I primi giorni di Trump, il cambio di regime è all’opera

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«Tutte le dittature moderne sono sorte da situazioni democratiche». L’ammonimento del giurista tedesco Franz Neumann, che era stato testimone dell’ascesa al potere del nazismo, non ha perso la sua attualità, nonostante il tempo trascorso dalla stesura delle Note sulla teoria della dittatura (pubblicate nel 1957, dopo la morte dell’autore). Nel pieno della guerra fredda, Neumann metteva in guardia i suoi lettori.

Contro i pericoli insiti nell’idea che la contrapposizione tra democrazia liberale e dittatura sia tale da mettere definitivamente al riparo dalla possibilità che la prima ceda il passo alla seconda attraverso uno svuotamento dall’interno dei presupposti e delle garanzie legali di un regime costituzionale. Le tendenze che possono condurre all’erosione della democrazia liberale sono pervasive, e potenzialmente in grado di acquisire una forza irresistibile, ben prima del momento di rottura dell’assetto costituzionale (l’assunzione da parte di una persona dei pieni poteri).
Riflettendo sugli eventi di queste settimane negli Stati uniti si trovano diverse conferme dell’intuizione di Neumann.

La cerimonia di insediamento del nuovo presidente è la prima. La rivendicazione da parte di Trump di un mandato popolare di carattere assoluto, che ignora le proporzioni del consenso ricevuto, e si rafforza attraverso l’allusione a un intervento divino che lo avrebbe protetto dal proiettile sparato da Thomas Matthew Crooks nel luglio scorso. Intorno a Trump, mentre teneva il suo discorso, non c’erano soltanto gli esponenti del suo partito, e i componenti della futura amministrazione. In primo piano c’erano anche alcuni degli uomini più ricchi del mondo, ciascuno dei quali aveva espresso il proprio sostegno, e versato il proprio contributo, al candidato.

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Un piccolo cambiamento, ma di grande significato, del rito dell’investitura. La democrazia rappresentativa si presenta con alcuni tratti di un’autocrazia, e l’autocrate si circonda dei propri cortigiani. La seconda conferma l’abbiamo avuta nelle ultime ore. Le attività frenetiche di Elon Musk (titolare di un organismo senza chiara base legale, accompagnato da un gruppo ristretto di persone di sua fiducia) nel sottoporre a revisione il funzionamento di agenzie e di dipartimenti dell’amministrazione federale, per purgarle degli elementi ideologicamente sospetti, sono ancora in corso, e potrebbero avere conseguenze durature.

Le reazioni a questi fattori di discontinuità nel funzionamento della democrazia statunitense sono state flebili, e prive di una chiara guida politica. Gli interventi dei giudici federali che hanno sollevato problemi di legittimità costituzionale di alcuni dei provvedimenti presidenziali sono destinati prima o poi a fare i conti con una Corte Suprema che da tempo è dominata da una maggioranza sensibile agli orientamenti più radicali che hanno preso il sopravvento nel partito repubblicano.

Le audizioni dei membri della futura amministrazione hanno messo alla luce l’inadeguatezza (per usare un eufemismo) di buona parte dei candidati, ma questo non ne ha impedito la conferma. Le voci più critiche dell’opposizione, come quelle di Bernie Sanders e di Elizabeth Warren non esprimono la linea del partito, che sembra non essere in grado di fare fino in fondo i conti con le dimensioni e la pervasività dell’attacco che Trump e i suoi sostenitori stanno portando a principi fondamentali della costituzione degli Stati uniti, come quelli sanciti dal XIV emendamento sulla cittadinanza.

La sensazione è che stiamo assistendo alle prime fasi di un cambio di regime. La trasformazione di una democrazia liberale rappresentativa in un’autocrazia in cui il consenso popolare è presunto piuttosto che misurato, e gli interessi in gioco non sono valutati in modo imparziale, ma attribuendo peso maggiore a quelli dei plutocrati che fanno parte della corte del principe. Chi non si adegua, e per ora sono pochi a opporsi, verrà piegato fino a sottomettersi attraverso l’uso congiunto della forza e del potere, civile e economico. Se questa ipotesi fosse confermata, vorrebbe dire che abbiamo già superato il punto di non ritorno della traiettoria che ci conduce oltre l’esperienza della democrazia liberale come l’abbiamo conosciuta negli ultimi decenni.

Negli anni ’50 del secolo scorso, Neumann avvertiva che «la tecnologia su vasta scala può comportare la dipendenza totale della popolazione industriale da un meccanismo complesso e integrato, il quale può funzionare solo in un sistema gerarchico, stratificato e altamente organizzato. Un tale sistema deve inculcare le virtù della disciplina, dell’obbedienza e della subordinazione, a prescindere da chi sia proprietario dei mezzi di produzione. Così l’industrialismo moderno predica le identiche virtù che ogni sistema politico autoritario cerca di coltivare, virtù che sono repressive perché contrarie all’autodeterminazione dell’uomo». La presenza di figure che vengono dai settori più avanzati del tecno-capitalismo a fianco di Trump ci fornisce una chiave di lettura importante del cambiamento in corso. Che tutto questo avvenga in nome della libertà è l’inganno più subdolo che il neoliberalismo ha orchestrato ai danni della democrazia.



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