Il fascino perverso delle ideologie aliene

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A Los Angeles c’è chi giura di avere visto il diavolo. Be’, forse non proprio Satana in persona, ma per certo il suo avatar, incarnato in quel vortice di fiamme – incendio nell’incendio – conosciuto come Fire Devil, sorta di serpente di fuoco che, spinto da correnti ascensionali calde, inizia a sollevarsi, ruotare e danzare su se stesso, segnalato ora qua ora là tra i roghi incontrollati che, a inizio 2025, hanno ridotto in cenere migliaia di abitazioni in due delle maggiori aree verdi e iconiche della megalopoli californiana – le colline di Pacific Palisades, e i canyon dell’adiacente quartiere di Brentwood – proprio laddove, nella prima metà del Novecento, aveva trovato rifugio, e preso casa, l’intellighenzia tedesca in fuga dal nazismo: letterati, filosofi, musicisti, cineasti, tra i quali gente come il drammaturgo Bertolt Brecht, gli scrittori Erich Maria Remarque e Lion Feuchtwanger, il compositore Arnold Schoenberg, e poi Theodor Adorno, Max Horkheimer, Aldous Huxley, Igor Stravinskij, il premio Nobel Thomas Mann, uno che il diavolo lo aveva letterariamente frequentato in versione faustiana. Un inferno in terra dove il fuoco sembrava non spengersi mai, “un fuoco eterno preparato per il diavolo e i suoi angeli” (Matteo, 23:33).

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E dire che Nostradamus aveva predetto, con apparente grande sicurezza, che il 10 maggio 1988 Los Angeles si sarebbe inabissata in mare a seguito di un devastante terremoto. Profezia ripescata e rilanciata qualche anno prima da un oscuro docu-film, Nostradamus: The Man Who Saw Tomorrow, narrato da Orson Welles con quella sua voce profonda e stessa serietà con cui, nel 1938, aveva scosso i nervi degli americani mandando in onda lo sceneggiato radiofonico La guerra dei mondi che annunciava la conquista della Terra da parte di bellicosi marziani.

Ma neanche Nostradamus poteva prevedere una catastrofe infernale come quella che realmente si è abbattuta sulla città degli angeli: un’Apocalisse per nulla allegorica, un Armageddon di fuoco che, vista la specificità del luogo – se non fosse blasfemo nei confronti di chi ha perso tutto, talvolta la vita – verrebbe da parlare di un riuscito disaster movie in cui riverberano le forme sempre più mostruose e diversificate del demonio.

Guardi ipnotizzato quelle immagini di roghi trasmessi in mondovisione, ed è come veder prendere vita agli scenari infernali cari a Hyeronimus Bosch, rappresentati in opere visionarie come il Trittico del Giudizio, il Trittico del carro di fieno, o il Giardino delle delizie, «analogamente costellati di incendi devastatori. Qui, tuttavia, non siamo nell’oltretomba, ma nel tragico inferno dell’esistenza», scrive, a proposito delle opere del maestro olandese, Laura Pasquini, storica dell’arte medievale presso l’Alma Mater Studiorum, Università di Bologna, in Il diavolo (“Storia iconografica del male”, Carocci, 2024), quasi a presagire in «una rappresentazione ostentatamente metamorfica della figura demoniaca», dell’inferno dell’esistenza presente e la fine delle sue delizie. Tanto medievali quanto contemporanee.

Charles Manson, il demonio antropomorfizzato

«Il diavolo umanizzato può agire direttamente sui suoi emissari, suggerendo parole e azioni alle loro orecchie, indirizzandone persino i gesti», scrive Pasquini a proposito delle Storie dell’Anticristo di Luca Signorelli, un ciclo di affreschi conservato nella cappella Nova del duomo di Orvieto, che rivela in modo chiaro il passaggio dal tradizionale ritratto del diavolo alla figura umana come “ritratto diabolico”. «Anticristo che assume qui, per la prima volta, le sembianze del Salvatore, e si rivela potente strumento del male e sua controfigura». In pratica, continua Pasquini, sembra che «il demonio abbia il potere di indossare i suoi adepti come fossero guanti, involucri inermi, privi della grazia, da saturare di ogni immonda nefandezza».

Parole a cui fa eco lo storico dell’arte Daniel Arasse in Il ritratto del diavolo (Nottetempo, 2012): «La figura del diavolo non manifesta più la negazione dell’ordine divino, il “caos è diventato carne”; la sua immagine non trasmette più il mito dell’Angelo ribelle; il diabolico è coestensivo all’umano: è una dimensione dell’umano stesso».

E quale controfigura migliore l’Anticristo poteva assumere, nel mondo contemporaneo, se non quella di Charles Manson, il “macellaio di Cielo Drive” – l’ispiratore ed esecutore dell’assassinio dell’attrice Sharon Tate, moglie del regista Roman Polanski, e di altre quattro persone nell’agosto del 1969 – un cantante fallito e psicolabile a cui l’LSD e tutte le droghe del mondo avevano “bruciato” il cervello, uno che si credeva il Salvatore reincarnato le cui gesta avevano preso le mosse proprio in quelle aree di Los Angeles colpite dagli incendi, nello specifico nella “riserva” hippie di Topanga Canyon, tra Palisades e Malibu, il cui isolamento boschivo faceva da calamita per artisti e “anime libere”, ma anche per balordi irrecuperabili.

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Sarà solo quando i membri della cosiddetta “Famiglia Manson” finiranno dietro le sbarre che si scoprirà tutta una serie di altre morti inutili, atroci, disumane, risultato della frustrazione di uno sbandato che si credeva Gesù Cristo, un rocchettaro fallito che aveva cercato inutilmente di sfondare nel sottobosco musicale che ferveva a San Francisco, nel ghetto hippie bohemien di Haight-Ashbury, al tempo della celebrata, e per molti versi inquietante, Summer of Love, l’estate dell’amore del 1967.

Si scoprirà, per esempio, che a Topanga Canyon Manson aveva torturato e ucciso un musicista, tale Gary Hinnman, con cui aveva condiviso una casa sulla collina. Il motivo? Hinnman si era rifiutato di finanziare una scampagnata alla Valle della Morte; che il giorno dopo il massacro di Cielo Drive, Manson e famiglia avevano seviziato e trucidato a colpi di baionetta l’imprenditore Leno LaBianca e la moglie Rosemary. Perché? Per le parole di Helter Skelter, una canzone dei Beatles, parte del 33 giri White Album, da noi conosciuto come “Doppio bianco”, come spiegherà Manson al giudice, scritta, ne era certo, come messaggio criptato che profetizzava l’escalation di conflitti razziali in tutto il mondo, e che solo lui, nella veste di Gesù Cristo reincarnato, avrebbe saputo redimere. Ma cosa c’era di così messianico in quell’album? Il numero 9, ripetuto ossessivamente da John Lennon in Revolution 9, un brano di totale anarchia sonora, messaggio che annunciava l’Apocalisse, spiega lui. Non solo: nel brano Piggies, maialini, George Harrison cantava: “What they need’s a damn good whacking”, quello di cui certa gente ha bisogno è una bella e buona strigliata. E fu proprio in omaggio a George Harrison che Manson si preoccupò di far trovare il cadavere di Leno LaBianca con una forchetta infilzata nello stomaco: voleva essere fedele, alla lettera, all’ultima strofa della canzone: “Clutching forks and knives to eat their bacon”, afferrando forchette e coltelli per mangiare la loro “pancetta”.

Quando il diavolo lo vedi dalla faccia

Nel recensire, su un numero di TuttoLibri del 2012, il libro di Daniel Arasse citato poc’anzi, Marco Belpoliti, si chiedeva quale immagine abbiamo oggi noi del diavolo, visto che un’illustrazione tratta dai libri di Cesare Lombroso – l’autore di L’uomo delinquente (Hoepli, 1876), il “padre” dell’antropologia criminale – avrebbe potuto benissimo sostituire la copertina del saggio di Arasse in cui era riprodotto un mostro con la testa d’asino, il corpo di sirena, il piede e la coda da grifone (il Papstesel di Roma).

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In effetti, tra la fine del xv secolo e l’inizio del successivo, «alcuni rilevanti episodi figurativi avevano già convogliato nella figura umana, e specie nel suo volto, quegli elementi di bestialità e ferocia da sempre attribuiti al demonio», ricorda Laura Pasquini. «Questa umanità alterata dalla bassezza e dalla perversione del peccato si palesava, ad esempio, nelle cosiddette “teste grottesche” disegnate in gran numero da Leonardo da Vinci: si tratta di accurati e multiformi studi fisiognomici sulla deformazione dei volti, che potevano assumere tratti bizzarri e perfino animaleschi, da intendersi come risultati di una sistematica classificazione delle differenti alterazioni, ma anche e soprattutto quali espressioni vivide di una malvagità immanente, connaturata nell’uomo, inteso come essere diabolico».

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E se nel Medio Evo ci si illudeva, appunto, di poter riconoscere il diavolo dalla sua repellente bruttezza, in contrasto con la perfezione dell’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio, Cesare Lombroso non farà altro che sistematizzare, teorizzare e dare un apparente veste di scientificità all’equazione “tratti-grotteschi” uguale “essere-diabolico” (attualizzato in “comportamenti-devianti)”. Ebbe a dire: «Il criminale riproduce sulla propria persona i feroci istinti dell’umanità primitiva e degli animali inferiori». Ovvero, quando il diavolo lo vedi dalla faccia.

Le dimensioni del diavolo

Se lo studio della fisiognomica giustifica la convinzione che «l’osservazione attenta delle peculiarità del corpo possa consentire l’individuazione di precise qualità dell’animo e che questo permetta di riconoscere il male fra i propri simili» [Pasquini], il gesuita Jean-Joseph Surin (1600-1665), scrittore ascetico francese, nel suo Triomphe de l’Amour Divin sur les puissances de l’Enfer, si premura di aggiungere precisi dati segnaletici per l’identificazione del diavolo.

Surin, esorcista delle suore del convento di Loudun, si era offerto a Dio come vittima di scambio, disposto ad essere posseduto lui stesso dagli spiriti del male in cambio della liberazione delle suore. Da allora aveva cominciato a comportarsi in modo strano, contorcendosi in pubblico, fuori da ogni controllo, anche se per molti dei suoi compagni gesuiti era più malato psichiatrico che vittima dei demoni.

Comunque sia, in quella sua opera spiega (per conoscenza diretta? chissà) quali siano le dimensioni del diavolo che «se vuole, si piazzerà nella sua interezza sulla punta di una spilla», mentre «uno dei più grandi, come un Serafino, può occupare uno spazio di 30 leghe, un altro di 15, un altro di 12, come ciascuno secondo la sua facoltà naturale. Non può occupare 30 leghe quadrate, ma può estendersi come un serpente per tale ampiezza; e quello che si può allungare per 30 leghe, si può estendere, oltre che in lunghezza, in uno spazio più modesto (per esempio un tondo del diametro di un quarto di lega), oppure riempie una grande città e la riempie della sua sostanza».

Il bestiario di Satana: nudo, o vestito a righe

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Il diavolo, nelle opere d’arte e nell’immaginario collettivo è, salvo poche eccezioni, raffigurato nudo, di una nudità potente, sfacciata, provocatoria che vuole rappresentare la sua natura “bestiale” e, al tempo stesso, sottolineare il suo potere di seduzione. Nudità che il Maligno copre talvolta con “una veste a due colori” che, come rammenta il diciannovesimo capitolo del Levitico: Veste, quae ex duobus texta est, non indueris, veste che i timorati di Dio della fine del Medio Evo non dovranno mai indossare perché causa di disordine e di trasgressione.

Due colori da intendersi “a righe”, spiega l’archivista paleografo, docente di storia della simbolica occidentale Michel Pastoureau nel libro La stoffa del diavolo (“Una storia delle righe e dei tessuti rigati”, il melangolo, 1993). E se la tinta unita non è documentata da nessuna testimonianza o documento dell’epoca in quanto rappresenta l’ordinario, la”norma”, le righe e le vesti rigate, al contrario, si trovano spesso citate nei documenti perché causa di disordine, «perché fanno rumore».

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Le radici di una simile proibizione e abbinamento diabolico risalirebbero allo scandalo del manto rigato indossato da alcuni frati appartenenti all’ordine della Madonna del Carmine, discendenti di un gruppo di eremiti insediatisi, nel XII secolo, presso il monte Carmelo, in Palestina. «Il loro manto non assomiglia a nessuno degli altri ordini mendicanti, monastici o militari: in poche parole costituisce uno scarto rispetto alla norma, talmente forte da sconfinare, suo malgrado, nella trasgressione», scrive Pastoureau. I carmelitani diventano così il bersaglio di beffe e ingiurie, segnati a dito, derisi, coperti di insolenze; vengono soprannominati les frères barrés, i “frati sbarrati”. Il papa Alessandro IV chiede espressamente ai religiosi del Carmelo di abbandonare il mantello a righe per uno a tinta unita. I frati rifiutano e la diatriba va avanti per un quarto di secolo, fino alla definitiva rinuncia al mantello “sbarrato” messo all’indice da una bolla di papa Bonifacio VIII.

Così l’abito rigato finisce per simboleggiare un marchio d’infamia utilizzato per distinguere coloro che erano considerati fuori dalla norma, come giullari, prigionieri, prostitute o persino eretici, mentre nelle rappresentazioni teatrali medievali e rinascimentali, i costumi a righe erano usati per rendere il diavolo riconoscibile al pubblico, enfatizzandone la natura ambigua e ingannevole. «La rigatura», annota Pastoureau, «costituisce dunque un’infrazione alla norma e fa scoppiare uno scandalo tanto sulla veste di un religioso quanto sul costume di un giocoliere, sulle brache di un principe, sulle maniche di una cortigiana, e persino sul pelame di un animale». La stessa zebra, alla fine del Medio Evo, viene considerata un animale pericoloso e, proprio per questa sua specificità di creatura diabolica e crudele, inclusa nel bestiario di Satana.

Tutta quella notte sognammo diavoli

La negromanzia è quella forma di divinazione spesso associata alla magia nera e all’evocazione del Demonio. È Benvenuto Cellini – scultore, scrittore e soprattutto orafo (sua è la celebre saliera, capolavoro di oreficeria realizzato per Francesco I di Valois, oggi custodita al Kunsthistorisches Museum di Vienna) – che, nelle sue memorie, confessa di essere sempre stato affascinato dalla negromanzia e che avrebbe voluto capire di cosa si trattasse (ma soprattutto se ne voleva servire per interrogare gli spiriti intorno al futuro del suo amore per la bella Angelica, la cortigiana siciliana per cui aveva perso la testa). Allo stesso tempo «vedere o sentire qualche cosa di quest’arte». Il fatto è che non sa come fare.

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Ne parla con un prete siciliano «di elevatissimo ingegno e aveva assai buone lettere latine e grecie» che gli fa presente che si tratta di un’impresa non da deboli di spirito. Cellini, da par suo, risponde sicuro: «Della fortezza e della sicurtà dell’animo me ne avanzerebbe, pur che ’i trovassi modo a far tal cosa». Il prete lo prende in parola e lo invita a trovarsi di notte al Colosseo. E così «andaticene al Culiseo, quivi paratosi il prete a uso di negromante, si misse a disegnare i circuli in terra con le più belle cirimonie che immaginar si possa al mondo».

Ma quello che doveva essere un “semplice” rito di evocazione degli spiriti dei morti («Cominciato il negromante a fare quelle terribilissime invocazioni, chiamato per nome una gran quantità di quei demoni capi di quelle legioni») si trasforma – nella cronaca celliniana – in una sorta di sabba di fuoco dalle cui fiamme appaioni demoni («quattro smisurati giganti, e’ quali erano armati e facevan segno di voler entrar da noi») che terrorizzarono gli incauti apprendisti stregoni. «Tutto il Culiseo arde, e ’l fuoco viene adosso a noi». Risultato? Cellini e gli altri convenuti al rito scappano a casa, e «ciascun di noi tutta quella notte sogniammo diavoli».

Non ci resta che il diavolo

E oggi, che fine ha fatto il diavolo? La sensazione è che Satana, Bafometto, Lucifero, Belzebù, Mefistofele, Pazuzu, The Donald (lo specializzato nel fare il diavolo a quattro), chiamalo come ti pare, abbia preso casa sulle prime pagine di ogni mezzo di comunicazione di massa, reti sociali, Intelligenza Artificiale compresa, ultima arrivata nella classifica demoniaca contemporanea (O tempora…), ma anche in eleganti volumi Taschen (Devils, a cura di Gilles Néret, 2003), nella Storia della bruttezza, a cura di Umberto Eco (Bompiani, 2007), nei fumetti di Dylan Dog, perfino nei film del principe de Curtis che, in Totò al Giro d’Italia, vende l’anima al diavolo pur di vincere la competizione ciclistica a cui partecipano (i veri) Bartali, Coppi, Magni. Per non parlare dell’attore di origini ungheresi Bela Lugosi (interprete di The Devil Bat, il “diavolo pipistrello”, film del 1940 conosciuto in Italia col titolo di Notti del terrore) che, secondo la leggenda, sul letto di morte avrebbe pronunciato parole demoniache: «Io sono il conte Dracula, io sono il re dei vampiri, io sono immortale».

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Eppoi ci sono i Dust Devils (diavoli di sabbia) scoperti su Marte fotografati e filmati da varie sonde (Viking) e rover (Mars Pathfinder) di dimensioni fino a 50 volte maggiori in ampiezza e 10 volte in altezza, rispetto a quelli terrestri (ne è stato ripreso uno alto 20 chilometri) parenti stretti di quei Fire Devil, di cui abbiamo parlato all’inizio, che hanno devastato Los Angeles e la California, lo Stato che il neo presidente degli Stati Uniti definisce, elegantemente, a pain in the ass, una rottura di c*, a cui ha minacciato di tagliare gli aiuti federali per combattere gli incendi. Questo mentre il suo sodale, Elon Musk, studia il modo di trasferire l’umanità proprio lì, su Marte. Ma sorge un dubbio. Non è che i due, sul pianeta “rosso” vogliono spedirci i detestati californiani (così imparano a votare democratico) e, già che ci sono, deportare in catene tutti i diabolici immigrati?

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Vedi anche:
Filippo La Porta: Parlano tutti bene del Male
Marco Ercolani: Fernanda Alfieri, un esorcismo a Roma / Veronica e il diavolo
Corrado Antonini: 16 agosto 1938 / Robert Johnson, o della persistenza del mito



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