Prosa di Rocco Giudice. Foto di Martino Ciano
Dopo una lunga trafila di giorni, eccoci arrivati. Il bello è – lo sappiamo senza bisogno ci venga detto o che qualche segno scorto in precedenza abbia a ammonircene – che non sembra la conclusione di qualcosa che continuerà, anche se non è dato stabilire come. Né dove. Né per quanto. Ma queste sono cose che non dipendono da noi: così, non ci badiamo più.
Qualcuno dei miei compagni di colonna piange sottovoce. Un altro trema come avesse freddo – perché la mia paura non vuole credere alla sua. Io guardo tutto con rassegnazione: con rassegnata e timida ostinazione, può darsi: non riconosco le mie reazioni, non voglio averci niente a che fare perché non offuschino le mie percezioni: o esse cambiano, come tentativi di trovare la chiave per aprire l’ombra in cui mi muovo. Ma è inutile: e capisco che indovinare o inventarsi una soluzione non renderebbe le cose più accettabili. O più chiare.
La scorta, invece, sembra molto soddisfatta dell’effetto complessivo: si danno di gomito, accennano, annuiscono sussurrando brevi frasi sollevando il mento per indicare l’uno o l’altro di noi. Solo uno tiene lo sguardo fisso su di me. Come mi avesse conosciuto a fondo. Ma io non ricordo nulla di lui. Non so se devo sentirmi in colpa o almeno in questo caso, io debba sentirmi bene, esente da imputazioni al di là di quanto esse possano essere fissate in parole e queste, essere così definitive da potermi essere mosse da uno sguardo: ma è lo stesso per me come per chiunque sia il tizio che mi tiene nei suoi occhi, per quello che conta questa specie di intesa nel rispetto dei ruoli che lascia ognuno sicuro di sé.
Un funzionario dall’aspetto impeccabile e dai modi disinvolti nell’assolvere a gesti misurati, così che s’intuisce di provata esperienza nel settore, sebbene la familiarità con gli atti che gli incombono lo abbia predisposto a una freddezza scostante che non concede nulla di più né a noi né al gentile pubblico, elenca il nostro stato di servizio. Benché al corrente di tutto, non pensavamo di avere solo note a carico. Questa cecità figura nella lista come una forma di presunzione: di sottigliezza dialettica è addebitato lo stupore che la nostra ignoranza sia così classificata. Nulla delle nostre reazioni sfugge all’operatore, un tipo che ha incollato la testa al teleschermo, seguendo tutte le indicazioni dell’algoritmo senza staccare gli occhi dal monitor.
Un altro ci chiede di allungare le braccia e poi, ci serra i polsi con un attrezzo che provoca una leggera scossa. Il passato, che ci tiene fra le mani, è venuto a prendersi le nostre: per condurci, come bimbi, in un luogo privo di innocenza. Lo fa per mezzo di questo suo agente insospettabile, con cui nulla i nostri ricordi hanno da spartire: fa scattare la chiusura con un gesto lezioso – voilà! –, la lingua fra le labbra come assaporasse la squisitezza che le sue, di mani, imbandiscono. Il suo viso è levigato e pungente come desse forma passabilmente umana a quella scossa elettrica. Preferisco girarmi dall’altra parte: questo sembra offendere quello scrupoloso esecutore: con uno strattone, mi spinge bruscamente verso la porta.
Ci è fatto percorrere un corridoio: squallido, sembra la toilette di un mattatoio. Tondo, scivoloso, con muffe e muschi che lo tappezzano. Si allunga in linea retta, con lievi discese seguite da lenti scarti verso l’alto. Un budello, un tubo, in effetti. Nulla permette di avere una percezione di cui essere certi e meno ancora, di risalire alla natura del luogo o alla forma dell’edificio in cui questo tunnel è collocato. Una finestra tonda come un oblò fa vedere per un attimo cielo e mare – ci tengono d’occhio.
Una candela in mano, che illumina poco e meno ancora scalda, avanziamo, lunga e quasi del tutto silenziosa fila, se si esclude l’affanno della respirazione inframmezzato da qualche rantolo o lamento.
Non che si potesse sperare di farla franca: questo, no. La speranza scompagnata dalla pietà non ha molta strada da fare. Del resto, assai prima di ridursi a questo punto, si era perso l’esercizio di queste virtù – e chi ricorda se fu prima o dopo aver sprecato altre doti necessarie a spuntarla. Forse, è perfino logico essere delusi che sia finita in un modo tanto miserabile. Constatare che non si poteva meritare niente di diverso: una condanna solenne seguita da una esecuzione su una pubblica piazza, fra insulti che piovono da tutte le parti, recapitati da voci note e ignote: o di nascosto, in uno stanzino a pianterreno, come si fa con bestiole da mettere a bollire o ad arrostire, che basta un trinciapolli.
Qualunque altro finale sarebbe stato meglio di una conclusione pateticamente beffarda: ma la beffa è che nessun finale più conforme alla nostra sorte sarebbe andato bene. Ma noi, tutto sommato, non ci perdiamo d’animo. Non ispiravamo simpatia e ora e perciò, non ci aspettiamo comprensione e non vorremo mai pietà, finché restiamo abbastanza lucidi, da chi ha visto appagato il disprezzo che ha sempre mostrato verso di noi.
L’euforia silenziosa di cui fanno sfoggio le facce degli spettatori appostati lungo il cammino nessuna sofferenza aggiunge al nostro sconcerto e all’angoscia di quello che ci sta per succedere, sensazioni debilitate in fitte che sentiamo, di tanto in tanto, scuoterci solo per interrompere la monotonia che l’ambiente stesso sembra esigere.
Non è chiaro se sentirsi indifferenti a quello che ci circonda sia un vantaggio, ma porsi il problema è solo pura teoria: resta ancora un po’ di spazio, benché solo in teoria anch’esso, per questo genere di questioni: la distanza con la pratica, che non ci ha mai troppo interessato, è talmente ridotta, che non è in questione tanto da metterla alla prova.
Scopriamo, per la prima volta, forse solo perché ci troviamo così lontani da qualunque dettaglio possa connettersi a circostanze sperimentate e a luoghi conosciuti, che distinguerle è molto difficile. Come le intenzioni: come le omissioni. Il senso di queste parole ci sfugge totalmente, le ricordiamo come occasioni per un rovello che è facile zittire.
Ci fermiamo di fronte a uno sportello. C’è chi ha tenuto la candela fino a consumare il moccolo, bruciandosi le mani. “Non piangere, è inutile” mi consiglia uno dietro di me. Ne sono sorpreso e poi, offeso: a me! Non piangerei neppure se mi dicessero “Vai. Sei libero.” La libertà non è più un valore, se mai lo è stato: o un mezzo, senza un criterio di condotta per usarlo bene. O una via per avvicinarsi a qualcosa che valesse – più di essa? Comunque, sono riflessioni prive di senso, fuori luogo. E il tempo che rimane è ancora meno.
Va bene, allora. Siamo qui apposta. Si cominci.
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