«Il grande amico di Israele», come si è autodefinito, ha parlato. E come al solito, lo ha fatto senza troppi riguardi per il senso della misura e del pudore. Donald Trump, l’uomo che ha trasformato i grattacieli in un’estensione del proprio ego, oggi sogna di trasformare Gaza in un resort di lusso. Una «Riviera del Medio Oriente», dice lui. Forse con casinò, campi da golf e alberghi a cinque stelle, in puro stile Trump Organization. Il dettaglio trascurabile? Le 40.000 vittime palestinesi sotto quelle macerie: uomini, donne, vecchi, bambini. Molti dei quali sono ancora lì sotto, in quell’inferno di ruderi e cemento.
Trump, prima che presidente, è stato un immobiliarista figlio di un immobiliarista. Il padre Fred Trump aveva accumulato una fortuna costruendo alloggi a prezzi accessibili finanziati dal governo. Dal Grand Hyatt di New York ai numerosi grattacieli che portano il suo nome, come la Trump Tower, il grattacielo – mausoleo sulla Fifth Avenue di Manhattan, davanti a Tiffany e a due passi dalla cattedrale di Saint Patrick, “The Donald” ha costruito la sua immagine pubblica e politica sulla fama di magnate immobiliare, un marchio che ha consolidato a partire dagli anni ’70. La sua carriera nel settore è stata segnata da grandi successi, fallimenti clamorosi e un uso strategico del proprio nome come brand. Dunque la distruzione della Striscia, per lui, non è una tragedia, ma un’opportunità di investimento. Del resto i piani segreti per trasformare Gaza in un resort circolano in Israele da prima della sua presidenza. Ma se Biden non si nemmeno sognato di rivelarli, per Trump non ci sono stati problemi.
Nella sua prospettiva liberista e naif che ignora il diritto dei popoli alla propria terra Gaza è solo un terreno da bonificare, una zona da sgomberare per far posto a «qualcosa di talmente bello che nessuno vorrà più tornare». L’idea è chiara: portare via i palestinesi e sostituirli con turisti danarosi, possibilmente occidentali. Perché i poveri, si sa, rovinano il panorama.
Non è chiaro con quale diritto Trump – che ha già ricevuto la critica unanime a quella trovata da tutti gli Stati del Medio oriente – pensi di poter «acquisire» Gaza. Ma si sa, l’ex presidente non ha mai avuto troppi problemi con il concetto di proprietà. Costruire, abbattere, ricostruire: così ha fatto con i suoi hotel, così immagina di fare con un’intera striscia di terra. E se la gente del posto non avrà dove andare, poco male: secondo lui, troveranno di meglio altrove.
Il costruttore di torri crede di poter plasmare il mondo come fosse Manhattan. E come sempre, scambia la brutalità per pragmatismo, l’arroganza per visione. «Prenderemo Gaza e la svilupperemo», dice. In effetti, è quello che si fa con i terreni espropriati. Peccato che qui non si parli di una speculazione edilizia, ma di un popolo che, con tutti i suoi drammi, esiste ancora. Anche senza l’approvazione di Donald Trump.
In passato, la Striscia di Gaza ha visto lo sviluppo di alcune strutture turistiche locali, come il resort Al-Bustan, situato sulla spiaggia a nord di Gaza City. Questo complesso, dotato di ristoranti, caffè e piscine, offriva un’atmosfera conforme ai valori islamici locali, attirando circa 800 visitatori al giorno. Tuttavia, tali iniziative erano limitate e destinate principalmente alla popolazione locale, senza ambizioni di trasformare l’area in una destinazione turistica internazionale.
Non risultano precedenti progetti su larga scala mirati a trasformare Gaza in una “Riviera del Medio Oriente” o in un resort di lusso per turisti internazionali, in stile Mar-al Lago come proposto recentemente dall’ex presidente Donald Trump. Le iniziative passate erano focalizzate su piccoli sviluppi locali, senza coinvolgere piani di rilievo internazionale o proposte di reinsediamento della popolazione palestinese.
Di fronte a questo cinismo, Netanyahu applaude. I due si intendono. Trump è l’americano che dice quello che altri non osano dire, senza nemmeno accorgersi della sua brutalità. Il problema è che stavolta non si tratta di grattacieli da abbattere per fare spazio a un centro commerciale. Qui si parla di una terra martoriata, di un popolo sradicato, di un dolore che non si cancella con il cemento fresco.
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