politici (Iccpr), in particolare l’articolo 9, relativo alla detenzione arbitraria. L’Australia ha respinto le accuse sostenendo che non vi fossero prove sufficienti a dimostrare che le presunte violazioni avvenute a Nauru rientrassero nella sua giurisdizione.

Tuttavia il Comitato ha fatto notare che, secondo fonti pubbliche e ufficiali, l’Australia ha pianificato la costruzione e l’istituzione del Centro di elaborazione regionale a Nauru, contribuendo direttamente alla sua gestione attraverso finanziamenti, contratti con enti privati e altri soggetti responsabili direttamente nei suoi confronti. Secondo i funzionari delle Nazioni Unite, “l’Australia ha un controllo e un’influenza significativi sul Centro di elaborazione regionale a Nauru e, pertanto, riteniamo che i richiedenti asilo coinvolti in questi casi siano sotto la giurisdizione dello Stato parte ai sensi dell’Iccpr”, ha specificato El Haiba. 

Nel dettaglio, per quanto riguarda il caso dei 24 minori non accompagnati, il Comitato ha riscontrato che l’Australia non ha giustificato in maniera adeguata perché questi minori non potessero essere trasferiti in centri di detenzione comunitari sulla terraferma, più adatti alle esigenze specifiche di individui vulnerabili. Il Comitato ha quindi concluso che l’Australia ha violato l’articolo 9 dell’Iccpr, che garantisce il diritto di essere liberi dalla detenzione arbitraria. Inoltre, poiché i minori non avevano un canale efficace per contestare la legalità della loro detenzione davanti ai tribunali nazionali, il Comitato ha riscontrato anche una violazione relativa al diritto delle persone private della libertà di portare le proprie richieste in tribunale. 

Nel caso invece della rifugiata iraniana, il Comitato ha osservato che l’Australia non ha dimostrato su base individuale che la detenzione prolungata e indefinita della vittima fosse giustificata, violando anche in questo caso l’articolo 9 dell’Iccpr. “Le nostre conclusioni inviano un chiaro messaggio a tutti gli Stati: dove c’è potere o controllo effettivo, c’è responsabilità. L’esternalizzazione delle operazioni non esime gli Stati dai propri doveri. I centri di detenzione in non sono zone franche per i diritti umani dello Stato parte, che rimane vincolato dalle disposizioni del Patto”, è il commento di El Haiba.

L’Iccpr, infatti, è stato ratificato da 174 Paesi, Australia inclusa. Su tali basi, il Comitato ha invitato l’Australia a fornire un risarcimento adeguato alle vittime e ad adottare misure per garantire che violazioni simili non si ripetano. In particolare, ha sollecitato una revisione della legislazione migratoria e degli accordi bilaterali di trasferimento per allinearli agli standard internazionali sui diritti umani. 

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