Liberarsi dai sogni, prima che diventino ossessioni. Deve aver pensato così Giorgia Meloni in merito alle riforme istituzionali. Diversamente, non si spiega l’arrendevolezza con cui il governo ha sostanzialmente messo a bagnomaria i propositi bellicosi di trasformazione istituzionale del Paese. Certo, questo cedimento è in un caso il frutto necessitato dell’accetta con cui la Corte costituzionale ha fatto a pezzi la legge Calderoli sull’autonomia differenziata.
Una riforma che ha ormai poco o nulla a che fare con il testo originario e che vincola il Parlamento a plasmarla in un senso solidaristico e cooperativistico del tutto estraneo alle versioni, e alle visioni, leghiste della riforma. Oggi ci sono tutte le premesse perché il Sud esca addirittura avvantaggiato da una riscrittura della Calderoli conforme ai precetti della Consulta, che prevedono perequazioni tra le regioni in caso di difficoltà di alcune di esse e impediscono il trasferimento in blocco di competenze dallo Stato, come troppo avventatamente era stato ipotizzato.
È evidente che ora l’attenzione si sposterà tutta sui criteri di determinazione dei Lep (livelli essenziali delle prestazioni) che auspicabilmente dovranno essere ancorati ai costi standard e non alla spesa storica. Di certo, appaiono oggi fuori tempo massimo, e dunque, superate dal buon senso oltre che dalle ragioni di diritto, le ipotesi di nuovi referendum su quel che resta di un sogno, quello di una autonomia a uso e consumo delle regioni più forti, che oggi è davvero poca cosa. Analoga sorte sembra sia stata riservata al premierato.
Perso nei meandri del Parlamento, in attesa di essere esaminato dalla Commissione Affari costituzionali della Camera dopo il primo passaggio in Senato, il governo sembra aver rinunciato a premere sull’acceleratore per sollecitarne l’approvazione. Strategia o necessità? Certo è che tra riforma delle carriere di magistrati, il caso Almasri con il preoccupante intreccio tra ruolo dei servizi, delle procure e dell’esecutivo, i fronti di politica internazionale tutti aperti, con in prima linea l’Ucraina e il conflitto israelo-palestinese, l’avvento di Trump e la sua politica antieuropea, forse quello del premierato non è il primo dei pensieri con cui Meloni si sveglia la mattina.
Di qui a poco ci sarà da intavolare lunghe trattative con gli Stati Uniti per evitare gli effetti di una pesante politica daziaria già annunciata da Trump e rispetto alla quale la premier italiana si gioca tutto nell’affermare il proprio ruolo di possibile, e unica, mediatrice a livello europeo. Inoltre, quello dell’economia sarà probabilmente il prossimo fronte caldo per il governo che dovrà a tutti i costi confermare i buoni risultati fin qui ottenuti in termini di produzione industriale, di livelli occupazionali, di inflazione e di ripresa del potere di acquisto delle famiglie, come per ultimo confermato dalla nota sull’andamento dell’economia italiana diffusa dall’Istat e relativa a gennaio 2025.
E forse sarà proprio la necessità di difendere con le unghie e con i denti questi risultati che pare induca Meloni, forte dei sondaggi che la danno sopra il 30 per cento, a incoraggiare i rumors insistenti su possibili elezioni anticipate alla primavera del 2027, piuttosto che in autunno a scadenza naturale. Ovvero, in un unico election day con le elezioni amministrative che vedranno coinvolte le maggiori città italiane, tra cui Napoli. Un disegno che avrebbe lo scopo di creare un effetto traino del governo sulle città per strapparle al centrosinistra. E non è un caso che si continui a parlare di revisione della legge per l’elezione dei sindaci, con l’abbassamento del quorum al 40 per cento e premio di maggioranza. Gli stessi spifferi dicono che Meloni stia pensando di cambiare anche la legge elettorale nazionale, sul modello di quella delle Regioni, il cosiddetto Tatarellum. Turno unico, vince chi prende un voto in più. Un modo per aggirare il flop della riforma costituzionale del premierato, attuandolo di fatto. Un disegno, seppur per ora solo abbozzato, del tutto coerente con l’impianto maggioritario sin dalle origini fatto proprio dal centrodestra. In tale contesto, la flebile voce di un centrosinistra diviso e arroccato nell’affannosa difesa di un arcaico modello proporzionale appare a dir poco inadeguata.
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