Reagire con i dazi ai dazi di Trump? Sbagliato, ecco perché

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Donald Trump aveva fatto campagna elettorale presentandosi come “tariff man”, l’uomo delle tariffe, l’uomo dei dazi, e dunque tutti si attendevano che una volta alla Casa Bianca introducesse misure protezionistiche e innescasse una nuova guerra commerciale.

In realtà non è ben chiaro se quello che stiamo vedendo in questi giorni è davvero una guerra commerciale, con un Paese che mette dazi, l’altro che in risposta ne mette altri, o una complessa danza rituale tra capi di governo che devono simulare una guerra commerciale per salvare la faccia, dopo averla promessa o denunciata, senza praticarla davvero.

La Casa Bianca nella giornata di domenica ha annunciato dazi aggiuntivi del 25 per cento verso Paesi alleati, profondamente integrati con le catene produttive americane, cioè Messico e Canada. E poi dazi aggiuntivi del 10 per cento su tutte le merci importate dalla Cina.

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Poi Trump ha sospeso per un mese le tariffe contro Canada e Messico dopo che entrambi i Paesi hanno preso l’impegno a rafforzare la protezione del confine con gli Stati Uniti per limitare l’afflusso di immigrati irregolari e droghe come il fentanyl.

E già questo ci dice che non è proprio una guerra commerciale, visto che le tariffe punitive di Trump sono state prima motivate e poi disinnescate da ragioni non commerciali ma di ordine pubblico.

Restano le tariffe anti-cinesi, e dunque la Cina ora risponde con tariffe aggiuntive su 14 miliardi di dollari di importazioni americane verso la Cina che, secondo le stime di Oxford Economics, equivalgono a un aumento delle tariffe medie ponderate sulle importazioni dagli Stati Uniti del 2 per cento.

Tradotto: la Cina non vuole una escalation nella guerra commerciale, a uno schiaffo di Trump, Xi Jinping risponde con un buffetto, ma abbina una indagine antitrust contro alcune delle aziende americane più importanti, come Google e il produttore di chip Nvidia.

Anche in questo siamo di fronte a una ben strana guerra commerciale, con Pechino che alle tariffe risponde proclamandosi difensore di una concorrenza minacciata dai monopoli americani.

Più che a un duello all’ultimo sangue, per ora sembra di assistere a un incontro di quel wrestling che Trump tanto ama, dove la violenza è soltanto una coreografia quasi innocua.

Mario Seminerio è un economista, cura il sito molto seguito Phastidio.net e il podcast Settimana Phastidiosa. Che bilancio possiamo fare di questa primissima fase del protezionismo di Trump, con annunci e pause. C’è del metodo in questa follia?

Il metodo di Trump è quello transazionale e lui considera le tariffe o le minacce di tariffe una sorta di strumento elettivo, anche se sembra non essere di chiaro cosa fare di queste tariffe, cioè se usarle in via permanente, alimentando magari un fondo sovrano, creare un’agenzia per la gestione di queste entrate oppure usarlo come strumento negoziale per costringere i Paesi – interlocutori, concorrenti, alleati eccetera – a piegarsi alle sue volontà.

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La dinamica di quello che è accaduto con il Canada, ma soprattutto con il Messico, è l’esatta reiterazione di quanto accaduto tra la fine di maggio e l’inizio di giugno del 2019, cioè l’utilizzo di poteri straordinari con dazi a partire dal 5 per cento da elevare progressivamente al 25, segue accordo tra Trump e l’allora presidenza messicana di Lopez Obrador e vissero tutti felici e contenti.

Quindi vedremo che tipo di evoluzione ci sarà, tenendo presente che se Trump vuole effettivamente drenare aziende dal resto del mondo usando l’arma delle tariffe, le tariffe devono essere permanenti perché se sono semplicemente temporane o semplicemente minacciate il gioco non vale la candela e non si può parlare di rilocalizzazione.

Il rovescio della medaglia è che Trump determina una rottura delle alleanze occidentali e un’evoluzione del sistema economico americano verso l’autarchia che difficilmente – a mio giudizio – può essere di gradimento delle oligarchie finanziarie statunitensi.

Tu hai scritto che per noi europei e in generale per gli altri Paesi che commerciano con gli Stati Uniti la cosa più sensata sarebbe non reagire, non rispondere a dazi con dazi. Perché?

La teoria dice che i Paesi colpiti da dazi dovrebbero astenersi da rappresaglie e in tal modo si avrebbe una neutralizzazione della misura attraverso un aumento dell’inflazione americana e un rafforzamento del dollaro, cioè una perdita di competitività americana che renderebbe il recupero indotto dai dazi del tutto fallace e transitorio.

Questo rafforzamento del dollaro avverrebbe da due canali, meno flussi di dollari per pagare le importazioni perché le importazioni dopo l’imposizione di dazi diminuirebbero e un aumento dei rendimenti indotto dalla stretta monetaria necessaria a contrastare l’inflazione e le aspettative inflazionistiche causate dai dazi.

La realtà molto umana è che, visti i modi e le forme usate da Trump, gli altri Paesi e i loro governanti pro tempore non possono esimersi dal mettere in atto una ritorsione motivata da orgoglio nazionale.

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Quali ripercussioni ci sono sui mercati finanziari di questa incertezza sulle politiche commerciali della prima economia del mondo?

I mercati finanziari reagiscono con un forte aumento di volatilità, perché una guerra commerciale vuol dire un taglio netto della redditività delle imprese e quindi un ridimensionamento dei corsi di Borsa.

Probabilmente i trader si divertono anche, visto che loro prosperano sulla volatilità. Il problema è che se queste misure dovessero non solo essere annunciate e poi richiamate nel giro di poco tempo, o reiterate qualche settimana dopo e quindi dovessero scaricarsi sulle filiere, sulle catene di fornitura, determinerebbero dei contraccolpi anche sull’economia reale, soprattutto sulle decisioni di localizzazione di investimento e sui volumi di attività che non possono prescindere anche dal commercio internazionale.

I dazi spiegati a Trump

Donald Trump non ha chiaro come funziona l’economia. Nella sua testa c’è il seguente ragionamento: le tariffe applicate alle importazioni rendono i prodotti stranieri più costosi, questo genera l’incentivo a produrli in patria, o comunque favorisce i produttori locali, e in più produce gettito per le casse dello Stato, perché le tariffe doganali sono una tassa pagata dai produttori stranieri.

Dunque, poiché gli Stati Uniti sono in deficit commerciale, cioè importano più di quanto esportano, c’è spazio e necessità di mettere molte tariffe. Anzi, più tariffe ci sono meglio è.

Questo ragionamento, che Trump ripete allo sfinimento, è sbagliato perché non considera due cose: chi paga davvero l’aumento di prezzo dovuto alla tariffa doganale e le conseguenze sulla domanda e l’offerta complessiva.

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Come si vede dal grafico qui sotto, preso da una presentazione di Deutsche Bank, una tariffa sui beni cinesi equivale a rendere i beni cinesi più costosi per i consumatori americani.

Saranno loro a sostenere il costo della tariffa, per due ragioni: perché pagano le importazioni di più, ma anche perché pagano di più i prodotti americani che ora subiscono meno concorrenza dall’esterno. In questo senso, le tariffe sono anche una specie di sussidio alle imprese americane.

Quello che Trump non considera, è che tutto questo non avviene a parità di domanda. Ma la domanda si riduce. E se ci pensate è ovvio: immaginate che gli Stati Uniti importino automobili cinesi da 10.000 dollari l’una. Una tariffa aggiuntiva del 10 per cento le farà costare 11.000 dollari. I produttori americani che prima erano costretti dalla concorrenza cinese a vendere anche i loro modelli a 10.000 dollari, potranno alzare i prezzi a 11.000.

La conseguenza è che alcune migliaia di americani che potevano permettersi di spendere al massimo 10.000 dollari per comprare un’auto, rimarranno senza. Perché non possono proprio arrivare a 11.000.

Quindi, per effetto della tariffa, non soltanto molti consumatori che avrebbero potuto comprare un’auto a 10.000 dollari si troveranno a spendere di più, ma molti altri rimarranno appiedati.

In gergo economico, questo significa che il surplus dei consumatori si riduce a favore di quello dei produttori e che aumenta la perdita secca di benessere dovuta alla impossibilità di incrociare domanda e offerta. Molte transazioni che ci sarebbero state in assenza della tariffa, non avvengono.

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L’ultima guerra commerciale con la Cina di Donald Trump, infatti, non ha prodotto i risultati sperati: i posti di lavoro manifatturieri hanno continuato a ridursi, il deficit commerciale non è cambiato granché.

Certo, è salito il gettito fiscale per il governo americano dalle tariffe, ma è una ben magra soddisfazione, specie se quel gettito poi deve essere usato, assieme a nuovo debito pubblico, per sussidiare produttori e consumatori in modo da sostenere un’economia americana indebolita proprio dalle politiche protezionistiche.

Per queste stesse ragioni, anche se può sembrare politicamente difficile, non ha molto senso rispondere alle tariffe ritorsive con altre tariffe ritorsive. I dazi e le barriere ai commerci penalizzano tutti, se poi sono orizzontali – cioè colpiscono in modo indifferenziato qualunque importazione – non possono neppure essere giustificate su basi di politica industriale, per esempio con l’esigenza di proteggere qualche settore strategico anche se tale protezione comporta un costo per il resto dell’economia.

Le guerre commerciali, insomma, sono stupide perché peggiorano la situazione di tutti i partecipanti. Ma il fatto che una politica sia stupida e controproducente non basta a evitare che qualcuno la adotti, specie se per un misto di ignoranza e malafede risulta anche popolare.

Dunque bisogna porsi la questione di come reagire, senza perdere la faccia e senza farsi troppo male. L’economista Richard Baldwin ha suggerito un approccio ripreso dalla Guerra fredda e dalla deterrenza nucleare: i Paesi partner degli Stati Uniti dovrebbero minacciare ritorsioni mirate così elevate da rendere controproducente per Trump anche solo pensare di mettere le tariffe punitive che ha in mente.

Il Messico per esempio potrebbe minacciare di colpire alcune componenti automobilistiche che, se troppo care, bloccherebbero l’intero settore in America. Ma forse è un approccio troppo razionale.

Cosa può fare l’Ue

L’Unione europea, con la presidente Ursula von der Leyen, pensa ad approcci più mirati a solleticare la mentalità negoziale di Donald Trump: evitare tariffe punitive promettendo per esempio di comprare più gas naturale liquefatto (LNG) o più armi. Da qualcuno l’Ue dovrà comunque comprare entrambe le cose, tanto vale illudere la Casa Bianca di aver ottenuto un grande risultato. Trump proclamerà la sua vittoria e per l’Ue cambierà poco.

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Oggi l’Unione europea importa il 20 per cento del suo fabbisogno di LNG dagli Stati Uniti , il resto da Norvegia, Nord Africa, Regno Unito e Qatar. Poi c’è una quota di gas che viene ancora importata dalla Russia, anche se molto inferiore a tre anni fa, prima dell’invasione dell’Ucraina.

C’è quindi margine per comprare di più dagli Stati Uniti, se questo serve a placare Trump.

Peraltro, se Trump dovesse davvero sbloccare e favorire nuovi progetti di esplorazione di giacimenti di energie fossili, l’offerta di gas potrebbe aumentare e il prezzo del LNG americano da esportazione, già basso in confronto agli anni scorsi, scenderebbe ancora.

In questi primi giorni al potere, Trump ha già dimostrato di non poter mantenere le promesse da campagna elettorale: non ha imposto un piano di pace alla Russia, il dipartimento di revisione della spesa guidato da Elon Musk non sta tagliando granché, la sua guerra commerciale è solo wrestling.

Trump proverà a fare tutto quello che ha promesso, per fortuna certe politiche troppo masochistiche o assurde sono molto più difficili da praticare che da annunciare.

(Estratto da Appunti)

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