L’agroalimentare italiano è sugli scudi. Ma i dazi di Trump restano la principale fonte di allarme per un settore che ha conseguito risultati eccellenti sul fronte dell’export chiudendo il 2024 a quota 70 miliardi. E se l’Unione europea è comunque il principale mercato di sbocco per il Made in Italy a tavola, quello americano lo tallona da vicino. La Germania storicamente il primo partner commerciale potrebbe già quest’anno cedere lo scettro agli Stati Uniti. Ecco perché le imprese sono in allarme.
È vero che un report della Cgia di Mestre ha sottolineato che il vero danno alle produzioni nazionali lo ha provocato la Germania che, stretta da una crisi profonda, ha rallentato il passo anche negli acquisti di prodotti tricolore. Ma gli Stati Uniti, in particolare per cibo e vino, sono diventati sempre più importanti anche perché hanno segnato una crescita degli acquisti dal nostro Paese di oltre il 18% lo scorso anno. Il panico è più che giustificato. Anche se Paolo De Castro, presidente di Filiera Italia a cui aderiscono numerosissime e primarie industrie alimentari, invita alla cautela. «Intanto – spiega – bisogna capire quale sarà l’entità dei dazi. Esportiamo produzioni ad alto valore aggiunto e con dazi tra il 5 e il 10% di cui si parla l’impatto non sarebbe rilevante. Gli americani che pagano il Parmigiano 22 dollari non lo abbandonerebbero per pochi dollari in più per passare al Parmesan.
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Diversa la situazione con una tariffa al 25%». Per De Castro è comunque importante attrezzarsi e rafforzare la diversificazione dei mercati «ma non possiamo però pensare di sostituire un mercato che vale 10 miliardi – dice – Gli Usa non sono la Russia. L’Italia già oggi esporta nei paesi asiatici, arabi, sudamericani, sicuramente si potrà implementare la presenza nei Paesi del Mercosur, ma in questo caso bisogna superare alcune criticità. Il Mercosur può diventare una opportunità solo se passa il principio, su cui ci stiamo battendo molto, della reciprocità, cioè l’applicazione delle stesse regole imposte ai produttori europei ed italiani».
La Campania
Secondo l’Ocse – evidenzia lo studio Cgia – l’eventuale introduzione di dazi al 10% sull’intera gamma dei prodotti e dei servizi importati dall’Ue, provocherebbe una riduzione in termini economici delle esportazioni italiane verso gli Usa pari a 3,5 miliardi di euro che salirebbe a 10-12 miliardi nel caso l’aliquota fosse elevata al 20%. È significativo il dato riconducibile alla Campania che esporta ben 2,6 miliardi (tra auto, prodotti alimentari e aeromobili). Un importo, quest’ultimo, leggermente superiore a quello riferito al Lazio. Il numero degli operatori commerciali italiani attivi negli Stati Uniti è relativamente contenuto, ammontando a poco meno di 44mila unità.
L’offerta
C’è poi un’altra considerazione da fare: il dollaro forte renderebbe comunque più competitiva l’offerta di merci italiane e anche per salumi, formaggi e vini si potrebbe così contenere l’eventuale “tassa”. La carta della diversificazione dei mercati va in ogni caso giocata, ma in nessuna altra area c’è l’affinità, in termini di cultura enogastronomica, che lega Italia e Usa. «Gli americani – sottolinea De Castro – sono innamorati dei nostri prodotti». Giappone, Cina, Arabia Saudita, ma anche Emirati Arabi, Qatar sono mercati emergenti anche per l’agroalimentare, ma per ora rappresentano un business assai contenuto. Anche se, negli ultimi dieci anni, secondo un recente rapporto dell’Ismea, le importazioni dei paesi asiatici sono cresciute in misura consistente sia a livello globale, sia in particolare per quanto riguarda l’Unione europea (nell’ordine del +80%). E l’Italia è nelle prime posizioni per l’export verso l’Asia, dopo Paesi Bassi e Francia. Tra i Paesi che apprezzano di più il Made in Italy il Giappone, soprattutto per il vino in bottiglia, ma anche la Cina che sta scoprendo le etichette nazionali. Oltre ai prodotti enologici, compreso il prosecco, le altre eccellenze sono la pasta di semola, il pomodoro trasformato (pelati, polpe e passate) per i quali l’Italia è al primo posto. In Asia sono gettonate anche, per quanto riguarda l’ortofrutta, le mele e i kiwi. Un problema è rappresentato però, in particolare in Cina, dalle barriere sanitarie che spesso ostacolano l’ingresso dei nostri prodotti. «Nei Paesi asiatici e arabi le spedizioni sono indirizzate soprattutto a hotel e ristoranti internazionali – afferma De Castro – perché difficilmente il cinese medio beve vino italiano».
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L’Africa
Sul fronte dell’internazionalizzazione un discorso a parte lo merita l’Africa dove l’agroalimentare è uno degli asset del piano Mattei che il governo italiano sta portando avanti. «L’Africa – sostiene il presidente di Filiera Italia – è un grande importatore e il futuro nei prossimi anni sarà in quel Continente». In Algeria sono state vendute sementi e mille trattori e per aiutare le popolazioni a produrre per soddisfare la domanda interna di derrate alimentare è in corso una collaborazione che prevede, non in una logica piratesca, di esportare il “Model Farm” di BF, fornendo tutte le tipologie di mezzi tecnici, impianti irrigui e genetica. Un altro pilastro delle iniziative in Africa è la formazione su cui è impegnata Bf Educational, un’altra società di Bonifiche Ferraresi. Ed è importante in un’ottica di collaborazione sempre più stretta che venga trasferito quel “saper produrre” che ha fatto grande il cibo italiano. La convenienza di rendere autonoma l’Africa sul piano economico è per l’Italia anche quella di aprire un mercato che si prospetta ricco e interessante. Cambiare il paradigma dello sviluppo africano potrebbe anche offrire nuove occasioni al Mezzogiorno che logisticamente è l’area geografica più vicina e che sta facendo passi da gigante nello sviluppo di un agroalimentare di qualità ed export-oriented.
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