Tra la Sardegna magica e l’Argentina del ‘900: “Istella mea” di Ciriaco Offeddu

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Istella mea, il libro d’esordio di Ciriaco Offeddu, su cui punta Giunti in questo inizio d’anno, è presentato come “una grande avventura che dalla Sardegna magica e ventosa ci porta fino all’Argentina malinconica degli emigrati, seguendo il destino di donne e uomini dominati da passioni estreme, amori e odi che non si spengono”. Come un romanzo “nel quale la tradizione letteraria del realismo magico si mescola a una riflessione dolente sul male e sulla possibilità del bene“.

Nella biografia dell’autore, classe 1948, che ha vissuto e lavorato per decenni in altri continenti, si spiega che Offeddu è laureato in Ingegneria Elettronica all’Università di Pisa e che è poi stato manager di multinazionali. Come consulente strategico, advisor finanziario e imprenditore Offeddu, che ha frequentato un master in Creative Writing alla City University di Hong Kong e che ha prodotto e diretto documentari, prosegue la sua attività lavorativa con focalizzazione sull’Asia, affiancandola all’impegno culturale.

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E veniamo alla trama di Istella mea, che porta a Nuoro. Siamo nei primi anni ’60: in una Sardegna popolata da cavalieri, pastori e leggende, la giovanissima Rechella scopre l’amore grazie all’incontro con Martino, un ragazzino dalla fantasia fervida, capace di prodigi come quello di alzarsi in volo e spingere lo sguardo fino al mare. Martino è stato abbandonato dai genitori e vive con sua nonna Jaja, donna rispettata e temuta, narratrice di storie favolose, che nella sua cantina nasconde qualcosa di oscuro e potente. Il cupo fascino che Jaja promana è così forte che Rechella ne è sedotta: solo dopo molto tempo e troppo dolore inizierà a intuirne la natura malvagia, a capire che essa può assumere sempre nuove forme, a decidere che la sua missione sarà fermarla.

A fronteggiarsi, due opposti modelli di femminilità, quello della sùrbile – “maestosa incarnazione leggendaria di colei che, come una vampira, succhia le migliori energie di chi le sta vicino” – e quello di una donna innamorata, determinata a vendicare e salvare la “stella” perduta della sua vita.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto dal secondo capitolo:

La principessa Jaja

«Tutto ebbe inizio il 15 di maggio del 1906» aveva raccontato a me, Martino e Murichessa «quando mi innamorai di uno sfrontato giovane di Nuoro, il migliore cavaliere della festa di San Simplicio, patrono della mia città. Dovete sapere che cinque mesi prima, il 28 di gennaio, aveva avuto luogo la cerimonia di fondazione della nuova associazione sportiva. Le patronesse Assunta Serra, Nina Putzu e Lucia Rasenti avevano organizzato tutto a puntino. Oh, fu un vero avvenimento, una festa meravigliosa. Ed io, avendo compiuto sedici anni, avevo fatto il mio debutto in società.»

«Ci fu un ballo?» avevo chiesto.

«Una grande festa nel salone del municipio, pieno di luci e di gente gioiosa, che durò sino alle cinque del mattino. I migliori ragazzi della città fecero a gara per invitarmi a ballare e farmi la corte.»

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«Com’eri vestita, Jaja?» Io non avevo mai visto una festa da ballo.

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«Mia madre mi aveva aggiustato il suo vestito da sposa e aveva aggiunto delle roselline rosse sul corsetto e sui polsi. Ero bellissima.» E subito eccola davanti a noi, come in un film a colori, una fanciulla dalla pelle di porcellana, con un sorriso solare unico in tutta la Barbagia, e occhi penetranti che mi guardavano. Con un abito di cui non ho mai visto l’uguale, fatto, sembrava, di fili di perline che sfumavano sul rosso all’altezza del bustino e riflettevano le luci a ogni movimento. Intanto la musica era esplosa, un valzer, e io e Martino fummo trascinati a ballare, fluidi come se cento volte avessimo volteggiato a Vienna o a Parigi, mentre la mia testa girava.

«Le patronesse raccolsero l’incredibile cifra di duecento francos, com’erano chiamate le lire» aveva detto Jaja interrompendo il sogno. «Agostino Amucano, il nostro medico di famiglia, fu proclamato presidente e fece un discorso di grande orgoglio, rivendicando per Terranova Pausania un futuro di capitale del vagheggiato regno sardo-corsicano. Poi, il mattino del 15 maggio, durante sa festa manna de mesumaju in onore di San Simplicio, l’associazione sportiva poté confrontarsi con la già famosa associazione “In Alto”, di Tempio, la migliore, così dicevano, di tutta la Sardegna, superiore persino alla “Torres” di Sassari. Il nostro Egidio Serra vinse la gara degli anelli; Edo Campesi vinse il salto in lungo con un risultato straordinario, 5,50 metri. Li ricordo bene, come ricordo tutto, ogni minuto di quella giornata, perché erano entrambi miei pretendenti e mi dedicarono le loro vittorie.»

Martino, gli occhi sgranati, sembrava rapito dal racconto di Jaja. Io avevo chiesto: «Ti piacevano?».

«Erano bei ragazzi, di ottima famiglia. Sempre ben vestiti, molto eleganti. Li vedevi passare per corso Umberto come semidei, sempre insieme, spesso a braccetto perché a quei tempi si usava così anche tra ragazzi, e certo non era possibile prendere tale confidenza con una donna, in pubblico! Usavano quei calzoni bianchi divenuti poi famosi nei film, copiati dalle braghe dei marinai.» Jaja aveva fatto una pausa, pensierosa, e aveva aggiunto: «Sì, Egidio e Edo mi piacevano, mi divertivano, ma non hanno mai conquistato il mio cuore. Me ne accorsi nel pomeriggio della festa, quando ebbi il mio colpo di fulmine».

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Faceva molto freddo. Murichessa si era alzata a ravvivare il braciere e prendere dei biscotti. Aveva detto: «Ah, non ci si può difendere dai colpi di fulmine, non c’è scampo per nessuno!».

Jaja aveva annuito e ripreso il racconto: «La corsa di cavalli iniziò nel pomeriggio, aperta a tutti i paesi della Sardegna, era l’evento più atteso della festa. Partecipavano una quarantina di cavalieri, ma sotto quel sole, nel nervosismo dell’attesa, sembravano molti di più, un’intera compagnia di cavalleria. Il favorito era un fantino di Sedilo che sfoggiava una strana camicia rossa e a stento tratteneva un bellissimo cavallo nero, ma anche il cavaliere di Terranova sembrava avere buone possibilità. Il dottor Amucano aveva scommesso su di lui e lo dichiarava a tutti, passando a stringere le mani in tribuna. Il percorso comprendeva una terrificante discesa verso la marina, una splendida e lunga cavalcata sul lungomare, una curva a U vicino al mercato del pesce, e poi una ripida salita verso la cattedrale di San Paolo, di fianco alla quale era il traguardo. Il circuito doveva essere ripetuto per tre volte».

Martino adesso stringeva i pugni, sembrava che immaginasse di essere anche lui tra quei cavalieri nell’imminenza della gara.

«Ah, se non avete mai visto una corsa di cavalli dal vivo, non sapete cosa avete perso!» continuò Jaja. «Attorno al percorso c’erano tutti gli abitanti della provincia, venuti dai paesi sino a Tempio, sino a Sassari. La folla brulicava come uno sciame di formiche impazzite e urlava. I cavalli facevano paura, alti, veloci e potenti come creature mitologiche; il rumore dei loro zoccoli, i nitriti improvvisi, lo schiocco dei frustini e le grida dei cavalieri trasmettevano un’eccitazione che nessuna gara di ginnastica potrebbe mai raggiungere. Sa festa manna faceva salire in ciascuno una incredibile febbre.»

Jaja sapeva affascinarci: sono certa che a Martino come a me sembrava ormai di udire lo scalpiccio fremente degli zoccoli prima del via.

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«Subito alla partenza, il cavallo nero aveva preso la testa della corsa, come previsto; il suo galoppo era spettacolare, una perfezione della natura. Nel lungomare, con una leggera brezza che puliva l’aria e i colori, il cavaliere di Sedilo sembrava avere la facoltà di allungare il cavallo e farlo volare senza toccar terra. La folla urlava, rapita, e per due giri il risultato non fu mai in discussione. Ma all’improvviso, mentre cominciava l’ultimo dei tre giri, uno smilzo ragazzo su un mezzosangue color della ruggine emerse dalla nuvola di polvere, primo del gruppo degli inseguitori, e alla curva a gomito, forse grazie alla sua incoscienza o alla maggiore agilità dell’animale, superò il cavallo nero e si lanciò su per l’ultima salita. Tutti pensarono a un testa a testa finale, invece, nell’ultimo tratto, il distacco del cavallo fulvo aumentò, come sospinto da una forza soprannaturale, una sorta di potere oscuro. Il cavaliere si fece infine persino arrogante. Negli ultimi metri prima del traguardo, passando davanti alle tribune delle autorità, sollevò infatti il suo braccio sinistro in segno di saluto ed ebbe il tempo di fissarmi spudoratamente. Io ero lì, con i miei genitori, e mi sentii avvampare: un colpo di fulmine, o di maglio, non so.»

Jaja aveva fatto una lunga pausa, esitante tra l’intensità del ricordo e le nubi dei pensieri. Poi aveva continuato: «Avevo sedici anni – capite? – sedici anni. Il sorriso di quel cavaliere straniero mi strappò il cuore dal petto. E, confesso, mi fece avvertire una sensazione di febbre, le gambe molli e arrendevoli. Salvatore Mannu fu il nome che il presidente Amucano chiamò dal palco dichiarandolo vincitore della gara, nel solito modo enfatico che a Terranova si usava in pubblico. Il giovane salì i due gradini e si girò verso la folla. Denotava una personalità non certo gallurese: uno sguardo penetrante e diffidente, una fierezza non usa a scherzi e complimenti, persino una nascosta violenza che traspariva dai movimenti, dalla forza primitiva che esprimeva, sebbene fosse così smilzo». Jaja aveva chiuso gli occhi e per un bel po’ si era isolata, in silenzio.

Murichessa ci aveva fatto cenno di stare zitti, immobili.

Avevo pensato che Jaja ci avrebbe mostrato la scena e il volto giovanile di Bobore Mannu, ma lei invece aveva fatto un gesto con la mano, come per scacciare qualcosa, e si era ricomposta. Allora Murichessa si era alzata e aveva socchiuso la finestra. Una folata di vento gelido aveva portato nella stanza qualche fiocco di neve che si era librato verso il soffitto, al contrario del moto naturale.

«Salvatore era secco come il ramo di un ginepro, nervoso, intelligente. Aveva ventitré anni. Gli consegnarono una coppa d’argento abbastanza piccola, e quindici francos. Non tardò a guardarmi di nuovo, come se nella tribuna esistessi solo io, e sorrise sollevando la coppa. Io gli fissai i denti bianchissimi e il petto tra i lembi della camicia sbottonata.» Jaja aveva fatto un’altra lunga pausa e noi avevamo trattenuto il fiato.

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«Nei quattordici mesi seguenti combattei contro i miei genitori. Neppure il parroco e il dottor Amucano riuscirono ad aver ragione della mia testardaggine.»

«Come hai fatto?» non avevo resistito e avevo chiesto «Eri solo una ragazzina.»

«Minacciarono di mandarmi in continente, a Roma, da una zia. E io minacciai di… Sì, feci anch’io alcune minacce.»

«Di ucciderti? Per amore si può morire» avevo pontificato, come se potessi dirlo io, alla mia età. Ma ricordavo il racconto di mio padre su una ragazza di Bitti morta di crepacuore, aveva usato proprio quella frase, quando aveva saputo della morte del fidanzato in guerra.

Jaja non aveva risposto, e Martino si era alzato dallo sgabello e l’aveva abbracciata. Si era scosso dal suo mutismo e aveva detto sicuro: «Tu eri già una principessa, nonna».

«Beh, sì» aveva ammesso lei mentre nello sguardo si accendeva quella fiamma fredda che già altre volte avevo intravisto. «E mio padre lo sapeva.»

«Oh.»

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«Ci sposammo, io e Salvatore, il 22 settembre 1907, a Terranova Pausania, di domenica, nella chiesa di San Paolo. I miei genitori avevano regalato l’abito da sposo anche a lui – la famiglia Desogus non poteva certo fare brutta figura! – e la redingote gli stava benissimo. Tanto che quando lo vide, mio padre disse: “Questi nuoresi, maledetti” con un’ammirazione non celata. Salvatore si muoveva trasudando forza nervosa e agilità. Egidio e Edo, presenti alla cerimonia, erano elegantissimi, tuttavia sbiadivano al confronto del suo carisma.» Jaja si era interrotta ancora, e io avevo compreso, non so perché, che stava per rivelarci qualcosa di importante.

«Ho dimenticato di dirvi una cosa: il 22 settembre del 1907, circa alla stessa ora del nostro matrimonio, il transatlantico Principessa Jolanda affondò durante il varo. Jolanda di Savoia era la prima figlia del re d’Italia Vittorio Emanuele III, nata sei anni prima. La bellissima nave scivolò verso il mare, s’inclinò sul fianco, imbarcò acqua e andò perduta.»

(continua in libreria…)

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