FERMO Quando si parla di esordio nella vita di un musicista, spesso, si pensa a un palco, una luce che lo illumina e un cuore che batte come fosse un tamburo. In un momento solo ansia, adrenalina, note ed eccitazione formano un tutt’uno con quell’anima che si presenta al mondo e grida la sua presenza. Quando l’esordio, invece, è il primo respiro che si emette venendo al mondo, inalterata l’emozione, solo lo sfondo è diverso: non ci sono luci, palchi o pubblico ma una stanza di ospedale, gli operatori sanitari e un urlo, lanciato nel cielo, a dire: “ci sono anche io”. Nella personalissima entrata in scena di Eric Cisbani la sorpresa, poi, è stato un elemento in grado di conferire al tutto fascinazione, potenza, un pizzico di magia e quel tocco di predizione che, a rileggere indietro la sua storia di batterista internazionale, balza subito all’occhio.
La nascita
Perché «prima che nascessi i miei erano convinti che io sarei stata una bella femminuccia, cui era stato già destinato il nome Chiara. Li sorpresi non poco quel giorno di Ferragosto del 1975 e, fissandomi dentro la culla ancora disorientati dall’inaspettata novità, nell’impreparazione di un nome maschile decisero di chiamarmi così, come Eric Clapton. Lo propose mio padre e mia madre accettò perché, disse, suonava bene. E non posso darle torto», ride. In quella scelta maturata in una frazione di secondo c’è sicuramente un pizzico di predeterminazione ma, ancora di più, i segni di una passione che, in casa Cisbani, si è sempre respirata a pieni polmoni.
La musica
«Con la musica ci sono cresciuto e, nella musica, ci sono nato, figlio di un musicista non professionista, papà Rodolfo chitarrista per passione, e di un nonno, Aldo, che suonava pianoforte, violino e chitarra e, con la sua orchestra, ha fatto ballare tutto il fermano – spiega – la musica è sempre stata di casa, come quando per divertimento mia madre Margherita e sua sorella Caterina cantavano qualche canzone con la band di mio padre che, dopo il nostro trasferimento da Ancona a Fermo nel 1980, ospitavamo tutte le settimane a casa per le prove. La loro frequentazione, le note con cui riempivano casa, le magie alla batteria di Giorgio Luzi, il batterista del loro gruppo, sono state una vera folgorazione. È vero che già a tre anni, come racconta mia madre, in casa facevo rumore suonando le pentole con bacchette finte e improvvisate, ma è vero anche che vederli e sentirli in azione è stato un fortissimo input. Grazie a mio padre mi sono avvicinato al mio primo idolo, Ringo Starr, il batterista dei Beatles, il suo gruppo preferito, e a tanti altri artisti del calibro di Billy Joel e Gino Vannelli. A Giorgio, invece, devo la conoscenza della musica di Billy Cobham, un grande innovatore, il batterista che mi fece capire che la batteria poteva essere uno strumento solistico e non sono un accompagnamento. Entrato a nove anni al conservatorio di Fermo, dove studiavo percussioni con il maestro Mario Ricci, e guidato nel mio percorso di studi della batteria moderna da Antonio Guidotti e, poi, da Massimo Manzi, ha preso sempre più corpo quel suono che sentivo vibrarmi dentro. L’adolescenza, da questo punto di vista, è stato un momento più che mai fecondo: batterista della banda di Fermo e, poi, dell’orchestra spettacolo Luci blu, ho avuto il privilegio di suonare tantissimo con musicisti più grandi di me, che mi hanno incentivato a coltivare un amore che si faceva sempre più profondo. È stato così che nel 1991, a 16 anni, sostituendo il mio insegnante Guidotti che partiva allora per gli Stati Uniti, voluto e chiamato da Valerio Ricci sono entrato nel Bea’s Group, una band che proponeva un tipo di musica non commerciale che spaziava dal jazz al fusion».
L’esperienza
Gli anni al loro fianco sono stati di straordinaria importanza: «Valerio Ricci era un bassista grandioso che al talento univa un atteggiamento quasi da fratello maggiore. Era lui a riportarmi a casa dopo le nostre serate, alle due di notte. Scaricava davanti al portone me e la batteria, mi salutava e, a quel punto, il problema era solo mio che, in notturna e in totale solitaria, dovevo salire e scendere quattro o cinque piani di scale per rimettere tutto a posto in soffitta». La gavetta, ammette Eric, è stato il suo pane quotidiano. «Insuperabili sono stati i tre anni spesi con la Lupo Alberto’s Band, la formazione con cui ho girato in lungo e in largo le Marche».
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link