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Bergamo. Ventuno milioni di auto prodotte in Europa pre-Covid contro i 17 milioni circa nel 2024. Un Vecchio Continente stretto tra due poli: gli Stati Uniti di Trump – che minaccia dazi anche contro l’Unione Europea – e la Cina che detiene il 31% della produzione mondiale di autovetture, cioè oltre 31 milioni nel 2024, di cui un terzo elettrico, esportato soprattutto in Europa, dove i marchi cinesi ibridi e plug-in sono passati dal 5% al 15% tra il 2015 e il 2023.

Lo dicono i numeri: il settore dell’automotive europeo è in crisi. Un tema esplosivo qui a Bergamo, seconda provincia in Lombardia per dipendenti (circa 5 mila) e terza per imprese del settore (circa 70), specializzata nella componentistica e trainata da tre colossi come Brembo, RadiciGroup e Persico, che impiegano circa il 70% degli addetti totali. È una spada di Damocle lo spauracchio del 2035, a partire dal quale – lo dice il Green Deal e cioè la strategia dell’Unione Europea per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 – le case automobilistiche dovranno produrre vetture a emissioni zero di Co2, quindi solo auto elettriche (anche se qualche spiraglio si sta aprendo per le ibride plug-in). E quello del 1° gennaio 2025, a partire dal quale scattano le multe per i produttori che non raggiungono i target intermedi di tagli delle emissioni.

Da dove ha origine questa crisi? Se ne è discusso a ‘Verso l’elettrico. Futuro e innovazione dell’automotive’, tavola rotonda promossa da Cgil Bergamo venerdì 7 febbraio allo Spazio Eventi Daste.

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“Lo sviluppo dell’automotive deve essere in continuità con il processo di transizione ecologica e tecnologica. Oggi in Italia – dove l’84% del parco auto ha un motore endotermico, cioè ‘tradizionale’ – il settore impiega 270 mila persone, di cui 5 mila a Bergamo: non è pensabile una transizione che non sia socialmente sostenibile”, esordisce il ‘padrone di casa’ Marco Toscano, segretario generale Cgil Bergamo. Sì, perché attorno alla parola ‘elettrico’ si aprono a raggiera “opportunità e rischi, scelte strategiche di innovazione e paure di smottamenti occupazionali, investimenti in formazione e riconfigurazione delle competenze, sostenibilità ambientale e competitività sugli scenari globali. Il mercato di veicoli elettrici ha fatto crescere la domanda di minerali critici (come il cobalto e il nichel) e nel 2050 la curva s’impennerà. La Cina si è mossa da una decina d’anni con investimenti in Africa e America Latina. Anche gli Stati Uniti stanno facendo lo stesso. L’Europa è rimasta indietro”.

Se nel dibattito attuale ambiente e lavoro, giustizia ambientale e sociale, sembrano incompatibili, l’economista Francesco Zirpoli, docente in Ca ‘ Foscari e direttore scientifico del Cami (Center for Automotive and Mobility Innovation) all’Ateneo veneziano, sgombra il campo da equivoci: “L’Europa registra un fallimento clamoroso in termini di capacità di contrastare le emissioni di gas serra. Il tema è urgente e non rinviabile. Dal 1990 a oggi, nell’Europa dell’Est le emissioni di Co2 sono aumentate del 240%, mentre sono rimaste invariate nei Paesi nordici, dove la mobilità elettrica è ormai affermata”. Ma non è andata così dappertutto. Prendiamo il Giappone, unico Paese che ha ridotto del 23% l’emissione di anidride carbonica negli ultimi trent’anni: “Merito anche delle kei cars, le autovetture lunghe al massimo 3 metri, leggere, frugali, in grado di rispondere alle esigenze di persone che vivono in aree rurali con un basso reddito”.

Il futuro dell’automotive italiano ha le misure di una minicar lunga tre metri? “Il tema è un fortunato mix di prodotti, comprese vetture piccole, leggere ed economiche. Dobbiamo riportare l’innovazione al centro, in Italia abbiamo assolute eccellenze: penso alla chimica delle batterie del futuro e alla tecnologia del processo di produzione. E poi servono nuove soluzioni organizzative: occorre un cambio culturale per sperimentare nuove forme di mobilità condivise”, dice Zirpoli. Dunque, “una transizione radicale”.

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Michele De Palma, segretario generale Fiom Cgil Nazionale sottolinea la necessità di “un ruolo attivo delle lavoratrici e dei lavoratori, senza il quale non sono pensabili la transizione ecologica e tecnologica”. De Palma mette in guardia contro i rischi della nazionalizzazione del problema (“Ogni Paese, da solo, non è in grado di sostenere il processo necessario al cambiamento”) e la possibilità, concreta, per l’Europa, di essere “percepita come un mercato, non come un soggetto. Il nostro tempo è segnato da troppe fratture: i nostri operai non possono permettersi l’auto elettrica che producono. L’Italia, in questa fase di nuovi protezionismi, rischia di non essere più nemmeno un Paese che esporta, con le produzioni spostate in altre aree del Mediterraneo”.

Gli fa eco Marco Falcinelli, segretario generale Filctem (Federazione Italiana Lavoratori della Chimica, del Tessile, dell’Energia, delle Manifatture) Cgil Nazionale, video-collegato alla discussione: “Servono scelte politiche, bisogna spingere sull’innovazione, altrimenti il rischio è la desertificazione industriale. Le aziende devono incrementare le risorse dedicate a ricerca e sviluppo. Un’indagine dell’Osservatorio delle imprese dell’Università ‘La Sapienza’ ha rilevato che l’80% degli utili delle imprese è usato per l’acquisto di prodotti finanziari. Del restante 20%, solo la metà è dedicata all’innovazione”.

Tra i relatori, la voce della politica è quella di Vinicio Peluffo, deputato Pd e componente della Commissione Attività Produttive alla Camera dei Deputati: “Abbiamo perso competitività, siamo sempre stati abituati a produrre belle auto e a venderle bene, ora gli Usa e la Cina lo fanno meglio di noi. Da qui dobbiamo partire: dobbiamo colmare questo gap di competitività”. E non è il libro dei sogni il Piano Draghi, che, anzi, “indica strumenti per costituire, ad esempio, un fondo a livello europeo dedicato solo all’automotive. In questo settore la trasformazione è appena iniziata, perché già oggi stiamo parlando di auto connesse, a guida autonoma. Abbiamo 741 milioni di euro del PNRR: usiamoli, siamo il Paese europeo che ha meno colonnine di ricarica per le auto elettriche”.

Della politica l’automotive ha bisogno, e non per mirare alla decrescita felice, chiarisce Roberto Vavassori (Brembo), membro del Consiglio Generale di Confindustria Bergamo e presidente di Anfia – Associazione Nazionale Filiera Industria Automobilistica: “Non esistono buone tecnologie senza una buona politica che le comprenda e le supporti. All’inizio è costoso, i benefici arrivano nel lungo periodo. Il punto non sta nella scelta tra pistoni o ioni, l’orizzonte è senz’altro elettrico, ma ci dobbiamo arrivare vivi. L’Europa deve supportare la transizione del settore in modo sostenibile. Il futuro della mobilità è nell’innovazione, nell’elettronica, nei software”. Un drastico cambio di paradigma.

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