di Francesca Pini
«Non credo nei grandi gesti, ma in ciò che puoi fare senza rumore: il mio esercizio di carità è lasciare spazio», spiega nella veste di co-curatore di due mostre di altri artisti, a Milano e Roma. Qui parla di arte al femminile, feticismo, fragilità, ma anche d’amore e del colore del suo cielo interiore («verde brillante»)
In tono messianico, Donald Trump ha promesso agli Stati Uniti una nuova età dell’oro. Sarebbe quindi ora di ritrovare America, quel cesso d’oro a 18k, realizzato da Cattelan nel 2016 e poi rubato. Per Cattelan l’età aurea è cominciata decenni fa, quando le sue opere hanno toccato il vertice del mercato, come anche recentemente, con la vendita all’asta da Sotheby’s per 6,2 milioni di dollari della sua banana, propriamente intitolata Comedian. Ma per lui c’è stata anche l’età del carbone, quando, da piccolo, sua mamma gli diceva «vai giù a prenderlo in cantina», nella sua famiglia ci si arrangiava così. E l’auto rappresentazione che lui fa di sé stesso bambino, in fondo, ha ancora qualcosa di inconfessabile.
C’è un momento in cui quel ricordo diventa un incubo?
«Non lo è mai stato, solo un ricordo nitido. Quel carbone rappresentava la realtà, e forse mi ha insegnato a convivere con il peso delle cose senza farne un dramma. La povertà non ti lascia mai, è come un’ombra: più ti allontani, più si allunga».
Ora è praticamente impossibile ridiventare povero, ma la povertà degli altri la riguarda in qualche modo, oppure lei passa e va?
«Non credo nei grandi gesti, ma in ciò che puoi fare senza far rumore, con semplicità. Il mio gesto di carità verso gli altri è lasciare spazio: spazio per parlare, spazio per esistere, spazio per essere visti. A volte è più utile di qualsiasi altra cosa».
La preoccupa la povertà intellettuale di una società, anche molto abbruttita dai social?
«Mi preoccupa, ma più della povertà intellettuale mi spaventa l’indifferenza verso di essa. I social non sono il problema, sono solo uno specchio: amplificano la superficialità, ma anche il desiderio di profondità, se lo sai cercare».
Qualsiasi cosa lei faccia diventa virale. È l’artista diventato anche un brand.
«È una conseguenza, non un obiettivo. Diventare virale significa sapere come giocare con il sistema, ma il vero gioco è creare qualcosa che esista anche quando la viralità si spegne. L’arte è una crepa nel sistema, non solo un prodotto».
Nella nostra società l’artista è diventato un feticcio, ed è spesso colui che riesce ad appagare il proprio narcisismo facendolo pagare al collezionista e guadagnandoci.
«L’artista oggi rischia di essere un marchio, vendendo il proprio narcisismo più che le opere. Ma l’arte vera va oltre: è espressione e rottura del sistema che la celebra».
Ma l’artista è utile alla società, o è più utile la sua arte?
«L’artista come individuo è marginale, è la sua arte a essere utile: apre spazi di riflessione, rompe schemi, racconta ciò che non si vede. L’artista passa, l’arte resta».
Chi ha acquistato la sua famosa banana, Justin Sun, è un signore molto, molto controverso.
«Una volta che un’opera lascia il mio studio, non mi appartiene più. Mi interessa il dialogo che può generare, non tanto chi la possiede. L’arte, in fondo, non è mai davvero di qualcuno: appartiene a chi la guarda».
Ma nella Russia di Putin accetterebbe di fare una mostra?
«Accettare significherebbe trasformare l’arte in un gesto politico. Solo se potesse aprire un dialogo, mai per legittimare un sistema che nega la libertà. L’arte non deve essere complice».
Con Trump sembra che la cultura woke stia già subendo un rallentamento. Che abbia raggiunto il suo acme. C’è ancora bisogno di questa spinta?
«La cultura woke non deve fermarsi, ma evolvere. C’è ancora bisogno di spinta, ma senza trasformarla in dogma. Deve tornare a essere dialogo, non imposizione».
Incontriamo Cattelan a Milano, alla Fondazione ICA dove, insieme a Marta Papini, ha curato una mostra che unisce idealmente le opere di due artiste poco viste, l’austriaca Birgit Jürgenssen e l’italiana Cinzia Ruggeri, entrambe scomparse, che in questo spazio entrano in un dialogo postumo (fino al 15/03).
Da alcuni anni ormai, nelle mostre, si celebrano le artiste donne, e nell’arte ci sono stati tanti ismi. Impressionismo, Futurismo, Surrealismo, Espressionismo, Spazialismo…Viene da chiedersi se oggi non siamo al Donnismo.
«Parlare di “donnismo” è riduttivo e rischia di banalizzare una riflessione necessaria. Le donne sono state invisibilizzate nella storia dell’arte per secoli, quindi non si tratta di un “ismo” ma di un risarcimento storico. La genialità di artiste come Cinzia Ruggeri e Birgit Jürgenssen sta nel loro sguardo unico: una grammatica nuova per raccontare il corpo e il mondo. La genialità non si misura, si percepisce. Il confronto tra loro è un dialogo tra due visioni che, pur diverse nei linguaggi, condividono la capacità di sfidare i codici della femminilità e della società. Ruggeri ha trasformato la moda in arte, creando oggetti che ridefiniscono il quotidiano con ironia e immaginazione, mentre Jürgenssen ha usato il corpo come terreno di sovversione, attraverso fotografie e opere che smascherano il potere delle convenzioni sociali e di genere. Entrambe hanno reso il personale politico, ridefinendo l’arte come uno spazio di critica e trasformazione, tra gioco e sovversione».
L’opera della donna crocefissa era la sua adesione al femminismo?
«No, era una riflessione. Non si trattava di allinearmi a un movimento, bensì di rappresentare un’immagine potente e ambigua, capace di parlare di sacrificio, dolore e resistenza universale, ma con una prospettiva che ribaltasse il predominio maschile del simbolo. Non era femminismo dichiarato, ma un invito a confrontarsi con le dinamiche di potere e vulnerabilità che attraversano i corpi e la società».
Nel mondo dell’arte, che appare tanto aperto, permangono però sacche di misoginia. Quanto maschilismo residuale c’è ancora in lei?
«È una polvere sottile che si deposita su tutti, me compreso. Non credo di esserne immune, ma cerco di riconoscerlo, metterlo in discussione e, quando serve, riderne. È un lavoro che non finisce mai».
Dall’archivio di Cinzia Ruggeri provengono le decine di scarpe messe in fila sul pavimento in mostra, per Cinzia un oscuro oggetto del desiderio.
«Il mio è l’idea di assenza: creare qualcosa che esiste per sottrazione, che si fa ricordare più per ciò che non mostra che per ciò che è».
Il feticismo fa parte delle sue fantasie?
«È inevitabile, ogni desiderio si aggrappa a un dettaglio, a un simbolo, a un’ossessione. Non è solo parte delle fantasie, ma anche del processo creativo: trovare il dettaglio che racchiude tutto».
Entrambe le artiste insistono sulla rappresentazione di mani e piedi, mentre lei ha raccontato che la prima cosa a colpirla, in una persona, sono gli occhi. Ciò orienta subito la sua predisposizione verso l’altro?
«In questa mostra mani, piedi e occhi raccontano il corpo come veicolo di identità e relazione. Gli occhi catturano il primo giudizio, ma mani e piedi narrano il fare e il radicamento al mondo: frammenti che orientano chi siamo verso l’altro. Qui, ogni dettaglio del corpo diventa un simbolo universale, capace di evocare sia la fragilità che la potenza dell’esperienza umana».
Un corpo che, nel suo caso, è preservato da tatuaggi, nel totale biancore della sua pelle.
«È già pieno di segni invisibili, non ho bisogno di aggiungerne altri. Racconta da solo la propria storia».
Ma se lei si guarda allo specchio della Ruggeri con quelle mani che sembrano volerla afferrare, che opinione estetica e anche morale ha di sé stesso?
«Vedo un equilibrio precario tra forma e contraddizione. Esteticamente anonimo, moralmente in lotta con i miei limiti. Forse quelle mani ricordano che non si sfugge a sé stessi».
Il titolo di questa mostra (Lonely are all bridges) ci parla di ponti solitari. Lei in che punto si trova?
«Mi vedo in mezzo, nel punto più vulnerabile, dove tutto è ancora incerto. Da lì posso guardare sia avanti che indietro, con la consapevolezza che il ponte potrebbe crollare da un momento all’altro. Ma è proprio questa precarietà che rende ogni passo significativo: non si costruisce nulla senza accettare il rischio di perderlo».
Così anche nelle sue storie d’amore, che sono per lui il momento della verità. C’è sempre una goccia che fa tracimare il vaso. Perché lei è infedele o perché diventa insopportabile?
«Le mie storie finiscono perché sono più fedele al lavoro che all’amore, sempre presente solo a metà. Di solito vengo lasciato: il mio distacco e la mia ossessione per ciò che faccio sono la goccia che fa traboccare il vaso».
Ancora in molti ambienti vestirsi di nero è un codice di appartenenza. A Villa Medici, a Roma, il 28 febbraio s’inaugura una mostra sulla fotografia a colori nel XX secolo, un focus sul ruolo, sull’estetica del colore, benessere dell’anima, curata da lei e da Sam Stourdzé. Come sperimenta il colore nella sua vita?
«È un linguaggio potente che influenza profondamente le nostre emozioni e percezioni. Nella mia vita, lo sperimento come elemento essenziale per evocare sensazioni e stimolare riflessioni. La mostra Chromotherapia esplora proprio questa dimensione, evidenziando come tonalità vivaci e saturate possano trasformare l’ordinario in straordinario, offrendo nuove prospettive sul mondo che ci circonda».
E allora di che colore è il suo cielo interiore in questa fase della vita?
«Verde brillante».
Più volte si è rappresentato morto nelle sue opere, quasi per esorcismo. Picasso non faceva mai testamento, diceva che gli avrebbe portato male. La religione cattolica ci promette invece l’eternità. Che come la morte potrebbe essere un’altra forma di condanna, vivere in eterno.
«Rappresentarmi morto è come mettere un punto di sospensione invece che una fine. Non so se la morte o l’eternità siano peggiori, ma so che l’idea di continuare all’infinito senza trasformarsi mi terrorizza più di qualsiasi fine».
Per fortuna c’è la sua piscina quotidiana, ovunque si trovi (però nuota anche in mare aperto). Che amicizie si fanno in piscina?
«Tra una bracciata e l’altra, si incontrano persone singolari. Come quel compagno di vasche che parla solo di cibo: le sue conversazioni sono un buffet di idee».
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