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Numerosi rapporti, studi e report testimoniano a partire dagli Ottanta una tendenza crescente nella maggior parte dei Paesi OCSE all’aumento della disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza tra la popolazione. Nell’ultima decade la ricchezza dei miliardari è più che duplicata in tutto il mondo, e potrebbe presto superare i 500 trilioni di dollari di valore complessivo. I 10 uomini più ricchi del pianeta posseggono insieme più degli 85 Paesi più poveri al mondo e il confronto allargato alla popolazione restituisce un quadro altrettanto preoccupante: solo nel 2023, l’1,5% dei più ricchi deteneva il 47% della ricchezza mondiale, mentre la metà inferiore della popolazione ne possedeva solo l’8%. Se i dati sulla diminuzione della povertà assoluta a livello globale sembrano incoraggianti, altrettanto non si può dire della forbice che si è creata negli ultimi trenta/quarant’anni tra ricchi e poveri. Uno spostamento siderale della concentrazione della ricchezza che ha elevato soprattutto i super ricchi e i mega ricchi, polverizzando buona parte della prosperità che la classe media aveva costruito dal secondo Dopoguerra in poi.
Come si è arrivati a tutto questo è materia di Hanno vinto i ricchi. Cronache di una lotta di classe, del giornalista e saggista Riccardo Staglianò: un’approfondita analisi, corroborata da statistiche e ricostruzioni storiche, della demolizione programmata dei pilastri dell’uguaglianza e dell’equità economica e sociale eretti e/o rinforzati a seguito della Seconda guerra mondiale. Staglianò si affaccia sull’Italia, raccontando in particolare gli ultimi trent’anni in cui i salari reali hanno smesso di crescere e sono addirittura diminuiti del 2,9% – rendendoci il fanalino di coda tra i Paesi OCSE – mentre i ricchi italiani diventano sempre più ricchi e pagano meno tasse. Affrontando il tema attraverso il prisma della lotta di classe, l’autore spiega come tutto questo non sia frutto del caso e dell’intersecarsi di congiunture economiche sfavorevoli: dietro a questa forbice allargata emerge un preciso disegno di politiche neoliberiste applicate ufficialmente per “riformare il Paese”.
Il preludio: come ci siamo arrivati
Dopo la distruzione causata dai due conflitti mondiali, l’Occidente è stato attraversato da un periodo ribattezzato i “Trent’anni gloriosi”, in cui è stato applicato un modello di capitalismo regolato e con un forte indirizzo statale – pur con diverse sfumature tra i vari Paesi – in contrapposizione al blocco dei Paesi sotto l’influenza sovietica e del socialismo reale. In questo sistema, la libertà di impresa ha convissuto con pesi e contrappesi pensati dai governi per evitare l’emergere di eccessive disuguaglianze economiche e sociali, nella convinzione che il capitalismo dovesse condurre tutti verso la prosperità. Questi argini alla libertà d’impresa sono stati messi in discussione a seguito delle crisi economiche scaturite dagli shock petroliferi del 1973, che hanno aperto una fase economica del tutto nuova, di “stagflazione”. La crisi del modello economico-politico ha contribuito a spalancare le porte ad un nuovo set di policy neoliberiste presentate come panacea per i mali dell’economia ma, se analizzate attentamente, frutto di un piano preciso dell’élite economica (gli ultraricchi) interessata a giustificare e consolidare il proprio dominio e la propria ricchezza.
A partire da questa riflessione, Staglianò espone in modo puntuale tutti i nodi della rete che i ricchi hanno costruito in quel periodo: precarizzazione del lavoro, indebolimento – e in alcuni casi repressione – dei sindacati, diminuzione dei fondi all’istruzione, eliminazione delle forme di welfare, gig economy, automazione del lavoro, delocalizzazioni, paradisi fiscali e tanto altro. Presentando dati e testimonianze di esperti, l’autore analizza queste proposte consegnandoci un quadro chiaro: hanno vinto i ricchi, sotto ogni punto di vista. Hanno vinto anche convincendoci di avere ragione, perché l’economia aveva bisogno di quelle ricette perché tutti stessimo meglio. Hanno vinto raccontandosi come creatori di lavoro e hard-working people, self-made men, eroi della nazione.
Mentre la realtà smentiva questo quadro, la disuguaglianza nel nostro Paese andava aumentando drammaticamente. La povertà assoluta, ovvero la condizione economica di un nucleo familiare rispetto all’accesso ad un paniere di beni essenziali, è drasticamente aumentata dal 2,9% del 2006 al 9,7% del 2023. Dall’altra parte, tra il 1995 e il 2016 la quota di ricchezza detenuta dall’1% più ricco – circa mezzo milione di individui – è passata dal 16% al 22%, mentre la quota posseduta dallo 0,01% più ricco – i 5.000 adulti più facoltosi – è quasi triplicata, passando dall’1,8% al 5%[1]. La responsabilità della politica nell’aver permesso e in alcuni casi promosso questo fenomeno sono evidenti se si prendono in esame i decenni di riforme graduali, manovre vendute come “modernizzanti”, che hanno favorito una classe di ricchi che ha prosperato anche nei momenti più bui del Paese – come la crisi del 2008 e la pandemia da Covid-19 – a seguito dei quali sono addirittura aumentati in numero. Un benessere mantenuto e alimentato sulle spalle di una classe media, che ha sorretto il sistema fiscale, tanto quanto su quelle dei più poveri (migranti inclusi), il cui valore è stato estratto fino all’ultima goccia. Una vittoria anche culturale, coltivata a mezzo stampa e infusa nelle percezioni del quotidiano.
Capitale e lavoro: lo spostamento decisivo
Una delle chiavi del trionfo dei ricchi sui poveri è la vittoria del capitale sul lavoro, con il primo che è diventato il baricentro della produzione di valore: la quota di ricchezza mondiale prodotta destinata al lavoro, che prima degli anni Ottanta gravitava ininterrottamente sul 65%, ovvero i due terzi, è passata al 50% attuale[2]. Dall’altra parte, una spregiudicata deregulation e detassazione del capitale ha fatto sì che la quota di ricchezza globale generata dalla finanza valesse dodici volte il PIL mondiale, secondo un rapporto di Mckinsey del 2021. A seguito dei programmi di delocalizzazione e automazione del lavoro, con conseguente taglio dei costi, i profitti di imprenditori e soci sono aumentati da una media dell’1-2% al 7-8%. La finanziarizzazione dell’economia ha quindi prodotto un enorme spostamento del valore dall’economia reale (il reddito) all’economia finanziaria (il capitale finanziario): i grandi ricchi non sono più tali in quanto percettori di redditi elevati, ma perché detentori di asset finanziari; un fenomeno che deriva anche dalla loro tassazione. Quest’ultimo fattore, la bassa tassazione, unito al fatto che molti dei soldi vengono “parcheggiati” in conti all’estero con vantaggi fiscali considerevoli, ha permesso ad un’intera classe di milionari/miliardari di arricchirsi smentendo il mito dei magnati che sostengono il sistema fiscale[3]. In Italia, uno dei Paesi OCSE con il più alto rapporto ricchezza-reddito – la quota di beni posseduti, come asset finanziari, case e quote societarie scavalca di gran lunga il reddito percepito – sulla tassazione è stato adottato un modello all’americana, a partire dalla riforma Tremonti, che ha abbassato le aliquote. Un percorso di riforme per cui oggi, sia sui redditi da capitale che sul capital gain (le plusvalenze) viene pagata una cedolare fissa del 26%, indipendentemente dal reddito.
Tasse: siamo tartassati?
Proprio le tasse, presentate nei media come oppressive per gli italiani, sono in realtà state ridisegnate per favorire i ricchi. «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività», afferma l’art. 53 della Costituzione italiana. Un principio stabilito per evitare la formazione di disuguaglianze eccessive tra gli italiani e garantire che i più abbienti potessero contribuire adeguatamente al benessere della collettività. Dall’IRPEF a 32 scaglioni del 1974 agli attuali 3 scaglioni, questo principio è stato talmente indebolito che la maggior parte degli economisti oggi definiscono il sistema fiscale italiano come “debolmente progressivo”, e addirittura regressivo per il 5% più ricco. Parallelamente alla disintegrazione della progressività, i governi hanno introdotto agevolazioni, condoni e scudi fiscali, con una pressione fiscale spostata sempre più sul ceto medio e sui lavoratori dipendenti, mentre gli autonomi e le imprese hanno goduto di tassazioni ridotte. Se è vero, infatti, che l’Italia ha una pressione fiscale complessivamente elevata – un tax rate al 42,9%, ovvero 4 euro su 10 di ricchezza totale provengono da tasse e contributi – a sostenere il welfare italiano sono i lavoratori dipendenti e i pensionati del ceto medio – tra i 35.000 e i 55.000 euro lordi – che da soli pagano il 63% dell’IRPEF, mentre autonomi e partite IVA si trovano a beneficiare del regime forfettario al 15% fino agli 85.000 euro.
Queste politiche hanno favorito l’accumulo di ricchezza per i più abbienti, mentre il welfare è stato progressivamente smantellato, eroso dall’enorme debito pubblico che grava sul nostro Paese. Un’idea per trovare le risorse necessarie è stata spesso rintracciata nell’imposta di successione, una riforma di matrice liberale introdotta per la prima volta da Giovanni Giolitti. Trent’anni fa questa imposta oscillava dal 27% al 33%, contribuendo a 2 punti percentuali di PIL, ma attualmente si aggira tra il 4% e l’8% attuale, uno dei livelli più bassi al mondo e molto vicino a quelli di paradisi fiscali come Panama. Nel 2021, quando Enrico Letta propose la “dote” per i più giovani da finanziare con l’innalzamento dell’imposta di successione al 20%, che ci avrebbe portato nella media dei Paesi OCSE – dal 5 al 45% in Francia e dal 7 al 30% in Germania, ad esempio – l’opinione pubblica e la stampa la definirono l’ennesimo tentativo di “mettere le mani nelle tasche degli italiani”. Sarà lo stesso premier di allora, Mario Draghi, a dire «è il momento di dare soldi ai cittadini, non di prenderli». Ma oltre alle generose riduzioni delle tasse degli ultimi anni, l’Italia ha uno dei tassi di evasione fiscale più alti al mondo: 130 miliardi stimati che lo Stato non incassa, e che potrebbero finanziare sanità e istruzione. Un ulteriore problema che accentua le disuguaglianze.
La demolizione del lavoro e il ruolo dei sindacati
L’altra colonna demolita dai ricchi è il lavoro. In Italia, in particolare, abbiamo assistito a tre fenomeni collegati tra di loro: aumento del lavoro part time e conseguente diminuzione delle ore lavorate; precarizzazione dei contratti; perdita di potere e di rappresentanza dei sindacati. Il mercato del lavoro è stato frammentato con l’introduzione di nuove forme contrattuali atipiche, per renderlo più flessibile e competitivo, che hanno causato la precarizzazione dei lavoratori. Un percorso programmato di riforme, dal protocollo Treu del 1993 fino al Jobs Act del 2015, ha progressivamente ridotto la centralità del contratto a tempo indeterminato rendendo i lavoratori un bene mobile e facilmente “scaricabile”. Dall’altra parte, dalla stagione della marcia dei quarantamila quadri della Fiat, passando per il decreto di San Valentino fino all’accordo di Pomigliano d’Arco, è stata la rappresentanza sindacale a essere sconfitta. Il potere dei sindacati di incidere nella contrattazione collettiva è stato eroso con il culmine del ruolo “consultivo” assegnatogli dal secondo governo Berlusconi, a cui si è aggiunto il drastico calo del numero di iscritti – quasi tutti pensionati nel caso della CGIL – rispetto alla seconda metà del Novecento. L’indebolimento della rappresentanza sindacale, e del suo naturale ruolo di contropotere rispetto al capitale, è stata una delle cause della stagnazione salariale italiana.
Se nel primo capitolo Staglianò presenta la fotografia in movimento della graduale caduta del nostro Paese, attraverso un’indagine delle condizioni economiche degli italiani confrontate con quelle dei cittadini dei Paesi OCSE, nel secondo, invece, l’autore analizza proprio le modalità con cui i ricchi sono diventati così ricchi e cosa ha fatto la politica per permetterlo, costruendo dei veri e propri miti. Nel capitolo finale emergono i motivi per cui questo problema non è percepito come tale e perché questa condizione insostenibile non ha ancora fatto emergere la rabbia che ci si aspetta, concludendo poi con alcune proposte di riforma per “rimettere a posto le cose” raccolte da economisti e casi studio internazionali. Ci sono poi due parti nel libro, gli “intermezzi”, dedicati rispettivamente a storie di straordinaria ricchezza e di tanto ordinaria povertà; racconti delle vite dei ricchi e dei poveri e di come si percepiscono al di fuori: il ricco non si sente quasi mai così ricco ma un povero si sente sempre poverissimo.
Perché non ci arrabbiamo: una fotografia dell’Italia e alcune proposte per cambiare le cose
Le parti più intense e rappresentative del libro di Staglianò sono probabilmente gli “intermezzi”, dove l’autore offre uno spaccato di “vita vera” di ricchi e poveri, attraverso il racconto delle loro esperienze. Storie come quelle di Giuseppe, rimasto senza una casa dopo la separazione dalla moglie e con a carico quattro figli, o di Salvina, sprofondata nella povertà dopo che le era stato tolto il reddito di cittadinanza, che per la prima volta le aveva dato la forza di iniziare una nuova vita, lasciando il marito. Queste persone, giorno dopo giorno, contano i soldi utilizzati con un’operosità che ai ricchi è sconosciuta; a loro, spesso, non piace neanche parlare di soldi ma di “valori”, che considerano la vera ricchezza. Se da un lato i poveri sono stati convinti del fatto che la povertà è colpa loro, i ricchi hanno sviluppato la percezione di meritare la propria ricchezza. Queste due classi conducono vite opposte e separate in un Paese in cui il meccanismo che elevava la condizione dei figli rispetto a quella dei genitori si è inceppato e le disuguaglianze si sono calcificate.
Nell’ultimo capitolo Staglianò si chiede dunque perché non ci arrabbiamo vedendo che, mentre il Servizio sanitario nazionale cade a pezzi e sempre più italiani fanno fatica a pagare il mutuo – record di 200.000 famiglie secondo i dati di Bankitalia 2023, 200 miliardi di euro dei “paperoni” italiani sono parcheggiati nei paradisi fiscali? Perché non ci indigniamo di fronte al fatto che il 5% più ricco delle famiglie italiane possegga il 46% della ricchezza nazionale, mentre un quarto dei lavoratori in Italia guadagna meno di 780 euro? Eppure, le proposte per cambiare le cose esistono già: patrimoniale, salario minimo, redesign del fisco in senso più progressivo, maggiori tasse sul capitale. Le disuguaglianze nel nostro Paese sono esplose su tanti fronti – intergenerazionale, di genere, territoriale – e la povertà ha toccato livelli preoccupanti, ma la politica non ascolta o volontariamente sposta lo sguardo.
«Se i lavoratori si rendessero conto del potere che hanno e avessero la fiducia in sé stessi per usarlo, potrebbero cambiare il mondo. Ma non l’abbiamo mai fatto». Questa frase, tratta da The Old Oak, del regista Ken Loach, apre il libro di Staglianò in un invito a chi è uscito sconfitto da questa secolare lotta di classe ad unirsi e organizzarsi per un futuro migliore. Hanno vinto i ricchi, ma per i poveri potrebbe esserci ancora una chance.
[1] Paolo Acciari, Facundo Alvaredo e Salvatore Morelli, The Concentration of Personal Wealth in Italy, MEF, 1995-2016.
[2] Jan Eeckhout, Il paradosso del profitto, trad. it. Marco Cupellaro, FrancoAngeli, Milano 2022.
[3] Jesse Eisinger, Jeff Ernsthausen e Paul Kiel, The Secret IRS Files: Trove of Never-Before-Seen Records Reveal How the Wealthiest Avoid Income Tax, ProPublica, 2021.
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