Periferia est di Milano, quartiere Rubattino, tra gli scheletri d’acciaio dove è sorta la storica sede dell’Innocenti e per oltre due decenni si sono costruite, pezzo per pezzo, i simboli del boom economico del dopoguerra, dalla Lambretta fino alla Mini: è qui, al cuore dell’enorme progetto di riqualificazione pensato per l’area (tra qualche anno vi si trasferirà in blocco la nuova Magnifica fabbrica della Scala), che sorge il Camozzi Research Center, realizzato dal gruppo in sinergia con il Politecnico di Milano e l’Istituto italiano di tecnologia. Trentamila metri quadrati di “fabbrica-laboratorio” dove si insegue il sogno di urlare all’Italia e all’Europa, in piena crisi produttiva, che le logiche dell’industria 5.0 sono all’agile portata di mano delle nostre medie imprese e che la sfida di mettere a sistema aziende, università e centri di eccellenza sul fronte della ricerca è più che mai alla portata del Vecchio Continente, non importa l’evidente ritardo rispetto a Cina e Usa.
A cominciare da cose molto concrete, come la sezione del nuovo ponte di Genova (con tanto di piloni e impalcato) realizzato all’interno del capannone per testare i quattro robot che proprio la Camozzi ha progettato e costruito in tempi record per il progetto di Renzo Piano, nel 2020. Allora sembrava impossibile che dall’Italia potesse arrivare una tecnologia in grado di trasformare quella che era stata l’apocalisse dell’incuria infrastrutturale nostrana e dell’approssimazione nei controlli nell’opera più monitorata e sicura al mondo: bisognava fare in fretta, bisognava assicurare che niente del genere potesse accadere di nuovo e soprattutto bisognava inventarsi qualcosa in grado di correre lungo i 1.100 metri del nuovo viadotto senza metterne a rischio in alcun modo la tenuta. «Nacquero così, coi loro bracci mobili in leggerissima fibra di carbonio, i nostri primi robot – racconta il presidente del gruppo, Lodovico Camozzi –: macchine in grado di scorrere avanti e indietro continuamente lungo al ponte grazie a un sistema di binari, dotate di fotocamere ad alta risoluzione e sensori di misurazione delle condizioni delle superfici, dal deterioramento delle vernici fino agli elementi di corrosione e allo stato delle saldature». I robot da allora stanno lì, a dominare una città che dopo quella ferita è risorta: le telecamere trasmettono in tempo reale le immagini di tutta l’infrastruttura, queste ultime vengono inoltrate a un centro di controllo, analizzate, incrociate coi modelli computazionali e i risultati dicono al gestore quando e come deve intervenire con eventuali azioni di manutenzione in via preventiva. Hardware e software insieme. E non è tutto, visto che nel frattempo altri due robot “gemelli” il ponte lo puliscono anche, spazzando dalle polveri i pannelli fotovoltaici e le barriere antivento in vetro che delimitano le corsie. «Merito di quel che accade qui – continua Camozzi, che mostra fiero le tesi di laurea dei giovani ingegneri del Politecnico esposte in una grande bacheca e che quando li incontra, i suoi “ragazzi”, li chiama tutti per nome –: la realtà ci chiede soluzioni, le soluzioni stimolano idee che diventano oggetto di dibattito, le idee arricchite dal confronto e dalla sperimentazione si intrecciano con gli strumenti e le tecnologie plasmandole, le macchine con al centro le idee trovano le soluzioni».
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Il ponte, s’è detto, e poi – tanto per fare qualche altro esempio – una delle più grandi stampanti 3D al mondo, anche questa ospitata nell’hub milanese di Rubattino, capace di progettare, simulare e stampare in modo additivo pezzi compositi fino a 16 metri di lunghezza, 2,5 metri di altezza e 5 metri di larghezza, come i vascelli da supporto logistico per la Marina americana, le fusoliere per i Boeing 787, i serbatoi criogenici per l’alimentazione dei razzi Blue Origin di Jeff Bezos (e insieme di autodiagnosticarsi problemi e disfunzioni, intervenendo per ripararsi o indicando a chi la osserva dove operare); o ancora, ultimo fiore all’occhiello dell’azienda, il meccanismo di precisione composto da 1.300 tonnellate d’acciaio che sosterrà la parte ottica e gli specchi del Giant Magellan telescope, attualmente in costruzione in Cile e che sarà ultimato nel 2029, diventando il più grande e potente telescopio di nuova generazione della terra.
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«Pensare che siamo partiti a Lumezzane, nel 1964, con un tornio preso in prestito e sistemato in casa da mio padre e dai suoi fratelli – racconta Camozzi –. Era troppo grande, toccò fare un buco nel muro. Di lì a poco l’idea di allargarsi, col primo capannone, e di produrre raccordi pneumatici ».
Oggi Camozzi – che produce componenti e sistemi per l’automazione industriale e opera nei settori delle macchine utensili, delle macchine tessili e nella lavorazione e trattamento delle materie prime attraverso un processo di digitalizzazione avanzato – ha 26 siti produttivi, 5 divisioni operative, 38 filiali e oltre 3.000 dipendenti. Ma quel legame col territorio, con i valori della famiglia e le persone al centro, è rimasto lo stesso anche quando l’impresa ha fatto il salto fuori dai nostri confini, arrivando con progetti e partnership in 76 Paesi: piani di welfare su misura per i dipendenti, corsi di formazione gratuiti per i loro figli, sostegno economico per 27 squadre di calcio del Bresciano (tra cui la Lumezzane Women, che milita in serie B), una Corporate Academy per lo sviluppo professionale continuo. Obiettivo: creare e coltivare talenti “in casa”, «che poi è l’unica strada percorribile per uscire dal guado in cui si trova il nostro sistema economico e produttivo – continua Camozzi –, con le ricadute sociali impattanti che vediamo sulle nuove generazioni». È il gatto che si morde la coda, d’altronde: le imprese ripiegate su se stesse e troppo spesso chiuse agli input della ricerca languono, la stagnazione rallenta la produzione fino a fermarla, i giovani delusi ed esclusi accrescono le file dei nuovi poveri. Eppure in un mondo dominato dagli hyperscaler come Microsoft, Google, Siemens, che sembra aver bisogno solo di dati, «le cose vanno ancora fatte e i processi vanno governati. Ecco perché la manifattura è e resta il pilastro della nostra crescita economica – continua Camozzi –, specie se gestita con la flessibilità e la velocità nella realizzazione dei progetti che possono offrire solo imprese di dimensioni medie come la nostra». Il sogno, da Rubattino alle università italiane e straniere (10 quelle che collaborano già con l’azienda) fino a Roma e Bruxelles, è che il sistema raccolga la sfida e che hub capaci di incorporare ricerca e innovazione nel tessuto industriale e produttivo sorgano in fretta ovunque, mettendosi in rete. Non è troppo tardi, nemmeno per l’automotive.
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