Come il lettore tempista sa, la rivista Lisander, nata dalla collaborazione tra Tempi e Istituto Bruno Leoni, ha qualche tempo fa dedicato un focus alla mutazione e alla crisi dell’istituzione universitaria. Dal dialogo iniziato dalla riflessione di Lorenzo Ornaghi e dal successivo dibattito sono emersi diversi spunti critici. Tra questi, spicca l’idea che la crisi dell’università derivi anche dalla mutazione del suo dna, in qualche modo: nata per allevare classi dirigenti, individui in grado di vivere responsabilmente la propria libertà e la propria esistenza, si è giunti a qualche cosa d’altro. I motivi sono i più diversi. Il punto, ha notato Ornaghi realisticamente, in un mondo in continua e radicale trasformazione, è che non sappiamo effettivamente neanche di che tipo di classi dirigenti si avrà bisogno nel prossimo futuro. Ciò significa che non è facile nemmeno immaginare quali contorni dare all’università del domani.
Fatto sta che una delle preoccupazioni emerse in svariati interventi è la seguente: se l’università non se la passa bene, è perché a essere in crisi è la rilevanza delle discipline umanistiche, sempre più viste come un orpello anziché come il cuore pulsante dell’università medesima. Il tema è al centro di un libro collettaneo da poco pubblicato dall’editore Rubbettino: Università addio. La crisi del sapere umanistico in Italia. Ne parliamo con uno dei curatori, Giovanni Belardelli, già ordinario di Storia del pensiero politico all’Università di Perugia.
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Professore, già l’introduzione di Ernesto Galli della Loggia pone la questione molto chiaramente: il sistema dell’istruzione è ormai dominato dalla ragione strumentale e da logiche tecnico-scientifiche.
Certo, ormai da molto tempo l’intero sistema dell’istruzione penalizza ciò che non è immediatamente utile, considerando nei fatti che la cultura umanistica non serva. In effetti se l’“utile” viene definito soltanto in senso immediatamente pratico-applicativo, la conoscenza delle proprie radici culturali e la formazione della personalità, che sono al centro delle discipline umanistiche, diventano superflue e possono essere solo tollerate all’interno del sistema educativo. La cosa bizzarra è che poi è tutto un meravigliarsi sui giornali e nei dibattiti in tv quando una ricerca del Censis definisce la scuola italiana una «fabbrica degli ignoranti» oppure quando sperimentiamo direttamente come la storia – compreso non dirò l’anno ma grosso modo il periodo di formazione dello Stato nazionale – sia diventata una terra incognita per porzioni crescenti delle nuove generazioni.
Il contributo di Stefano De Luca parla emblematicamente della «gabbia d’acciaio della (cosiddetta) qualità»: il valore di uno studioso, e delle università, viene misurato da parametri quantitativo-burocratici. Qual è il risultato sulla qualità effettiva di un ricercatore e della stessa istituzione universitaria?
I misuratori quantitativo-burocratici non ci dicono nulla sulla qualità di un ricercatore e delle sue pubblicazioni. Un articolo non è affatto originale e importante solo perché ospitato in una rivista di classe A o perché pubblicato in inglese. Basare la valutazione su criteri meramente esteriori, formalistici e burocratici ha avuto dunque conseguenze molto negative. Soprattutto i giovani studiosi, che devono avanzare nella carriera e magari ancora entrare nell’università in modo stabile, sono spinti a dare a tali criteri un’enorme attenzione, perché sono questi che contano e non la qualità della loro ricerca e di ciò che essi, sulla base della ricerca, scrivono. Pensiamo al fatto che c’è ormai tutto un mercato di libri in gran parte inutili ma che sono pubblicati in inglese, grazie ai fondi del dipartimento o di qualche altra istituzione. Quei libri non avranno una vera circolazione internazionale ma soltanto un’utilità per la carriera dell’autore. Non parliamo poi del fatto che i criteri dell’Abilitazione nazionale privilegiano articoli e saggi a detrimento delle monografie, cioè dei libri frutto di lunghe e approfondite ricerche. Purtroppo si è ormai costretti a suggerire ai giovani di pubblicare articoli in riviste di classe A invece di “perdere tempo” a scrivere un libro.
Nel suo contributo si focalizza sui cambiamenti occorsi alla carriera universitaria. Quali sono i passaggi cruciali di quella che non esita a definire «una lenta marcia verso il peggio»?
Ciò che è avvenuto negli ultimi anni, pur nel mutare dei meccanismi che regolano la carriera universitaria, è stato il prevalere pressoché assoluto del localismo. Un prevalere che era largamente prevedibile, e forse anche voluto, data l’introduzione di regole che privilegiavano chiaramente i candidati locali. Fatto sta che oggi tanti professori universitari si sono laureati in un certo Ateneo, lì hanno fatto il dottorato, poi sono diventati ricercatori, associati, ordinari. Sempre più il percorso tipico è questo, con quale vantaggio per la qualità della docenza lo capisce chiunque. Si aggiunga a ciò il fatto che il meccanismo dell’Abilitazione nazionale, essendo a numero aperto, ha di fatto favorito l’abilitazione anche di candidati di non eccelso valore.
Ne L’abolizione dell’uomo (1943), Clive Staples Lewis scrive: «Il compito degli educatori moderni non è di sfrondare le giungle, ma di irrigare i deserti». A giudicare da quanto spiega nel suo articolo Federico Poggianti, sembra che l’Unione Europea segua una terza strada: quella di uniformare la ricerca, promuovendo esclusivamente alcuni temi dall’alto tasso ideologico. Qual è il suo giudizio in merito?
I finanziamenti europei alla ricerca privilegiano i settori tecnico-scientifici, ma questo è del tutto naturale. Ciò che naturale non è ma appare come il frutto di una scelta politico-ideologica è il fatto che, all’interno del settore SSH (Social Sciences and Humanities), la parte di gran lunga maggiore dei finanziamenti vada alle scienze sociali con una evidente penalizzazione delle discipline che hanno a che fare con le specifiche identità nazionali, che l’ideologia di Bruxelles, chiamiamola così, certo non ama. Anche qui la storia ne esce penalizzata.
Università addio, Giovanni Belardelli, Ernesto Galli Della Loggia, Loredana Perla, Rubbettino, 142 pp, 15 euro
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