Gaza, il racconto dell’orrore all’oratorio di Cristo Re

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CREMONA – «Indipendente, neutrale e imparziale. Questi sono i principi che animano l’azione di Medici Senza Frontiere nel mondo. Crediamo e facciamo in modo che le cure siano garantite a tutti. Tra i nostri compiti c’è anche quello della testimonianza: di quello che vediamo con i nostri occhi, di quello che viviamo quotidianamente su decine di teatri di guerra del mondo». In una palestra gremita, messa a disposizione dall’oratorio di Cristo Re, Medici Senza Frontiere ha organizzato venerdì sera un momento di riflessione sull’attività dell’organizzazione nel conflitto israelo-palestinese all’interno della Striscia di Gaza.

I volontari Claudia Forti, Cristian Martinelli e Natalia Vantini hanno portato una testimonianza diretta dalla Palestina che ha trovato un’ampia risposta tra i cremonesi che si sono riuniti per ascoltare e porre puntuali e numerose domande. Msf è infatti riuscita a riempire un vuoto, ad affrontare un tema come la Palestina sul quale i cittadini hanno oggi tante informazioni quanti, se non di più, interrogativi.

Collegata in video poi ha portato la sua testimonianza Martina Marchiò, operatrice umanitaria bresciana con un’esperienza di otto anni nell’organizzazione, Msf è riuscito in questo a portare, attraverso le voci dei palestinesi: le paure della gente, i vissuti di famiglie che hanno perso tutto, a partire dai loro cari, gli esempi di incredibile forza d’animo e ostinata esistenza di quel popolo senza pace. E non per partito preso ma per un’azione di testimonianza in difesa di quei valori di umanità che in questa guerra sono stati sistematicamente calpestati.

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«Per questo — ha spiegato Msf —, di fronte a quel che è accaduto e sta continuando ad accadere in Palestina non possiamo rimanere in silenzio. Quando siamo arrivati al punto di sentire dire a una bambina di nove anni che non aveva più senso vivere in quel modo e che avrebbe preferito raggiungere la mamma, morta sotto le bombe, significa che abbiamo perso tutti, come esseri umani. Per questo siamo qui, per raccontare quel che succede, per non perdere la nostra umanità».

Claudia Forti

LA SITUAZIONE

«Quando Msf mi ha proposto andare a Gaza, sapevo — ha raccontato Marchiò — che quello era uno dei teatri più pericolosi in cui eravamo attivi. La guerra era ancora in pieno corso e io sarei dovuta andare a Rafah e a Khan Yunis, zone calde sia per l’afflusso degli sfollati che per le bombe che cadevano quotidianamente. Ho deciso di partire: quando ho attraversato il valico con l’Egitto, entrando in Palestina con uno dei rarissimi camion di aiuti che venivano fatti passare, ho provato una sensazione che non scorderò mai». Marchiò stava entrando in una zona di conflitto caratterizzata «dal più alto numero di violenze contro strutture mediche e personale sanitario», dove le norme del diritto internazionale, che regola anche le modalità in cui vanno combattuti i conflitti, venivano «sistematicamente ignorate, in una spirale di disumanità che nemmeno l’esposizione mediatica è riuscita ad arginare più di tanto».

L’intervento di Cristian Martinelli

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LE DIFFICOLTÀ

Oltre alla distruzione causata dalla guerra a Gaza mancava «praticamente tutto». Se prima del 7 ottobre nella Striscia entravano «500 camion al giorno di aiuti internazionali, con i quali la popolazione mandava avanti ospedali, mense, scuole», dopo lo scoppio del conflitto totale «ne venivano fatti passare 16, poi si è arrivati a chiudere completamente il transito». Le conseguenze sul campo sono state devastanti, anche per Msf: «Oltre alla fame dovuta alla mancanza di generi alimentari sufficienti, mancavano le medicine, le strutture, il personale. Questo ci ha portato a dover compiere scelte difficili, decidere chi potevamo curare e chi non ce l’avrebbe fatta».

«IDENTITÀ NEGATA»

Uno degli aspetti più drammatici del conflitto è stato, per Marchiò, la distruzione sistematica delle case, degli oggetti e persino delle tombe dei palestinesi. «In questo senso si parla di identità negata: quando un Paese colpisce i centri abitati senza dare il tempo di portare via nulla, quando i sacchi dei corpi non riconosciuti da nessuno si ammassano sempre più numerosi, quando i luoghi di memoria vengono bersagliati dai raid aerei, l’intento è quello di cancellare un popolo dalla Storia». Dall’inizio della fragile tregua sono venuti alla luce centinaia di cadaveri rimasti sotto le macerie per mesi «a Rafah — ha spiegato la volontaria — in 48 ore sono stati recuperati 120 cadaveri. In Palestina oggi il 68% delle strade é distrutto, l’88% delle scuole non esiste più, il sistema sanitario ha operato oltre il collasso per mesi».

LA TENACIA

Eppure Marchiò ha visto in quella terra martoriata esempi di resistenza, di ostinato attaccamento alla propria terra e alla sua gente, che non si sarebbe mai aspettata: «Ho visto famiglie che vivevano in tende di fortuna sulle macerie della propria casa distrutta, ho visto colleghi che hanno perso tutta la famiglia nei bombardamenti tornare al lavoro dopo tre giorni di pianto, ho visto bambini cambiare tendopoli 15 volte in 15 mesi e non arrendersi. Spesso si dice che i palestinesi siano un popolo coraggioso e resistente, non sono parole al vento. È così».

OGGI

«Oggi la guerra é tutt’altro che finita: la tregua temporanea non ha fermato esplosioni di violenza, ma sicuramente ha reso un minimo più vivibile la vita in quella gabbia a cielo aperto che è la Striscia, dove terra, acqua e aria sono controllate da Israele». Con l’arrivo degli aiuti umanitari anche le organizzazioni stanno ricostruendo una rete di servizi minimi: «C’è un disperato bisogno di riabilitazione psicologica, chirurgia plastico-ricostruttiva e della medicina di base». Da qui l’invito con cui Marchiò ha concluso la serata a «non distogliere lo sguardo, a non pensare che l’orrore sia finito a Gaza come in Cisgiordania, a non voltarsi dall’altra parte».





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