PIOMBINO. Più che la chiusura di un cerchio sarà l’atto finale di un incubo, qualunque sia l’esito di questa storia. L’incubo personale di Fausta Bonino, l’ex infermiera dell’ospedale di Villamarina condannata dalla Corte d’Assise d’Appello all’ergastolo per l’omicidio di quattro pazienti ricoverati nel 2015 nel reparto di anestesia e rianimazione dell’ospedale. E anche l’incubo collettivo di una città che all’epoca rimase scioccata e che da allora è in attesa che venga fatta giustizia per i familiari dei pazienti morti, secondo quanto ricostruito dalla Procura, per delle dosi massicce di eparina e, di conseguenza, per delle letali emorragie interne. Martedì 18 febbraio i giudici della Suprema Corte di Cassazione si riuniranno per emettere la sentenza su una vicenda giudiziaria che si trascina da nove anni. «Quel giorno la mia vita può finire, ho già la borsa pronta», dichiara Bonino al Tirreno, senza nascondere l’apprensione a pochi giorni dal pronunciamento dei giudici.
30 marzo 2016. L’infermiera del reparto di anestesia e rianimazione dell’ospedale di Piombino viene arrestata dai carabinieri all’aeroporto di Pisa. È appena atterrata con il marito, al rientro da Parigi, dove è andata a trovare uno dei suoi due figli. Una vita ordinaria finisce in manette. È il punto di non ritorno per l’infermiera, che all’epoca ha 56 anni. È accusata di aver ucciso 14 pazienti con l’eparina. «Incredibile», non c’è piombinese che non lo pensi. È invece è solo l’inizio di un incubo che si fa tremendamente reale con la condanna di primo grado (aprile 2019) all’ergastolo per 4 dei 14 omicidi contestati in un primo momento all’infermiera. Nel gennaio del 2022 sembra tutto finito quando la Corte di Appello annulla la sentenza di primo grado e assolve Bonino per non aver commesso il fatto, ma nel 2023 la Cassazione rimescola le carte, annulla la sentenza d’Appello e rimanda il procedimento per un Appello bis. Un anno fa il responso: ergastolo. Una mazzata. Così, dopo nove anni sulla graticola Fausta Bonino, originaria di Savona ma da tanti anni stabilita a Piombino, è una donna cambiata, profondamente segnata. Non lavora più in ospedale, vive stretta in una morsa giudiziaria, alleviata solo dall’affetto dei familiari e dalla nascita di un nipote. Sa di essere arrivata al dunque, non lo nasconde in alcun modo quando Il Tirreno la contatta al telefono.
Bonino, mancano pochi giorni all’udienza in Cassazione. Come arriva a questa data cruciale?
«Distrutta. Ero convinta dopo la prima sentenza della Corte d’Assise di Appello, che mi aveva scagionata, di esserne uscita. Avevamo portato le prove. Non mi aspettavo di rientrare nuovamente nel tritacarne. Sono innocente, lo giuro su mio nipote. Senta, se dopo la sentenza del 18 febbraio andrò in prigione i miei familiari non avranno giustizia. Nessuno l’avrà: né io, né loro».
Parla come se fosse di fronte a qualcosa di ineluttabile, ha ormai preso la fiducia?
«Sì, io la fiducia l’ho persa per come è andato il processo e dopo la sentenza di Appello bis. Il mio avvocato aveva portato le prove necessarie a discolparmi totalmente almeno su due dei quattro omicidi contestati: io non potevo essere presente negli orari nei quali sarebbero state somministrate le dosi letali di eparina. Il pm gli ha dato ragione, ma ha sostenuto che le cartelle cliniche fossero state falsificate. Una dichiarazione grave, mi sarei aspettata altre indagini e approfondimenti, ma non è andata così. E sono stata condannata».
Quindi cosa si aspetta dal prossimo 18 febbraio?
«Il peggio. Mi aspetto il peggio dopo la sentenza di Appello bis. Temo siano già d’accordo, ne sono convinta. Mi sto preparando, ho già fatto la borsa. Sono pronta ad andarmi a costituire il 19 febbraio».
Più volte si è definita una “vittima del sistema”, resta convinta di questo? Perché prova questa sensazione?
«Ne sono convinta per come è nato tutto. Vennero i Nas in ospedale. Ma invece di guardare tutto, mettere telecamere e cercare di capire cosa era successo davvero in quel reparto, hanno fatto una riunione con la caposala e il direttore sanitario, senza un medico. Hanno stabilito loro che era stata usata una siringa da 20 cc di eparina e in base a quello hanno ricostruito i turni. In fondo la questione non è mai andata oltre a questo, nonostante tutte le prove che abbiamo portato, dimostrando che l’eparina poteva essere somministrata con altre modalità. Solo nella prima sentenza di Appello era venuta fuori la verità. Lo dico, tanto probabilmente andrò in galera. Qualcuno si è accorto di aver sbagliato completamente le indagini e per coprire gli errori si vuole chiudere il caso. Per questo non credo più nella giustizia».
Quindi secondo lei gli omicidi sono stati commessi da qualcun altro?
«Per la Procura dietro tutti gli omicidi ci sarebbe la mia mano. Ma dai quattordici omicidi contestati ne sono rimasti quattro, per due di questi quattro ci sono le prove del fatto che non possa essere stata io a somministrare loro le dosi. Insomma, dove è la mano unica?»
Il suo è un caso che ha diviso la città e il Paese: da una parte chi la definisce “infermiera killer”, chi invece non crede che possa aver ucciso nessuno. Come è stato vivere sotto i riflettori in questi anni, in una realtà come Piombino?
«Sono uscita molto poco in questi anni. Mi sono chiusa in me stessa, frequento Firenze per stare con il mio nipotino e vado spesso dai miei fratelli in Piemonte. Con Piombino, tuttavia, non ho mai avuto problemi, non c’è una persona tra quelle che conosco che mi abbia accusato. Tante persone sono dalla mia parte».
Ma i familiari delle persone morte in corsia chiedono giustizia. Cosa si sente di dire loro?
«Voglio dire a tutti i piombinesi di valutare bene questa storia. Si sta condannando un’innocente, solo perché sono state fatte male le indagini. A nessuno gliene è fregato nulla di queste persone uccise, c’era solo da puntare il dito su di me. Ero il capro espiatorio più probabile».
Ha paura?
«Sì, tanta. Ho già salutato tutti, lo sto facendo da una settimana con tutte le persone a me più care. So che il 19 (il giorno dopo l’udienza in Cassazione ndr) potrà essere finita la mia vita».
Cosa la preoccupa di più?
«Non vedere crescere il mio nipote. I miei due figli ormai sono grandi, hanno la loro vita. Poi, ovviamente, lasciare solo mio marito Renato, quest’anno compie 75 anni. Siamo sempre stati molto uniti, ci siamo sempre fatti compagnia. Rimarrà solo».
Non sarà presente a Roma il giorno dell’udienza?
«No, me lo ha sconsigliato il mio avvocato (Vinicio Nardo ndr). Non potrei neanche entrare in aula, sarò in Piemonte dai miei fratelli».
C’è qualcosa che si è tenuta dentro in questi anni?
«Sono state dette tante bugie contro di me, una miriade di accuse non vere. Non ho potuto rispondere a tutte le persone che hanno detto falsità contro di me in questi dieci anni. Aspettavo che finisse tutto per denunciare queste persone, ma la causa ha fatto il suo corso, in questi dieci anni ho potuto solo seguire l’iter processuale spendendo i miei soldi per gli avvocati. Non credevo di poter essere coinvolta in questo sistema, essendo innocente. Non avrei mai creduto di arrivare fino a questo punto».
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