|
Porto Rico siamo noi, arrendersi a Trump, Gorizia al singolare, la soluzione 7%, la madre di Downing Street, il segreto di Vermeer, Modeo Felix, padri e figli alla francese, la playlist |
|
|
di
Gianluca Mercuri
Contributi e agevolazioni
![](https://agevolazioni.adessonews.eu/wp-content/uploads/2024/08/richiedi-informazioni_1-300x59-2.png)
per le imprese
|
|
|
Bentrovati. La Rassegna fine-settimanale è un piatto ricco. La rima la sapete.
La musica di chi se ne è andato Bad Bunny è un rapper di Porto Rico, che è arrivato al successo coltivando tutti i luoghi comuni del genere. Fino al suo ultimo album, il più ascoltato su Spotify da cinque settimane, in cui – racconta Alice Scaglioni – canta l’immigrazione. E lo fa in un modo così universale, che nelle sedie vuote della copertina ognuno vede il mondo che ha lasciato. E le persone a cui avrebbe dovuto scattare più foto. La resistenza a Trump Dopo la prima elezione ci fu una reazione veemente, collettiva, poderosa. Ora, la resistenza a Trump sembra sparita. Qualche voce isolata, confusa, disorientata e poco più. Alessandro ragiona sui motivi di questa débacle dell’opposizione, nella politica e nell’opinione pubblica. Il miracolo singolare di Gorizia Da domani, Gorizia e Nova Gorica sono capitale della cultura europea: «capitale» e non «capitali», una città riunita per scelta dopo essere stata divisa per decenni dalla Cortina di ferro. Unita dalla lungimiranza di italiani e sloveni, e soprattutto dall’Europa, la patria di tutti, il miracolo che diamo per scontato e che ci salva ogni giorno. Il reportage di Greta Sclaunich è bello fino a commuovere. La soluzione 7% No, non c’entrano le allucinazioni di Sherlock Holmes. Qui si tratta di salvare i paesi italiani dallo spopolamento, con una flat tax al 7% per i pensionati residenti all’estero che decidano di trasferirsi per almeno 9 anni in un’ampia area dell’Appennino. Buona idea alla portoghese, con qualche intoppo in posti come Norcia, dove le case non abbondano. Racconta tutto Claudio Del Frate, nella nuova puntata del suo viaggio per l’Italia. La lotta di una madre Sono 129 giorni che l’anglo-egiziana Laila Soueif, 68 anni, non mangia. E va a Downing Street con un cartello. Chiede il rilascio di suo figlio, Alaa Abd el-Fattah, condannato a 5 anni dal regime di Al-Sisi per aver messo un like a un post. Elena racconta la sua storia. Il quadro più ipnotico del mondo Perché quando ci troviamo di fronte alla Ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer non possiamo evitare di fissarla? Ora ce lo spiega la scienza: perché il triangolo bocca-occhi-orecchino innesca un «vortice emotivo» che cattura lo spettatore. Nella nuova puntata di Capolavoro!, Roberta Scorranese racconta tutto questo e la storia del maestro olandese che ci ipnotizza da quatro secoli. Modeo Felix Qui, lo sapete, siamo fan di Sandro Modeo, il più grande epigono di Gianni Brera: calcio raccontato con trascinanti modalità letterarie, e si resta attaccati al divano fino alla fine. Il ritratto di João Félix, nuova stella portoghese del Milan, è un viaggio nelle dolenze lusitane senza la scorta dei cliché. Padri e figli È il tema di Noi e loro, film francese delle sorelle Coulin. Con un ottimo Vincent Lindon, «magnifico nello scavo psicologico di quel padre con gli occhi arrossati che perde i suoi riferimenti e si sente indifeso di fronte a una realtà a cui non era preparato». Parola di Paolo Baldini. La playlist Perfume Genius, Destroyer, Di Bella: sono i nomi e i suoni scelti da Alessandro per la puntata numero 37 della sua raccolta, oltre cento pezzi che trovate tutti qui.
Buon ascolto, buona lettura e buon weekend!
|
|
|
|
|
|
|
|
Rassegna musicale/1 |
L’album più ascoltato del momento parla di emigrati |
|
|
|
![](data:image/gif;base64,R0lGODlhAQABAIAAAAAAAP///ywAAAAAAQABAAACAUwAOw==)
L’album più ascoltato al mondo su Spotify dall’inizio dell’anno parla di emigrati e di nostalgia. Debì Tirar Màs Fotos («Avrei dovuto fare più foto»), sesto disco di Bad Bunny, uscito il 5 gennaio scorso, è schizzato al primo posto nella classifica Billboard 200 e da allora ha continuato a farsi strada nelle cuffie degli ascoltatori di tutto il mondo. Ed ha convinto pubblico e critica. Bad Bunny – vero nome Benito Antonio Martínez Ocasio – nelle 17 tracce dell’album canta in spagnolo la storia di chi deve abbandonare il proprio Paese, e denuncia in salsa reggaeton (e non solo) la gentrificazione e il colonialismo che si intrecciano alla cultura del suo Paese, Porto Rico. A garantire il successo del disco non è solo la musica, ma anche i testi capaci di parlare al pubblico di temi così complessi.
Nato il 10 marzo 1994, a Vega Baja, cittadina vicino alla capitale San Juan, Martínez Ocasio sognava di fare musica fin da adolescente. Il papà lavorava come camionista, la madre è un’insegnante in pensione. Inizia a scrivere i primi brani all’età di 14 anni e poi a pubblicarli, nel 2013, tramite Soundcloud. Il successo arriva quindi con la maggiore età. Nel 2015 firma un contratto con l’etichetta Hear this Music. Il suo primo singolo prodotto, Soy Peor, funziona e Bad Bunny diventa famoso. Arrivano le collaborazioni con Will Smith e Marc Anthony e poi con Jennifer Lopez. Il terzo disco, El último tour del mundo, è quello che ne decreta l’ascesa tra gli artisti più amati e ascoltati al mondo: l’album vince un Grammy Award e un Latin Grammy come miglior album urban. Nel 2022, due anni dopo, pubblica Un Verano Sin Ti che esordisce direttamente al primo posto della Billboard 200 e si aggiudica cinque dischi di platino. Il suo lavoro di maggiore successo, finora.
Microcredito
![](https://agevolazioni.adessonews.eu/wp-content/uploads/2024/08/richiedi-informazioni_1-300x59-2.png)
per le aziende
La sua immagine è quella del rapper all’americana: successo, bellissime donne (ha avuto una storia con la modella Kendall Jenner, una delle Kardashian: i due si sono visti spesso in prima fila alle partite di Nba), macchine di lusso. Con Debì Tirar Màs Fotos però esce dai luoghi comuni del genere e racconta una storia che è la sua – quella di un portoricano che lascia il suo Paese e trova fortuna altrove -, ma parla allo stesso tempo a milioni di persone. Debì Tirar Màs Fotos canta la nostalgia di chi emigra da un Paese, lascia la propria casa e i propri affetti – in cui tutti possono riconoscersi in qualche parte e in qualche forma. Una narrazione che si sublima nel singolo Dtmf, che dà il titolo all’album.
Debí tirar más fotos de cuando te tuve Debí darte más beso’ y abrazo’ las vece’ que pude Ey, ojalá que los mío’ nunca se muden (traduzione: «Avrei dovuto fare più foto quando ti avevo /Avrei dovuto darti più baci e abbracci quando potevo /Ehi, spero che i miei non si trasferiscano mai»)
«Quando pensi a casa da lontano, cominci ad apprezzarla di più», ha detto Bad Bunny, che da anni vive tra New York e Los Angeles. «Si tratta di un album molto speciale, il cui scopo era in parte quello di unire le generazioni in un modo diverso: avere nipoti che condividono la musica con i loro genitori e nonni e celebrare la loro cultura in un modo speciale» ha spiegato in un’intervista a Billboard. Da qui, precisa, la scelta di uscire in una data speciale per il suo Paese d’origine, anche a costo di rischiare una partenza in sordina: «Il 5 gennaio era una domenica, il giorno perfetto, ed era anche la vigilia del giorno dei Re Magi, una data in cui, almeno a Porto Rico, la famiglia si riunisce. Questo era lo scopo. Voglio essere chiaro: conosco il settore e so che pubblicare un album di domenica significa perdere quasi tre giorni di streaming e che questo influisce sulla mia posizione in classifica. Ma questo non mi ha mai preoccupato. Il mio scopo non era competere con nessuno. Non volevo pubblicare un album che interferisse con quello di qualcun altro. Il mio scopo era quello che ho detto. Portare un album con l’essenza di Porto Rico che avrebbe unito le generazioni, risvegliato l’amore per il paese e la cultura e che sarebbe piaciuto alla gente».
Sigal Ratner-Arias su Billboard scrive: «Una canzone fortemente nostalgica che parla di apprezzamento per le cose semplici della vita e della mancanza delle persone e dei momenti passati, Dtmf ha conquistato profondamente il pubblico sia per il suo vivace mix di plena e reggaeton, sia per i suoi testi profondi. Il fatto che sia la penultima canzone di un album di 17 tracce dimostra quanto i fan di Bad Bunny siano disposti ad ascoltarla».
L’operazione nostalgia architettata da Bad Bunny si riflette anche nella musica che compone le 17 canzoni del disco: l’artista infatti ha recuperato brani tradizionali dell’isola, legando il «vecchio» al «nuovo» per far riscoprire il patrimonio musicale portoricano anche alle nuove generazioni. «L’album è totalmente coeso, ma anche musicalmente ambizioso nella sua base di strumentazione dal vivo, mescolando tradizione e modernità con i generi come salsa, reggaeton, dembow e plena, dando vita a un mosaico delle più preziose risorse musicali dell’isola. “NuevaYol” apre l’album con un sample (una parte di canzone) estrapolato da “Un Verano en Nueva York” che si trasforma in un brano travolgente. Lo stesso si applica all’anima di “Café con ron”, costruita da una melodia in stile afro-portoricano con il gruppo musicale Los Pleneros de La Cresta. (…) Tutte le collaborazioni sono con musicisti portoricani che rimangono fedeli al loro suono distintivo», scrive Thania Garcia su Variety, spiegando perché «Debí Tirar Más Fotos è il lavoro più determinato e risonante di Bad Bunny fino ad ora».
Lo sguardo è sempre alla sua Porto Rico, anche se lui vive ormai lontano dall’isola. In Lo que le pasó a Hawaii («Quello che è successo alle Hawaii») si rattrista per gli hawaiani sfollati e impoveriti e spera che Porto Rico non subisca la stessa sorte. «Vogliono portarmi via il fiume e anche la spiaggia / Vogliono il mio quartiere e che nonna se ne vada / No, non lasciare andare la bandiera né dimenticare il lelolai / Non voglio che ti facciano quello che è successo alle Hawaii». In quest’ottica, la scelta di Bad Bunny di coinvolgere artisti e musicisti della cultura locale nella realizzazione del disco non fa che rafforzare il suo messaggio. Jacobo Morales, regista di Lo que le pasó a Santiago, l’unico film portoricano candidato agli Oscar per il miglior film internazionale, recita nel corto che ha anticipato l’uscita del disco.
«All’apice della mia carriera e popolarità, voglio mostrare al mondo chi sono, chi è Benito Antonio e cos’è Porto Rico», ha detto Bad Bunny nel promuovere il suo ultimo lavoro.
Carta di credito con fido
![](https://agevolazioni.adessonews.eu/wp-content/uploads/2024/08/richiedi-informazioni_1-300x59-2.png)
Procedura celere
«Bad Bunny mi ha fatto mancare anche le nonne che non erano nemmeno le mie» scrive in una recensione su Vogue Italia Corinne Corci, che affronta proprio questa nostalgia che aleggia nel singolo e nell’album intero. Un sentimento che è stato abbracciato e raccontato anche sui social, dove la canzone è diventata in pochissimi giorni uno dei suoni più postati dagli utenti. Nonni e nipoti, genitori e figli, cani e i loro padroni. Foto sbiadite di compleanni e Natali passati, abbracci che non ritornano, ricordi impressi su carta e poi riversati nel mondo eterno dei social.
«Grazie Bad Bunny per avermi ricordato che non importa quanto diverse siano le culture da cui proveniamo, siamo tutti capaci di capire il linguaggio dei sentimenti», «Non traducete queste parole se non volete piangere», si legge nelle didascalie che accompagnano alcuni filmati. L’hashtag #Dtmf è stato usato su TikTok quasi mezzo milione di volte, il singolo ha fatto da sottofondo a poco meno di 600 mila video. Lo stesso artista ha pubblicato un video sul suo profilo in cui si riprende mentre piange, guardando fisso nello schermo. Come a dire: «Vedo quello che state condividendo, vedo a chi dedicate questa canzone». Ospite di Jimmy Fallon a The Tonight Show, il comico e presentatore ha svelato durante l’intervista: «Siamo stati insieme tutto il pomeriggio e, non scherzo, ha guardato il telefono tutto il tempo, scrutando TikTok, mettendo “Mi piace” ai video e guardando le reazioni dei suoi fan».
«Cantano Debì Tirar Màs Fotos, ricordando che nel mondo indipendentemente dalle geografie d’appartenenza la lingua dei sentimenti e dei ricordi è sempre la stessa per tutti», leggiamo su Vogue. E forse più delle parole a raccontare questo sentimento è l’immagine che fa da copertina all’album: due sedie bianche di plastica vuote, quelle che solitamente siamo abituati a collocare nel cortile di un condominio, magari quello in cui giocavamo da bambini, o nel giardino di un oratorio. Riconoscibili in tutto il mondo, hanno anche un nome: Monobloc, ovvero «monoblocco», dal modo in cui la sedia viene prodotta a partire da un singolo pezzo di plastica. Oggetti che «non importa chi sei e dove sei ma potrai comunque vederci qualcuno seduto a parlarti», scrive Corci su Vogue.
La copertina di Debì Tirar Màs Fotos
Seduto su quelle sedie, circondate dal verde rigoglioso di Porto Rico, ognuno vede chi vuole: Bad Bunny i suoi abuelos (i nonni), gli affetti che ha dovuto salutare quando ha lasciato il suo Paese, quelli da cui ritorna ogni volta che riesce e quelli che non ci sono più. E lo stesso vale per noi, che non riusciamo a fare a meno di cantare quelle parole pensando alle persone con cui, ora che non possiamo più, avremmo voluto scattare più foto.
|
|
|
|
|
|
|
Carta di credito con fido
![](https://agevolazioni.adessonews.eu/wp-content/uploads/2024/08/richiedi-informazioni_1-300x59-2.png)
Procedura celere
|
|
|
|
Rassegna americana |
Che fine ha fatto la resistenza a Trump? |
|
|
|
![](data:image/gif;base64,R0lGODlhAQABAIAAAAAAAP///ywAAAAAAQABAAACAUwAOw==)
«Fight, fight, fight», le parole pronunciate dopo l’attentato, è diventato il grido di battaglia di Donald Trump e dei trumpiani. Ma dov’è la battaglia? Che fine ha fatto la resistenza? Il nemico è scappato, è vinto, è battuto e dietro la collina non c’è più nessuno. Ma non c’è affatto la pace, neanche quella tacitiana del deserto (se non a Gaza). La guerra continua. Ma a combatterla è rimasto soltanto un esercito. L’altro, stordito, annichilito, si è ritirato nella ridotta. La trincea è abbandonata e come in una gigantesca Capitol Hill 2, una folla di combattenti travestiti da indiani, ha invaso il Paese, urla e accenna passi di danza, a imitazione del capo.
In molti hanno notato che il Trump I è stato segnato da molti segnali di resistenza. Manifestazioni imponenti, dissociazioni pubbliche, atti di ostilità e di attrito, rifiuti. Il giorno dopo la prima inaugurazione, nel 2017, mezzo milione di persone aveva invaso Washington. Milioni di manifestanti, da Roanoke, Virginia, ad Auckland, Nuova Zelanda, si erano uniti alla marcia mondiale delle donne, sostenendo messaggi di uguaglianza.
Il primo mandato era suonato come un’aberrazione, un’anomalia, che il sistema avrebbe presto riassorbito. Del resto, Hillary Clinton aveva raccolto tre milioni di voti in più del vincitore e solo il sistema elettorale aveva consentito la vittoria al tycoon. Rihanna e Jessica Chastain moltiplicavano gli appelli. L’hashtag #resistance dilagava. Il Me too, appena nato, era potentissimo. Black Lives Matter si faceva sentire in tutto il Paese. Trump – tra impeachment e ricorsi – sembrava isolato. Uno scherzo della storia.
Poi ha vinto Joe Biden. E poi è tornato Trump, per restare.
I due impeachment sono falliti, il procuratore speciale Robert Mueller non è riuscito a stabilire un nesso evidente tra la campagna di Trump del 2016 e il governo russo. Il giorno della seconda elezione le manifestazioni di protesta sono sembrate fiacche, prive di energia. Dopo la sbornia pro Harris, anche Hollywood si è placata. Le voci di Chappel Roan e Shakira ai Grammy sono sembrate flebili. Se nel 2017 stilisti come Marc Jacobs e Sophie Theallet avevano rifiutato di vestire la first lady, nel 2025 nessuno si è negato e ci si è aggrappati al cappello di Melania per sostenere una qualche misteriosa forma di resistenza passiva di una donna che è sempre sembrata un po’ vittima un po’ complice.
L’America riluttante si è messa in riga. Le poche vox clamans nel deserto ora fanno più rumore ma amplificano anche la loro solitudine. Come la vescova Marianne Budde che chiede pietà per gli immigrati e ottiene la risposta sprezzante di Trump: «Aveva toni cattivi, ma non è intelligente e non sa fare il suo lavoro».
Dilazione debiti
![](https://agevolazioni.adessonews.eu/wp-content/uploads/2024/08/richiedi-informazioni_1-300x59-2.png)
Saldo e stralcio
Brady Brickner-Wood si interroga sul New Yorker su dove sia finita la resistenza a Trump. Non può che tornare sulla tattica militare dello «shock and awe», colpisci e terrorizza. Sull’eterna critica dell’establishment, che viene visto come appannaggio del Partito democratico. La deputata Alexandria Ocasio-Cortez, non certo sospetta di vicinanza al presidente, ha spiegato come alcuni elettori abbiano votato contemporaneamente per lei e per Trump: «Ci hanno visto come due persone che sono fondamentalmente anti-establishment, due persone che non rispettano una regola se la regola non porta a un risultato».
Le regole. È saltato tutto e anche per questo, spiega Brickner-Wood, sono sembrati particolarmente inefficaci, sermoncini morali e filosofici, i discorsi preelettorali di Barack Obama. L’ex presidente, come gli altri democratici, è intervenuto nel dibattito sulle regole, come se fosse ancora possibile un dibattito, come se esistessero ancora delle regole. Nel frattempo Trump saltava nell’arena, annunciando che il mondo era un inferno e lui lo avrebbe salvato. Due partite diverse, la prima destinata a essere annullata per impraticabilità del campo.
I democratici si affannano a spiegare, giustificare, contestualizzare, discutere. Ma, come dice Mark Fisher, il dibattito pubblico sui social e in tv, unici luoghi rimasti, ha «a communicative sensation-stimulus matrix», una matrice comunicativa basata su sensazioni e stimoli. L’unica valuta che compra il consenso è quella istantanea o quasi: pochi secondi di slogan. E Trump è l’uomo politico più abile nell’usare questa moneta. Servono spregiudicatezza, rapidità, cinismo.
La resistenza è sparita anche perché Trump ha messo a punto il modello teorizzato da Steve Bannon nel 2018, in maniera poco elegante ma efficace: «To flood the zone with shit». Si tratta di inondare la zona, il terreno del dibattito pubblico, di escrementi. È un’espressione mutuata da un gergo sportivo, la tattica del football americano che punta ad attaccare su tutti i fronti la difesa avversaria fino a quando, inevitabilmente, si apre un punto debole. Bannon la voleva applicata ai media, considerati la vera opposizione, ma vale anche per l’opinione pubblica.
Così ha fatto Trump appena eletto. Ha sfornato un numero incalcolabile di ordini esecutivi. E pazienza se alcuni sono irrealizzabili, per altri c’è bisogno del via libera del Congresso, altri ancora sono dichiarazioni di intenti. L’idea era quella di sconcertare e sopraffare l’opinione pubblica e l’opposizione. Creare il caos. Moltiplicare i nemici e i campi di battaglia. L’opposizione, frastornata, ha provato a rispondere. Ma a cosa dare priorità? Alla liberazione dei criminali di Capitol Hill? Al licenziamento dei funzionari che lo avevano inquisito? Al neo imperialismo con Groenlandia e Canada? Ai progetti immobiliari di Gaza? Alla pena di morte? Allo ius soli? Potremmo andare avanti per un centinaio di righe, ma il concetto è chiaro.
Ci si può indignare per una uscita, per due provvedimenti, per tre leggi, ma per cento no. Ogni indignazione spazza la precedente. È un po’ il giochino «whack-a-mole», acchiappa la talpa. Non fai in tempo ad avvistarla da una parte, che è già dall’altra. E tu che la stai cercando, sei accecato dai fari accesi di un esercito di macchine e ti paralizzi.
Non è casuale, dunque, questa raffica di ordini. Così come è studiata un’altra tecnica, chiamata «friday drop». Siccome nel weekend la gente perde interesse per le news, ecco il momento giusto per farle uscire. Così, la nomina del controverso Pete Hegseth a nuovo segretario alla Difesa è arrivata venerdì e i notiziari del lunedì erano già passati ad altro.
Prestito condominio
![](https://agevolazioni.adessonews.eu/wp-content/uploads/2024/08/richiedi-informazioni_1-300x59-2.png)
per lavori di ristrutturazione
Che fare, dunque? Il senatore democratico Chuck Schumer ha delineato così la tattica: «Stiamo scegliendo le battaglie più importanti e ci sdraieremo sui binari del treno per combattere quelle battaglie». Brickner-Wood non è convinto che funzioni: «Ogni resistenza per definizione è reattiva. Ma forse sarebbe meglio che i democratici si costruissero i propri binari». E, forse, c’è un tempo per ogni cosa. Il caos può funzionare per un po’, ma poi la gente vuole chiarezza, stabilità, ordine. E forse allora si accorgerà che non è una bella sensazione ritrovarsi «flooded with shit».
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Rassegna italiana/1 |
Nova Gorica e Gorizia capitale della cultura europea 2025: storia di due città che sono diventate una sola |
|
|
|
![Go!2025, Nova Gorica e Gorizia capitale della cultura europea 2025: storia di due città che sono diventate una sola](data:image/gif;base64,R0lGODlhAQABAIAAAAAAAP///ywAAAAAAQABAAACAUwAOw==)
«Sul confine c’erano i druse (“compagno” in sloveno, ndr) che passeggiavano su e giù, con i mitra sulle spalle e i cani lupo: se ti avvicinavi troppo ti urlavano “Stoj!”, “Alt”. Ai controlli ti chiedevano cos’avevi da dichiarare e se dicevi “niente” non ti credevano. Una volta, da bambina, avevo con me un pacco di biscotti per la nonna che abitava in Jugoslavia e la guardia di confine ha voluto controllarli. Li ha rotti uno per uno, e non ha risparmiato neanche la scatola».
Questa, nei ricordi della 83enne Celestina Goljevscek, era l’aria che si respirava quando si voleva passare il confine tra Gorizia e Nova Gorica. Un confine che coincideva con la Cortina di ferro e che per decenni è stato la porta su un altro mondo: divideva l’Italia dalla Jugoslavia, Gorizia e i suoi mille anni di storia dalla nuovissima Nova Gorica, nata e cresciuta accanto al confine dopo che questo era stato tracciato nel 1947 con l’obiettivo di diventare la «vetrina» del Paese.
Divideva, soprattutto, i Paesi dell’Occidente da quelli di impronta socialista (anche se il maresciallo Tito aveva rotto con l’Urss di Stalin nel 1948, un anno dopo la costruzione del confine, e la Jugoslavia è stato il primo dei Paesi non allineati). Non sempre in maniera razionale: alcuni contadini si ritrovarono con la casa in Italia e la stalla, o i campi, in Jugoslavia; nella vicina Merna/Miren la frontiera passava in mezzo alle tombe del cimitero.
Ungaretti e Preseren
Oggi il confine non divide ma unisce. Non è un’espressione retorica perché è proprio grazie a quel confine che Nova Gorica e Gorizia, insieme, sono state proclamate Capitale europea della cultura 2025. È la prima volta che il titolo viene assegnato a due città di due Paesi diversi e per la partenza di Go!2025, il nome dell’evento, è stata scelta una data emblematica per entrambe: l’8 febbraio, Giornata della cultura in Slovenia ma anche data di nascita del poeta italiano Giuseppe Ungaretti e commemorazione del poeta sloveno France Prešeren.
Contributi e agevolazioni
![](https://agevolazioni.adessonews.eu/wp-content/uploads/2024/08/richiedi-informazioni_1-300x59-2.png)
per le imprese
Una grande prova di cooperazione, ultimo passo avanti di un percorso che comincia da lontano e che conta diverse date emblematiche: il 2004, quando la Slovenia entrò nell’Ue; il 2007, quando entrò nell’area Schengen; il 2010, quando le due città insieme alla vicina Šempeter-Vrtojba, crearono il Gruppo europeo di cooperazione territoriale.
Il Covid e le transenne
Con un piccolo passo indietro durante il periodo del Covid: nel 2020, per controllare i flussi dall’Italia, venne costruita una recinzione temporanea per dividerle di nuovo. «Me lo ricordo: è stato proprio quando abbiamo messo quelle transenne che ci siamo resi conto di cosa significasse avere ancora una volta il confine tra due città che, nel frattempo, avevano sviluppato una grande collaborazione», osserva Samo Turel, sindaco di Nova Gorica.
Nato nel 1975, rievoca senza difficoltà la Cortina di ferro: «Quando ero piccolo si andava in Italia per comprare jeans, caffè e dischi, la musica dell’Ovest che in Jugoslavia non si trovava». Il sindaco di Gorizia Rodolfo Ziberna, classe 1961, aggiunge: «Noi invece andavamo in Jugoslavia per prendere sigarette, carne e per fare benzina».
Entrambi hanno vissuto sia il confine chiuso di ieri sia quello aperto di oggi, talmente aperto che in certi punti si passa da una città all’altra quasi senza accorgersene. A fare da guida è l’architettura. A Gorizia c’è il centro storico con le sue vie piccole e tortuose e i palazzi antichi. A Nova Gorica l’impronta degli edifici è quella socialista e il rigore della città nuova, costruita a tavolino, si nota anche nella planimetria.
I progetti comuni
Le due Gorizia, negli anni, hanno cominciato ad amalgamarsi e oggi hanno parecchi servizi in comune. Il punto nascite, per esempio, si trova a Nova Gorica ma grazie a uno speciale accordo ci possono andare anche le partorienti italiane; i bambini delle due città possono frequentare le scuole di entrambe, senza distinzioni; sul tracciato del vecchio confine è stato costruito un percorso ciclopedonale frequentato da italiani e sloveni.
Piazza Transalpina, che nel 1947 fu tagliata in due lasciando la stazione d’impronta austroungarica in Jugoslavia e parte del piazzale antistante in Italia, oggi è uno spazio unico, unito e aperto. I due centri si sono man mano avvicinati: come spiega Patrizia Artico, assessora di Gorizia a Go!2025, «entrambe sono città di confine, piccole e marginali. Unendo le forze diventano una città territorialmente unica con un bacino di 70 mila abitanti: la nomina a capitale culturale europea è solo l’inizio».
La nuova economia di confine
Anche perché le divisioni non convengono. Intorno al confine si era sviluppata un’economia che, da quando è stato smantellato, non esiste più. Gorizia, per decenni città-emporio per la Jugoslavia, si è trovata priva della sua fonte economica principale e di tutta una serie di condizioni che l’avevano favorita, come la zona franca o le tante caserme, oggi vuote. Allo stesso tempo Nova Gorica è diventata europea e alcune delle cose che attiravano gli italiani oltre confine sono sparite.
I night club, per esempio, sono stati tutti chiusi e la clientela dei casinò, aperti negli anni ’80 sul modello di Las Vegas per dare una svolta al turismo, si è assottigliata. Oggi gli abitanti delle due città tendono a viverle come fossero un centro unico: la carne si compra ancora in Slovenia, la birra però in Italia. Le case costano meno in Italia, ma gli infissi si acquistano in Slovenia.
La vita a cavallo delle due città
«Vivo in Slovenia, ma lavoro in Italia: faccio su e giù dal confine ogni giorno, anzi diverse volte al giorno. Ho amici sia a Gorizia che a Nova Gorica quindi frequento entrambe le città». La vita di Alojz Felix Jermann, 28 anni, è l’opposto di quella di nonna Celestina Goljevscek quando aveva la sua stessa età.
Nato nel 1996, quando la Jugoslavia già non esisteva più, ricorda il confine come un posto di blocco dove ti fermavano per dei controlli. Ma per Alojz bambino era forse soprattutto una seccatura, non un luogo che incuteva paura come lo era stato per la nonna quando vedeva i soldati con i mitra e i cani lupo.
La «Domenica delle scope»
Entrambi, però, hanno vissuto due momenti storici nel processo di apertura dei confini. Per Celestina è stato il 13 agosto 1950, quando aveva 9 anni: «Da un po’ girava la voce che avrebbero aperto il confine, ed è successo veramente. Quel giorno ero con la mamma e il mio fratellino sul confine, sperando di riuscire a incontrare la nonna e gli zii, e d’un tratto abbiamo visto arrivare una folla enorme e pacifica».
«I soldati, sia jugoslavi che italiani, hanno lasciato passare tutti senza bisogno di documenti e né controlli. C’era un’atmosfera di festa e io ho potuto riabbracciare finalmente i miei cari rimasti di là». Quel giorno è passato alla storia come la «Domenica delle scope», perché i goriziani aprirono i negozi e le persone in arrivo dalla Jugoslavia fecero incetta di qualsiasi prodotto.
L’articolo più richiesto? Proprio la scopa di saggina, che darà poi il nome alla giornata. Per Alojz, invece, la data da incorniciare è il Primo maggio 2004, quando la Slovenia diventò ufficialmente membro dell’Ue e il confine tra le due città venne smantellato: «Avevo 8 anni e non avevo ben chiaro cosa stesse succedendo, ma ricordo l’atmosfera che cambiava e la felicità dei miei famigliari».
Il confine che unisce
L’obiettivo di Go!2025, concordano i due sindaci, è «promuovere il territorio, anche dal punto di vista turistico, sottolineandone l’unicità e mostrando come, nonostante le difficoltà del passato, si possa collaborare e andare oltre le divisioni». La vita di tutti i giorni degli abitanti di Gorizia e Nova Gorica lo conferma, come sottolinea Celestina: «Oggi noi andiamo di là, loro vengono di qua… è un altro vivere, adesso si sta bene».
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Rassegna italiana/2 |
Norcia e la «soluzione 7%» per salvare i borghi: sconto sulle tasse a chi decide di trasferirsi |
|
|
|
![Norcia](data:image/gif;base64,R0lGODlhAQABAIAAAAAAAP///ywAAAAAAQABAAACAUwAOw==)
«La soluzione 7%» non è solo un romanzo che ha per protagonista Sherlock Holmes. La «soluzione 7%» è anche la formula con cui fermare lo spopolamento dei borghi storici nel cuore dell’Italia: tassa piatta ridotta ai minimi termini a favore di pensionati che decidono di trasferirsi nel «cratere» colpito dal terremoto del 2016.
Funzionerà? «Qui a Norcia, per la verità, la gente non è fuggita. Ma se giro per altri paesi della zona mi rendo conto che la situazione è triste: case vuote, ancora lesionate, cantieri aperti, incertezza sul futuro» racconta Giuliano Boccanera, sindaco del comune che ha dato i natali a San Benedetto, patrono d’Europa.
Già, che succede se a spopolarsi non sono semplicemente zone periferiche, di montagna, ma comunità che sono l’anima stessa dell’Italia, patrimoni di storia e di arte che rischiano l’abbandono?
L’Istat ha certificato su quale piano inclinato si trovano i circa 4.000 comuni delle aree interne della penisola: qui la diminuzione degli abitanti tra il 2014 e il 2024 è stata del 5%, con punte superiori al 7 nelle aree più remote. Contro una media nazionale attorno all1%. Ma con una aggravante: «Quando l’emigrazione del capitale umano è permanente e non rimpiazzata da un volume di rientri di giovani qualificati, la perdita di popolazione ha un peso più gravoso».
Meno giovani e più anziani, ma anche meno persone con un grado di istruzione e un tenore di vita elevato.
E allora, per curare la malattia ecco la «soluzione 7%». Lo scorso dicembre il commissario straordinario per il sisma 2016 Guido Castelli e il viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli hanno presentato un’iniziativa anti spopolamento: flat tax al 7% per tutti i pensionati italiani residenti all’estero che decidono di prendere casa per almeno 9 anni in un’area dell’Appennino che comprende 131 comuni tra Umbria, Marche, Lazio e Abruzzo. «La nostra proposta è rivolta, soprattutto, a salvare dei Comuni ricchi di storia dalla crisi demografica che grava su tutto il paese» ha detto Castelli.
Si punta insomma sulla cosiddetta «silver economy»: rimettere in pista un tessuto economico puntando sulle fasce di età più elevate ma che sono anche quelle con il portafogli più dotato: gli over 65 hanno consumi medi per 15.742 euro l’anno, oltre mille in più rispetto alla fascia di età 19-34.
La ricetta non è inedita: il caso più noto riguarda il Portogallo, divenuto grazie agli sconti fiscali l’approdo di migliaia di pensionati italiani. Finché il governo di Lisbona non ha revocato i benefici a causa delle storture indotte dalla eccessiva presenza dei nuovi arrivati: assalto ai servizi, mercato immobiliare esploso, prezzi divenuti proibitivi per i cittadini portoghesi meno abbienti. E per la verità anche qua e là per l’Italia si era tentato di allettare nuovi residenti in più modi: dalle case offerte a un euro nell’entroterra di Sardegna e Sicilia, ai 5.000 euro a fondo perduto per chi apre un’attività economica nell’entroterra foggiano o i 700 euro al mese offerti dalla Regione Molise. Mentre Santa Flora (Grosseto) ha investito sulla rete internet sperando di attirare lavoratori in smart working. Tutte idee che hanno riscosso apprezzamento ma che fino a oggi non hanno invertito la tendenza.
Vista da Norcia, cuore dell’Umbria che è a sua volta il cuore dell’Italia, l’idea della flat tax al 7% non smuove grandi entusiasmi: fino a oggi nessuno ha bussato alle porte del borgo chiedendo ospitalità. Ma il sindaco Giuliano Boccanera fa una premessa: «Sulla via principale della cittadina funzionano cinque banche e l’ufficio postale; l’asilo nido comunale ha raddoppiato le presenze. Di gente, insomma se ne vede molta. Accogliere nuovi residenti? Al momento non avremmo case dove metterli…».
Le parole del primo cittadino toccano un punto cruciale della questione: «La ricostruzione post terremoto negli ultimi tempi ha conosciuto un’accelerazione ma siamo ancora a metà circa del lavoro da fare. Se la gente se ne è andata dalle zone colpite, è soprattutto perché non ha potuto ancora rientrare nelle case o rimettere in piedi una attività». La città di San Benedetto però ha potuto contare su un altro fattore positivo: «Anche nei giorni più bui e dolorosi del post sisma la comunità non si è disgregata, non è stata dispersa in hotel sulla costa». Ma allora quali sono le leve che possono davvero scongiurare il declino di questi luoghi? «Accelerare sulla ricostruzione è la nostra prima esigenza – chiarisce Boccanera – e poi migliorare le infrastrutture: la sanità, i trasporti, internet veloce. Sono le basi che possono convincere la popolazione a non scappare. O nuovi residenti a venire qui».
Trasformare i paesi dell’Appennino in un «buon retiro» per la terza età? La formula è riduttiva ed è smentita da alcuni dati: un report di Coldiretti e Unioncamere sottolinea ad esempio che le aziende agricole aperte da giovani sono cresciute del 14% in cinque anni.
Da parte sua uno studio di Deloitte ha calcolato che nel 2022 i visitatori dei borghi antichi d’Italia (la maggior parte concentrati tra Toscana, Umbria e Marche) hanno generato una spesa complessiva di 13,8 miliardi di euro. Numeri piccoli in senso assoluto ma che possono significare la salvezza per decine di comunità.
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Rassegna dei diritti |
La madre che da 129 giorni non mangia per il figlio in carcere in Egitto |
|
|
|
![](data:image/gif;base64,R0lGODlhAQABAIAAAAAAAP///ywAAAAAAQABAAACAUwAOw==)
C’è una madre a Londra che da 129 giorni non mangia perché aspetta il rilascio di suo figlio, chiuso in una prigione in Egitto da cinque anni per un post sui social media. Laila Soueif, 68 anni, matematica, professoressa universitaria al Cairo e attivista politica con doppia cittadinanza, britannica ed egiziana, da gennaio ogni giorno manifesta davanti all’ufficio del primo ministro britannico Keir Starmer per chiedere che faccia pressione sull’Egitto perché rilasci suo figlio Alaa Abd el-Fattah, 43 anni, uno dei più importanti attivisti egiziani pro democrazia. Abd el-Fattah ha trascorso la maggior parte degli ultimi 14 anni in carcere dopo aver preso parte alla rivolta del 2011 che ha rovesciato il regime di Hosni Mubarak. Era la primavera araba e sembrava che la speranza di una svolta democratica in Egitto potesse diventare realtà. Non è stato così: dal 2013 il generale Abdel Fattah al-Sisi (prima come premier, poi come presidente) ha dato un giro di vite contro dissidenti e critici, incarcerando migliaia di persone, vietando di fatto le proteste e monitorando i social media. È una svolta che noi italiani conosciamo bene: ha portato alla morte di Giulio Regeni e all’arresto di Patrick Zaki, quest’ultimo poi graziato dopo le pressioni dell’Italia. Nel 2019 Human Rights Watch ha stimato che nelle carceri egiziane ci sono 60 mila detenuti politici, anche se al-Sisi sostiene che l’Egitto «non ha prigionieri politici o di opinione».
Laila Soueif davanti a Downing Street, mercoledì (Ap)
Laila Soueif vorrebbe che il governo inglese si impegnasse di più per suo figlio, condannato per aver messo like a un post su Facebook che descriveva le torture nelle carceri egiziane (il reato contestato è la «diffusione di notizie false»). Abd el-Fattah è in carcere dal settembre 2019 ed è stato condannato a cinque anni di prigione dopo un processo davanti a un tribunale di sicurezza di emergenza. Soueif è in sciopero della fame dal 29 settembre, giorno in cui suo figlio avrebbe dovuto essere rilasciato. Ma le autorità egiziane si sono rifiutate di conteggiare gli oltre due anni di detenzione preventiva e hanno ordinato che rimanga in carcere fino al 3 gennaio 2027. Poiché Abd el-Fattah, 43 anni, ha sia la cittadinanza egiziana che quella britannica (ottenuta nel 2021 attraverso la madre), Soueif chiede al governo del Regno Unito di fare pressione sulla controparte del Cairo affinché lo rilasci. Ma le autorità egiziane non lo riconoscono come cittadino inglese e hanno anche impedito all’ambasciatore del Regno Unito di fargli visita. Sia Starmer che il ministro degli Esteri britannico David Lammy hanno sollevato diverse volte il caso di Abd el-Fattah con le loro controparti egiziane, finora senza successo. La madre non si arrende. Spera che adesso il Regno Unito possa ottenere qualcosa perché l’Egitto cercherà il sostegno dell’Europa per opporsi alla proposta del presidente Donald Trump di prendere il controllo della Striscia di Gaza e trasferire i residenti palestinesi nei Paesi arabi vicini.
Dopo più di quattro mesi di sciopero della fame, Soueif ha perso 25 chili. La sua voce flebile a volte è difficile da sentire per il rumore della strada e ha difficoltà ad alzarsi dalla sedia. Questa settimana è finita in pronto soccorso. «Sono più lenta. Piango di più», ha detto all’Ap. «Prima non piangevo mai». «È già un miracolo che io abbia resistito così a lungo», ha aggiunto. «È un rischio che devo correre». Ogni mattina apre la sua sedia sul marciapiede davanti all’ingresso di Downing Street e aggiunge un altro segno al conteggio del suo sciopero della fame. Incorniciate da manifesti «Free Alaa»e da uno striscione che recita «Keir Starmer, riporta mio figlio a casa», ci sono anche foto di madre e figlio insieme in momenti più felici: un abbraccio vicino a una cascata, la festa dopo un precedente rilascio dalla prigione e tre gigantografie del suo bambino dai capelli ricci che sorride per la macchina fotografica. «Andrò avanti finché Alaa non verrà rilasciato o io crollerò», ha detto Soueif all’Ap. «La maggior parte delle madri, se i loro figli sono effettivamente in pericolo, è pronta a morire».
Laila Soueif con la foto del figlio (Ap)
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Rassegna dell’arte/Capolavoro |
Vermeer ci ipnotizza (rendendo le persone oggetti sacri): lo dicono le neuroscienze |
|
|
|
![Vermeer ci ipnotizza: lo dicono le neuroscienze (e non solo) L'artista di Delft trasforma le persone in soggetti sacri](data:image/gif;base64,R0lGODlhAQABAIAAAAAAAP///ywAAAAAAQABAAACAUwAOw==)
Che ci piaccia o meno, quando ci troviamo di fronte Ragazza con turbante (o, come è meglio conosciuto il dipinto, Ragazza con l’orecchino di perla), c’è qualcosa che ci spinge a fissarla. E a rimanere con lo sguardo sull’opera molto più a lungo di quanto facciamo di solito. E questo qualcosa è stato identificato da alcuni neuroscienziati: è il triangolo occhi-bocca-orecchino, una specie di «vortice emotivo» che cattura lo spettatore e che lo trattiene. Lo ha accertato uno studio indipendente condotto da un gruppo di ricercatori per conto del Museo Mauritshuis de L’Aia, quello che conserva, appunto, la Ragazza con turbante e altre opere di Jan Vermeer.
Il pittore, dunque, aveva dato peso a questi tre dettagli che, considerate le dimensioni ridotte del quadro (44,5 per 39 centimetri), risaltano in modo molto evidente, dando spessore al personaggio. La storia gli ha dato ragione, perché questa ragazza è diventata prima la protagonista dell’omonimo best seller di Tracy Chevalier e, in seguito, un film di successo con Scarlett Johannson. E oggi la conosciamo come La Monna Lisa del Nord. Pur essendo senza nome, nel senso che l’identità della donna non era all’epoca rilevante: il quadro è un «tronie», rientra nel novero di quei dipinti di genere (quasi sempre volti o mezzibusti con abbigliamento esotico) i cui tratti somatici erano spesso inventati dall’artista.
«Devi fissarla, che tu lo voglia o no. Devi amarla, che tu lo voglia o no», ha detto Martin de Munnik, della società di ricerca Neurensics che ha condotto lo studio. E, a pensarci bene, lo stesso imperativo desiderio di fermarsi a guardare ci coglie davanti a molte altre opere dell’artista olandese, nato a Delft nel 1632 e qui morto nel 1675. La lattaia, per esempio. Una donna semplice, robusta, con un abbigliamento spartano, raffigurata in un ambiente modesto come la cucina. Eppure, non possiamo smettere di guardarla perché la cura, la lentezza misurata e l’attenzione con cui sta compiendo un gesto semplice e abituale (versare il latte) la elevano portandola in un territorio sacro, come se si trattasse di una mistica nell’atto di raggiungere l’illuminazione divina.
![](data:image/gif;base64,R0lGODlhAQABAIAAAAAAAP///ywAAAAAAQABAAACAUwAOw==)
«La lattaia», 1658-1660 circa
E se dovessi definire in poche parole Jan Vermeer, probabilmente mi limiterei a queste: uno che sapeva trasformare la gente comune in soggetti sacri. Pochi come lui sono riusciti a trasformare una giovane donna, rappresentata nell’atto di leggere una lettera, in una sorta di Madonna dell’attesa. O un concerto di famiglia in una Sacra Conversazione. Che siano di estrazione alto borghese (come quelle che si lasciano servire dalle fantesche) o di umili origini (le merlettaie), le sue Madonne laiche ci attraggono inesorabilmente e ci appaiono grandi, smisurate, a dispetto delle piccole dimensioni dei dipinti dell’artista. Ed ecco un altro tratto di Vermeer: i suoi soggetti si fanno spazio, sovrastano l’ambiente, lo superano e così facendo superano anche i canoni della pittura di genere, che tendeva ad armonizzare persone e cose e a metterle sullo stesso piano.
«Donna che legge una lettera davanti alla finestra», 1657 circa
Eppure Jan nasce in un ambiente in cui la pittura di genere era un vero e proprio cardine sociale: siamo nell’Olanda delle Province Unite, dopo l’autonomia raggiunta e la separazione dai Paesi Bassi del Sud, cattolici e governati dalla Spagna. I Paesi Bassi del Nord erano a maggioranza calvinista e si erano dati un assetto politico di stampo repubblicano, guidato da uno statolder. Gli Olandesi erano abili commercianti, lavoravano la porcellana e le stoffe: il padre di Vermeer, Reynier Jansz, era un tessitore di caffa (un raso di seta usato per abiti e tappezzerie). Gestivano locande (lo stesso artista, tra i tanti lavori che affiancherà alla pittura, dirigerà un locale), andavano per mare, si erano dati un’organizzazione orizzontale nella quale la logica calvinista cercava una ricchezza diffusa, una sorta di dignità allargata anche negli ambienti meno floridi. In più, c’era una ricerca ossessiva della pulizia, sia della casa che della persona: dappertutto, stando ai racconti dei viaggiatori del XVII secolo, si vedevano tavole perfettamente imbandite, soggiorni in ordine, quadri alle pareti, ragazze ben vestite e uomini dall’abbigliamento curato.
Questa cura maniacale del dettaglio, cardine della pittura fiamminga, si riverbera anche nell’opera di Vermeer, ma con una differenza sostanziale: nei suoi quadri il dettaglio serve a far risaltare il soggetto, non resta mai al centro della scena. E così, per capire questo punto fondamentale, la vera natura «ipnotica» delle sue opere, bisogna fare un’escursione nella sua vita. Proveniente da una famiglia dignitosa ma non ricca, Jan sposò, invece, una donna di origini ben diverse, famiglia facoltosa ma cattolica. Si convertì al Cattolicesimo (secondo molti biografi per ragioni di convenienza) e cominciò una strana vita, divisa tra la pittura (poca) e gli affari. Divenne mercante, locandiere, commerciante. Dipingeva con parsimonia (ci sono testimonianze di viaggiatori stupiti perché in casa non aveva alcuna opera di sua mano), ma metteva in ogni quadro una cura religiosa. Era lento e metodico come la sua lattaia mentre versa il latte. Entrò nella Gilda di San Luca, la corporazione dei pittori, ma a differenza di molti altri suoi (quasi) contemporanei come Rembrandt, non si adoperò febbrilmente per organizzarsi con una bottega o con dipendenti.
«Fantesca che porge una lettera alla signora», 1667
Cosa del tutto normale nell’Olanda dell’epoca: senza committenze religiose, era la classe alto borghese che commissionava dipinti, soprattutto di piccole dimensioni, da tenere in casa, e «di genere», quindi dalle marine agli interni fino ai paesaggi. Vermeer sembra quasi ignorare tutto questo e si divide tra gli affari (comprensibilmente: aveva spesso bisogno di soldi) e una pittura tutta sua, lontana dalle strade che prendevano i suoi colleghi. È stato probabilmente per questo motivo che Vermeer, poco per volta, si è allontanato dalle caratteristiche della pittura di genere, fatta spesso di ammiccamenti, aneddotica, messaggi moralistici. E ha preso a esplorare la strada michelangiolesca della figura umana: corpo, muscoli, spazio ben definito, una presenza molto forte nella scena, con una personalità nitida.
Si spiega così il motivo per cui anche un dipinto che avrebbe avuto tutte le qualità per entrare nella dimensione della moralistica, come Ufficiale e giovane ragazza che sorride (con lei intenta a sorseggiare vino), si mantiene elegante, distaccato, senza giudizio alcuno. Questo smarcamento dalla linea fiamminga più comune, avviene però con una tecnica ben precisa: Vermeer, nei dipinti, ad un certo punto restringe l’attenzione sui soggetti, conferisce loro spessore, chiude angoli che altri artisti, invece, aprono. E questo gli permette di «far parlare» i soggetti, non tanto di lasciarli osservare.
«Ufficiale con ragazza che sorride», 1658
Ma tutto questo è stato possibile perché Jan scelse di lavorare con lentezza e lavorare con lentezza significa produrre di meno, accettare meno committenze, in sostanza guadagnare somme inferiori. Se ne accorse, di straforo, anche Marcel Proust, che quando, nel 1902, vide per la prima volta Veduta di Delft, lo definì «il dipinto più bello del mondo».
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Rassegna sportiva |
João Félix, la storia (e la pericolosa tendenza a ingrigire) del «longilineo polivalente» che inventa magie |
|
|
|
![MILAN, ITALY - FEBRUARY 05: João Félix celebrates after scoring the 3-1 goal during the Coppa Italia Quarter Final match between AC Milan and AS Roma at Stadio Giuseppe Meazza on February 05, 2025 in Milan, Italy. (Photo by Diego Puletto/AC Milan via Getty Images)](data:image/gif;base64,R0lGODlhAQABAIAAAAAAAP///ywAAAAAAQABAAACAUwAOw==)
È il 71’ del secondo tempo di Milan-Roma: pur con la parziale complicità di una difesa giallorossa imperfetta, i due nuovi arrivi rossoneri, Giménez e João Félix, entrati da dieci minuti, partono lungo il binario 9 e ¾ (quello che conduce Harry Potter e i compagni dalla stazione di King’s Cross alla scuola di Hogwarts) e chiudono di fatto la partita. Il binario 9 e ¾ è in questo caso una metafora duplice: sia della capacità dei giocatori tecnici e visionari di insinuarsi negli assetti avversari («grande giocatore vede autostrade — sentenziava il grande Boskov — dove altri solo sentieri»), sia di un’azione d’insieme svolta con inversione temporanea dei ruoli: il centravanti Giménez in quello di assist-man (ricezione di destro da Musah, filtrante di sinistro), il trequartista Felix in quello di finalizzatore, con rapida sequenza destrorsa di doppio controllo-aggiustamento e scavetto «molecolari», in pura leggerezza mozartiana.
I due artefici del 3-1 arrivano però al Milan (uno acquistato, l’altro in prestito) in momenti tra loro molto diversi. Il quasi 24enne messicano-argentino dopo un triennio al Feyenoord in cui ha vinto tutto, almeno in Olanda, con un rendimento granitico (45 gol in 73 presenze), al punto da essere uno degli attaccanti più corteggiati d’Europa. Acquisto, per inciso, potenzialmente decisivo già a breve in un gioco di addizione-sottrazione, dato che il Milan troverà tra qualche giorno, nei playoff di Champions, proprio il Feyenoord (ostacolo comunque ispido).
Il «menino de ouro» lusitano (che ormai va per i 26) dopo una lunga eclissi, se al passaggio nel 2019 da Lisbona a Madrid per la cifra-monstre di 120 milioni (sponda colchoneros) sono seguiti anni in cui, nella fluttuazione tra Chelsea e Barcellona, le aspettative sono state non tanto deluse, quanto congelate in uno stand-by prolungato. Eppure, pochi talenti al mondo — al momento del suo approdo alla corte del Cholo — godevano di un’aura così marcata di predestinazione, come ci ricorda la parabola che precede quel trasferimento.
La città di nascita di João Félix Sequeira — Viseu, Beira Alta — sembra quasi la cornice ideale per un giocatore tecnico e creativo come lui: paragonabile a certe città d’arte italiane, si snoda su dolci colline tra il fiume, i boschi e la catena della Serra: tra i nativi celebri, vanta i due artisti della locale scuola di pittura rinascimentale, influenzata dai fiamminghi (Grão Vasco — Vasco il Grande — e Gaspar Vaz), e — più prosaicamente — un altro giocatore portoghese di vertice come Paulo Sousa. Contesto in cui l’imprinting e gli inizi di João Félix — restando alle suggestioni artistiche — ci fanno tornare al versante mozartiano: il padre Carlos, insegnante di educazione fisica nelle scuole di Tondela e Pestinhas, nonché calciatore dilettante, intravede infatti il suo talento quando il bambino ha appena quattro anni, decidendo di «esibirlo» negli intervalli tra primo e secondo tempo nelle partite del campionato locale, il pubblico meravigliato dalla sua impressionante empatia con la palla. A 8 anni, è sempre Carlos a scarrozzarlo (a volte in compagnia della moglie) a Porto, in un pendolarismo massacrante: 250 km al giorno tra andata e ritorno per diversi giorni alla settimana. Un sacrificio che sembra frustrante e inutile quando i Dragoni, a un certo punto, decidono di scaricare il João Félix 15enne perché «troppo basso e troppo magro», gettandolo tra le braccia di una fucina rivale, la Seixal Academy del Benfica.
Joao Felix, gli anni al Benfica
Si tratterà, invece, di una vera sliding door: a Lisbona, il ragazzo completa lo sviluppo anatomo-morfologico e sviluppa i suoi tratti tecnico-dinamici in un crescendo impressionante.
Nelle stagioni al Benfica B (2016-18), le sequenze che lo impongono all’attenzione sono soprattutto due: la tripletta nel 5-0 al Famalicão e la doppietta nella semifinale di Uefa Youth League a Madrid contro il Real (4-2 per le Aquile), il primo gol di tacco, in un torneo poi perso in finale col Salisburgo ma in cui João Félix segna 6 gol.
Mentre il passaggio alla prima squadra (2018-19) è segnato dall’arrivo in panchina (3 gennaio ’19, al posto di Rui Vitória) di un mentore-maieuta come Bruno Lage, di Setubal come Mourinho. Lage incorona, in quel momento, una lunga militanza al Benfica, cominciata dalle giovanili e interrotta solo dalle parentesi in Giordania e nella Championship inglese; militanza in cui si è distinto, in primis, per lo scouting di decine di talenti, tra cui Cancelo e Bernardo Silva. Tecnico sopraffino, attento «ai principi più importanti per le differenti fasi di gioco», Lage è il vero artefice della maturazione di João Félix: è lui, infatti, a plasmare il polivalente offensivo che conosciamo, sintesi di una vasta gamma di variabili posizionali apprese nei tanti ruoli ricoperti (playmaker in anni lontani, poi ala destra o sinistra, trequartista, seconda punta).
L’ annus mirabilis 2019 — che gli porterà anche diversi premi individuali — vede così João Félix come attore protagonista nei successi del club e della Nazionale. Col Benfica, vince la Liga portoghese (sul Porto) totalizzando 15 gol e 9 assist in 26 partite, media simile a quelle già ottenute col Benfica juniores; cifre cui vanno aggiunti i 5 gol in Europa League, tra i quali spicca la tripletta nell’andata dei quarti al da Luz, contro l’Eintracht Francoforte (finale 4-2 per le Aquile), col coach dei tedeschi, Adolf Hütter, estasiato dal ragazzo. Con la Nazionale, contribuisce alla conquista della Uefa Nations League, segnando anche un gol nel 4-1 alla Croazia.
Joao Felix, «longilineo polivalente»
È in quel periodo che João Félix emerge nei suoi tratti inconfondibili, quelli di uno dei più intriganti «longilinei polivalenti» in circolazione. Giocatori, cioè, che pur tra loro diversi per distribuzione anatomo-morfologica (vedi i vari Havertz e Neuhaus, Kulusevsky e in parte lo stesso Bellingham) sono tra le risposte struttural-funzionali più efficaci all’evolversi di un calcio sempre più mixed, che sfuma le fasi di gioco (possesso e non possesso, transizione difensiva e offensiva) e richiede appunto atleti in grado di fluttuare «tra le linee» come i musicisti jazz suonano «tra le note», fungendo da cerniere, «connettori» del sistema. Tra i pionieri di questo adattamento evolutivo, si stagliano figure come Cruijff e Kakà, due idoli di João Félix e due campioni a cui in quegli anni viene a lungo accostato: il paragone con Cruijff è proposto da António Simões, leggendaria ala del Benfica, oggi 81enne; quello con Kakà diventa quasi un mantra, non a caso riaffiorato in questi giorni per il richiamo interno alla storia rossonera.
Si tratta ovviamente di paragoni arditi, che João Félix può eleggere più che altro a riferimenti utopico-simbolici, soprattutto il primo: di Cruijff, ha semmai mutuato qualche volta il numero di maglia, il 14 (a Chelsea e Barça), tornando ora al Milan (dove il 14 è di Reijnders) al 79 delle giovanili del Benfica, meno impegnativo e più realistico (era di Kessie).
Joao Felix e il paragone con Kakà
Il paragone con Kakà, in realtà, ha invece qualche fondamento tecnico-cinetico. Di complessione più sostenuta (186 cm per 83 kg versus 181 per 65) il brasiliano possedeva ovviamente un rapporto potenza-grazia ineguagliabile; però è vero che João Félix sembra condividerne la capacità di integrare proprio sulla corsa (di eseguire in movimento e/o velocità) quei differenziali tecnici che «mutano il paesaggio» di un’azione per sé e per la squadra: dribbling, filtranti-assist, cambi direzionali, alternanza tra arresti e accelerazioni. È un quadro che ci introduce alle qualità d’insieme e specifiche di João Félix.
In generale, colpiscono in lui — come in molti fuoriclasse offensivi simili — la capacità di pensare un azzardo, importante quanto, se non più, della tecnica per realizzarlo; e il senso di necessità, che si riassume nel rapporto tra la tecnica, lo spazio e il timing: quando dare la palla di prima e quando tenerla, quando accelerare e quando rallentare per lasciar aprire situazioni chiuse, e così via. Nel dettaglio, alle citate qualità con la palla (a cui vanno aggiunti colpi di tacco mai esornativi, stop e tocchi a seguire vellutati, assist a tagliare la difesa avversaria con filtranti verticali-diagonali o ad «aggirarla» con lunghi passaggi ellittici) vanno aggiunte quelle «senza»: smarcamenti di grande tempismo e «inserimenti-fantasma» alla CR7, che si concludono spesso con gol di testa, vero valore aggiunto.
Torniamo così all’ascesa e al crescendo. L’approdo milionario all’Atletico sembra in principio smentire lo scetticismo diffuso sulla compatibilità tra João Félix e il nuovo team, vista da molti come un’impossibile inserzione di poesia nella tessitura prosaica del calcio dl Cholo, come il difficile trapianto di un «fiore delicato» (similitudine usata dal grande Arthur Jorge per Michael Laudrup) tra le rocce di un assetto fondato sull’hashtag «intensità-velocità-contatto». Secondo un pattern ritornante — grandi inizi e progressivi inabissamenti — João Félix si presenta ai colchoneros con la prova-monstre nel derby del 27 luglio ’19 giocato in New Jersey: un terrificante 7-3 in cui Félix squaderna tutto il suo eclettismo e le sue arti, segnando un gol e confezionando due assist per la quaterna di Diego Costa. Bonus track, qualche giorno dopo a Orlando, contro l’Mls All Stars: entrato sull’1-0 per l’Atletico (vicino a subire il pari) JF fa in tempo a segnare di nuovo (arresto e tiro da fuori effettato) e a mandare di nuovo in gol il suo centravanti. È il match in cui le sue «skills» abbagliano Wayne Rooney (che le definisce «astonishing», «stupefacenti») molto più della tempesta di fulmini che fa ritardare il via del match per mezz’ora.
Atletico, Chelsea e Barcellona
Quelle sequenze invece, a posteriori, somigliano proprio a folgori temporalesche seguite da una lunga siccità. La stagione 2019-2020, che avrebbe dovuto essere una piattaforma di lancio, l’innesco di una consacrazione, è l’inizio di quelle aspettative congelate. Il lungo passaggio all’Atletico (2019-23) sarà un roller coaster con molti più tonfi che picchi: una Liga vinta (2020-21) più da comprimario che da primattore, e un consuntivo finale tutt’altro che esaltante: in 96 partite, 25 gol, solo 10 di più rispetto a quelli segnati al Benfica in 26 match. Ma soprattutto, la progressiva emersione di quell’incompatibilità al sistema temuta e prevista da molti, riassunta nella distanza tra João Félix e altri giocatori tecnici dell’Atletico: su tutti, il «piccolo diavolo» Griezmann, capace di interpretare le «due fasi» (quella difensiva con pressing, scalate, rientri e raddoppi) e più in generale di «sporcare» il suo gioco secondo le richieste del Cholo.
Una connection lusitana che torna ora, potenziata, in rossonero, tanto da innescare speranze su un Milan «portoghese» che si faccia ricordare — magari non a quelle altezze — come quello svedese del Gre-No-Li o come quello sacchiano dei tre olandesi. Parliamo, al momento, di puri vagheggiamenti, con i portoghesi milanisti accorpati, più che altro, dalla condivisione del procuratore, il «principe delle tenebre» Jorge Mendes. È vero, però, che i loro percorsi sembrano connettersi in profondità: ritrovando e rilanciando sé stesso, João Félix potrebbe aiutare Leão nell’ultimo step verso il rapporto qualità-continuità e il suo coach (esordio al Milan il 3 gennaio, de facto come il padrino Lage alle Aquile) nel realizzare qualcosa di consistente extra-Portogallo.
Unica (parziale) attenuante: né il Chelsea né il Barça in cui approda sono in fasi di golden age, piuttosto di crisi-transizione; ma è anche vero che lui — acquisito per uscire da quegli impasse — ne diventa via via una con-causa. E persino al Barça — il club e l’habitat più adeguati, in teoria, al suo pieno rilancio — rispetta la cadenza tra inizi folgoranti e successivi spegnimenti: vedi il favoloso settembre ’23 con le due manite (una in Liga al Betis, l’altra in Champions all’Anversa) in cui segna tre gol e illude tutti di poter avviare un nuovo ciclo blaugrana a fianco di Cancelo, altro portoghese talentuoso e discontinuo.
E Leão e Conceição, a loro volta, in un mutuo scambio, potrebbero aiutare lui in quella riemersione, contrastandone l’inclinazione ultima —più malinconica che esaltante — a diventare un giocatore da highlights, magari precocemente avviato — come lo stesso Cancelo — ai numeri del circo Massimo saudita.
Perché tutto questo si realizzi, va da sé, sarà decisivo il resto della squadra, a partire da Giménez. I viaggi lungo il binario 9 e ¾ non devono essere exploit estemporanei, ma momenti di magia (quasi) permanente.
Quell’alibi cade però con le squadre successive, il Chelsea 1 e 2 (prestito nel 2023 e acquisto nel 2024) e il Barça (settembre 2023-giugno 2024). Si tratta di tre stazioni di ulteriore implosione, in cui João Félix viene allenato da coach molto diversi dal Cholo, (e molto diversi tra loro) come Pochettino, Xavi e Maresca (gli ultimi due più prossimi, in quanto emanazioni del calcio di Guardiola), mostrando da un lato forti limiti di adattamento al contesto a prescindere, dall’altro una tendenza a demotivarsi-ingrigirsi nei momenti di difficoltà.
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Rassegna cinematografica |
Padre rosso e figlio nero: l’amaro risveglio del ferroviere Vincent Lindon |
|
|
|
![](data:image/gif;base64,R0lGODlhAQABAIAAAAAAAP///ywAAAAAAQABAAACAUwAOw==)
Cinema sociale, dai forti contrappesi ideologici, contro l’odio razziale, l’antisemitismo di ritorno, la provincia dei pregiudizi e delle divisioni. Il caos produce mostri, la violenza cova in salotto. Padri con le migliori intenzioni si scontrano con figli manipolati dalle cattive compagnie. Succede nel didascalico ma efficacissimo Noi e loro delle sorelle registe francesi Delphine e Muriel Coulin, rispettivamente classe 1972 e 1965, al terzo film insieme dopo 17 ragazze (2011) e Voir du Pays (2016). Alla base c’è il romanzo Quello che serve di notte di Laurent Petitmangin, edito da Mondadori. Il film esce il 27 febbraio con I Wonder Pictures: il titolo originale è Jouer avec le feu. A Venezia 2024 il protagonista Vincent Lindon ha vinto (con merito) la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile.
Siamo a Villerupt, laboriosa cittadina dell’Est francese, 10 mila abitanti, nel cuore della Lorena. Il ferroviere Pierre Hoenberg, vedovo con due figli intorno ai vent’anni, gran lavoratore, un osso duro quando faceva il sindacalista, è un uomo fiero, cresciuto con i valori progressisti, e dà per scontato che i figli, il primogenito Fus e il più giovane Louis, gli somiglino.
L’impegno è stato la sua ragione di vita. La morte dell’amata moglie lo ha spinto a dedicarsi alla famiglia. Fus gioca a calcio in una squadra locale, è un leader in campo, segna molti gol. Pierre lo segue e lo ammira, ma non abbastanza. Il giovanotto, che pure adora papà e la sua vita realizzata, è quello che ha sofferto di più per la morte della madre e Pierre, capiremo in seguito, non è riuscito a colmare la quota d’affetto perduta.
Fus sta per conseguire senza voglia il diploma di tecnico metalmeccanico. Ma è convinto che Pierre abbia più a cuore il fratello Louis, in procinto di entrare alla Sorbona. Eppure, da anni Pierre fa da padre e da madre, prodigandosi per fare fronte ai bisogni dei ragazzi. Ha nostalgia della lotta politica. Ma ritiene di avere una missione più urgente da compiere.
Vincent Lindon (Pierre), Stefan Crepon (Louis) e Benjamin Voisin (Fus)
L’equilibrio si rompe quando l’uomo scopre che Fus trascura la scuola e perde le giornate con amici dall’oscura identità. In realtà, il giovane è entrato nelle squadracce fasciste composte da frange estremizzate degli ultras locali, e con loro partecipa a riunioni di boxe senza regole, snocciola slogan razzisti e va in giro a pestare gli avversari politici. Pierre esce dai gangheri, ma pensa di recuperare la situazione con una strigliata. Poi capisce che il punto di non ritorno è stato superato: Fus sta giocando con il fuoco e rischia di rovinarsi. Come indica il titolo, ha sostituito il noi (riferito al padre e al fratello) con il loro (riferito agli amici malfidati) e non dà segni di pentimento. Pierre, in piena crisi di coscienza, si chiede che cosa ha sbagliato nell’educazione di quel figlio ribelle che ora alza le mani contro di lui. La situazione si complica ulteriormente, trasformando il dramma familiare in un appassionato trattato (con finale da legal thriller) sui rapporti tra padri e figli, sui peccati e le colpe, sulle generazioni che non si riconoscono ed entrano in conflitto, sulla difficoltà di capire appieno anche le persone più vicine, le più amate.
La sobrietà allarmata della messinscena sottolinea la tragicità del contesto. Le sorelle Coulin guardano al cinema dei fratelli Dardenne, inserendosi nel nuovo filone sociale francese di cui Lindon è un caposaldo. Fus teme di non essere all’altezza morale del padre: lo dice con gli sguardi. Cerca una sua identità ma prende la strada sbagliata e si perde. Lindon è magnifico nello scavo psicologico di quel padre con gli occhi arrossati che perde i suoi riferimenti e si sente indifeso di fronte a una realtà a cui non era preparato. Pensa di non meritare quel nuovo dolore: il figlio dopo la moglie. E tuttavia sceglie di restargli accanto, qualsiasi cosa succeda.
NOI E LORO di Delphine e Muriel Coulin (Francia, 2024, durata 118’, I Wonder Pictures) con Vincent Lindon, Benjamin Voisin, Stefan Crepon Giudizio: 3 ½ su 5 Nelle sale dal 27 febbraio
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Rassegna musicale/2 La Playlist n. 37 |
Incubi allo specchio, oh Bologna e un’altra Napoli |
|
|
|
![](data:image/gif;base64,R0lGODlhAQABAIAAAAAAAP///ywAAAAAAQABAAACAUwAOw==)
Sanremo incombe come una minaccia e allora respiriamo e ascoltiamo altro, finché si può. Questa rubrica segnala le nuove uscite discografiche che ci piacciono. È l’unica regola di selezione, arbitraria ed egoistica. Ma in fondo le canzoni del festival le seleziona Carlo Conti, possiamo competere anche noi. La nostra playlist 2024-2025, con 124 canzoni, la trovate qui.
Perfume Genius – «It’s a mirror»
«It’s a mirror, holy terror / Taking focus off the horizon»
Per Kalporz le «ritmiche country-rock si immergono fin da subito in un synth-pop magico e articolato che conduce immediatamente l’ascoltatore in un universo fulgido ma insidioso». Questo «It’s a mirror» è il singolo che anticipa l’album «Glory» del cantautore statunitense dai capelli rossi. Dice Mikea Hadreas, nome vero, che se ne sta spesso chiuso nella sua cameretta, con pensieri cattivi e ha scritto il brano mentre se ne stava in questo loop di isolamento. Vedeva che fuori c’era qualcosa di diverso, di bello, di luminoso. Ma chi ha voglia di uscire, di aprire la porta? Si sta così bene, a guardare riflessi nello specchio i propri incubi.
Destroyer – «Bologna»
«Night comes in on wings / Wearing your rings»
Sarà dedicato alla città o alla mortadella? Il mistero non si scioglie né guardando il video, ferramenta e piselli surgelati filmati in qualche città americana, né leggendo il testo, che parla di notti che arrivano con le ali e di tempeste. Il brano finisce con un’invocazione ripetuta, «Oh, Bologna» e ci dobbiamo accontentare. Ma il brano merita e dunque si aspetta il nuovo album del musicista canadese Dan Bejar, il quattordicesimo, con i suoi Destroyer.
Francesco Di Bella – «Acqua santa» – «Stella che brucia»
«L’ammore è ‘na muntagna ‘e prete e carità, e ‘ngopp’ a tutto ce stai sulo tu»
È il leader dei 24 Grana che da qualche tempo si è messo in proprio e cerca una sua strada. L’ha trovata con questo album tutto cantato in napoletano, che racconta – come scriveva il manifesto qualche giorno fa – «un’altra Napoli» (e dopo le scorribande di Roccaraso ne abbiamo bisogno). Canzoni intime, confidenziali, con una voce mai sopra le righe, anche un po’ dimessa, che però alla fine lasciano una sensazione agrodolce, quasi ipnotica. Come in «Canzoni», in «N’ata luna» o in quella che gira di più «Stella che brucia», in duetto con Colapesce.
|
|
|
|
|
|
|