Paul Murray, la casa crolla

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Autore ormai cinquantenne, tra i più ammirati e rispettati sulla scena letteraria irlandese, Paul Murray ha la capacità di raccontare l’infelicità, le nevrosi, le paure dei suoi protagonisti con una leggerezza e un’eleganza che a tratti si traducono in autentica vis comica. Chi ha avuto modo di leggere il suo secondo romanzo, Skippy muore (Isbn editore, ormai irreperibile) non rimarrà sorpreso dal riproporsi di quella che sembra essere la vera cifra di un narratore tutt’altro che prolifico (quattro libri in vent’anni) ma capace di costruire trame complesse e al contempo eleganti e scorrevoli. In Skippy, storia di ambientazione universitaria e romanzo di formazione carico di elementi parodici, il racconto partiva con la morte del protagonista, rimasto soffocato dalle ciambelle ingollate durante una gara con il suo migliore amico a chi ne mangiasse di più, per poi dare forma, attraverso una sapiente alternanza tra flashback e scene in tempo reale, alla commedia e al tempo stesso tragedia di una comunità universitaria segnata dall’ansia, dalla competizione e – più raramente – dalla solidarietà e dall’amore.

Alla comicità a tratti sgangherata e spesso irresistibile di Skippy muore subentrano nell’ultimo corposo romanzo appena uscito – Il giorno dell’ape (traduzione di Tommaso Pincio, Einaudi Stile libero, pp. 664, € 22,00) –, un’ironia tagliente e una penetrazione psicologica che sono il segno della piena maturità raggiunta da Paul Murray.

«Nel paese vicino, un uomo aveva ucciso la famiglia. Aveva inchiodato le porte perché non uscisse nessuno; i vicini li avevano sentiti correre per le stanze, gridare, chiedere pietà. Finita l’opera aveva rivolto la pistola contro se stesso». Questo l’incipit del romanzo, al centro del quale c’è proprio la storia di una famiglia: non quella cui si accenna nelle prime righe, e che resterà anonima, ma la famiglia dei Barnes, composta da Dicky, proprietario di un autosalone con garage incorporato, rampollo della dinastia più ricca di una piccola cittadina non lontana da Dublino (della quale Murray si premura di non fornirci il nome); la moglie Imelda, da molti considerata la donna più bella del paese; e i due figli Cass e PJ.

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Quando una crisi economica profonda colpisce l’Irlanda, l’attività di Dicky ne risente pesantemente, e le ristrettezze economiche che ne derivano scatenano tutte le tensioni già latenti all’interno della famiglia: Imelda ritiene il marito un inetto, e approfitta di una visita del suocero Morgan – che si sta godendo la pensione in Portogallo – per chiedergli un sostegno finanziario; Cass, alla vigilia degli esami di maturità, ha paura di veder sfumare il suo sogno di trasferirsi a Dublino insieme all’amica del cuore, Elaine, per studiare al Trinity College; PJ, un ragazzino che vive immerso nel mondo dei videogiochi, è terrorizzato dall’idea che i suoi genitori possano divorziare, e vorrebbe scappare di casa; Dickie si lascia estromettere dalla gestione dell’autosalone, rilevata da Morgan e da Big Mike, il ricco padre di Elaine, e si dedica – insieme a Victor, uno strano personaggio ossessionato dall’idea che il mondo stia per implodere – alla costruzione di un bunker e di un pozzo.

Immergendoci nella vita dei quattro Barnes, scopriamo che le radici di quel loro inarrestabile crescendo di infelicità risalgono a un passato remoto: Imelda era innamorata del fratello di Dicky, Frank, grande promessa del calcio gaelico e idolo dell’intera città, morto in un incidente d’auto poco prima del matrimonio; Dicky, per sposarla, ha rinunciato alla propria omosessualità, scoperta in modo traumatico durante gli anni universitari, a Dublino, e mai completamente accettata.

Il nucleo del Giorno dell’ape è dunque sostanzialmente tragico, e l’incipit acquista, con lo scorrere delle pagine, un valore quasi metaforico: tra l’uomo che uccide l’intera famiglia prima di togliersi la vita e Dicky, che assiste impotente allo sfascio del suo personalissimo nucleo di affetti, le analogie si fanno progressivamente sempre più allarmanti.

I quattro membri della famiglia Barnes – ma anche i personaggi minori, tra i quali campeggia quello, memorabile, della «zia» Rose, indovina e curatrice che ospita per diversi anni Imelda, sottraendola a un padre violento e imprevedibile – sono raccontati con un’amorevole ricchezza di dettagli che li rende indimenticabili. Imelda rappresenta forse l’esempio più compiuto dello scandaglio messo all’opera da Murray. Nella prima parte del romanzo reagisce all’aria di crisi che si respira in casa con una furia che la rende insopportabile: «A casa, senza nessuno che la guardasse, precipitava in un umore nero. Si stendeva sul divano con una rivista poggiata sulle gambe accavallate, sfogliando le pagine con strappi così sonori che Cass la sentiva dal piano di sopra. Poi, con un sibilo di scontentezza, gettava via la rivista e cominciava a spostarsi da una stanza all’altra, schioccando le dita – ‘attiva’, ma senza niente da fare, come un’adolescente in punizione o un pensionato carico d’ansia in un ospizio –, prima di optare per qualcosa che la mandasse di sicuro fuori dai gangheri, tipo tentare di preparare un soufflé o fare le calze a maglia». Ma quando un lunghissimo flashback, scritto senza segni di interpunzione, ci porta nel suo passato, ne scopriamo l’umanità straziata di adolescente, convinta di trovare in Frank l’incarnazione di un sogno di perfezione assoluto, che sembra prescindere totalmente dalla ricchezza e dal benessere del quale è portatore.

Né meno efficaci sono le pagine dedicate a Dicky, dalla scoperta della propria omosessualità al difficile rapporto con la figlia Cass, che si prepara a rivisitare, a distanza di anni, i luoghi dai quali il padre è fuggito tanto tempo prima, cercando di cancellarli dalla propria esistenza: «Sono arrivati a un punto, lui e sua figlia, in cui lei è contenta in sua compagnia solo se sente di averlo umiliato. Fare qualcosa per lei, darle delle cose, ‘esserci’ per lei – tutto questo non serve più. È soltanto quando pensa di avere smascherato un punto debole del padre che si sente appagata: una prova della sua obsolescenza, la scoperta di un dettaglio imbarazzante del suo passato, qualunque cosa possa essere usata come munizione in quella che lei sembra percepire come una guerra permanente tra di loro».

Salutato come uno dei grandi romanzi di famiglia contemporanei, Il giorno dell’ape ha attirato paragoni impegnativi, ma forse fin troppo banali: da Le correzioni di Jonathan Franzen a Eccomi di Safran Foer. L’ironia feroce, la continua variazione dei registri espressivi, l’eleganza della drammaturgia, fanno pensare piuttosto a modelli britannici come La famiglia Winshaw, di Jonathan Coe, mentre per la qualità e la mutevolezza della lingua, rese in modo superbo nella traduzione di Tommaso Pincio, l’unico modello possibile sono le pagine più felici della Tetralogia di Harry «Coniglio» Angstrom, il grande romanzo borghese in quattro volumi firmato da John Updike.



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