Il fact-checking definitivo della versione del governo sul caso Almasri

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Nella prima parte della sua informativa, Nordio ha affermato che il ministro della Giustizia non sarebbe un mero esecutore delle richieste della CPI o, come detto da lui, «un passacarte». 

Per dimostrare ciò, Nordio ha fatto riferimento all’articolo 2 della legge 237 del 2012, quella che detta le norme per l’adeguamento dell’ordinamento italiano a quello della CPI. In base a questo articolo, il ministro della Giustizia è il responsabile dei rapporti dell’Italia con la CPI e «ove ritenga che ne ricorra la necessità, concorda la propria azione con altri Ministri interessati, con altre istituzioni o con altri organi dello Stato».

Al contrario di quanto sostiene Nordio, questo non vuol dire però che il ministro della Giustizia possa sindacare sui mandati d’arresto della CPI. 

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L’Italia è tra i fondatori della Corte penale internazionale. Con la sottoscrizione e la ratifica dello Statuto di Roma, ossia il trattato con cui è stata creata la CPI, il nostro Paese ha riconosciuto la sua giurisdizione, assumendo l’obbligo di cooperare «pienamente con la Corte nelle inchieste ed azioni giudiziarie che la stessa svolge per reati di sua competenza», come previsto dall’art. 86 dello Statuto stesso, quindi anche dando seguito ai suoi mandati di arresto. L’articolo 4 della legge 237 del 2012, uno degli altri articoli citati da Nordio, specifica che «il ministro della Giustizia dà corso alle richieste formulate dalla Corte penale internazionale, trasmettendole al procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma perché vi dia esecuzione». Dunque, il ministro è di fatto un esecutore delle richieste – e quindi dei mandati d’arresto – della CPI. 

Lo stesso concetto è ribadito (articolo 59) dalla legge 232 del 1999 di ratifica ed esecuzione dello Statuto di Roma, con cui è stata istituita la CPI. In base a questa legge, lo Stato che riceve una richiesta di fermo, di arresto e di consegna prende «immediatamente» provvedimenti per far arrestare il soggetto secondo la propria legislazione. Questo carattere di immediatezza dell’azione del ministro è prescritto sempre dall’articolo 2 della già citata legge 237 del 2012, secondo cui «il ministro della Giustizia, nel dare seguito alle richieste di cooperazione, assicura che l’esecuzione avvenga in tempi rapidi». E non potrebbe essere altrimenti. 

La Corte penale internazionale è un tribunale per crimini internazionali, con sede a L’Aia, nei Paesi Bassi, che ha il compito di perseguire le persone accusate dei crimini più gravi a livello internazionale, quali il genocidio, i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità. Come si legge sul sito ufficiale, la Corte penale internazionale non possiede una propria forza di polizia e per questo «si basa sulla cooperazione con i Paesi di tutto il mondo per ottenere sostegno, in particolare per effettuare arresti, trasferire gli arrestati al centro di detenzione della Corte penale a L’Aia, bloccare i beni degli indagati ed eseguire le sentenze». 

Tornando all’Italia, il ministro della Giustizia ha un potere di valutazione discrezionale solo riguardo alle richieste di estradizione. L’estradizione è il procedimento con cui uno Stato consegna un individuo presente sul suo territorio a un altro Stato che ne abbia fatto richiesta, per dare esecuzione a una pena detentiva o a un processo. L’articolo 697 del codice di procedura penale dispone, appunto, che «il ministro della Giustizia non dà corso alla domanda di estradizione quando questa può compromettere la sovranità, la sicurezza o altri interessi essenziali dello Stato». Ma questo non è il caso di Almasri: sul carceriere libico pende un mandato di arresto della CPI, con la quale l’Italia ha l’obbligo di cooperare, e non di un altro Stato. 

In ogni caso, in passato altri Stati aderenti alla CPI hanno disatteso i mandati d’arresto della Corte. A settembre 2024, per esempio, la Mongolia non ha eseguito il mandato d’arresto nei confronti del presidente russo Vladimir Putin disposto dalla CPI. Più indietro nel tempo, a giugno 2015, il Sudafrica si era rifiutato di catturare il presidente del Sudan, Omar Al Bashir, accusato del crimine di genocidio, violando così lo Statuto di Roma. Nel 2016 il Sudafrica annunciò di volersi ritirare dallo Statuto, ma nel 2017 revocò la notifica, restando così sottoposto alla giurisdizione della Corte. 

Il fatto che altri Stati abbiano disatteso i mandati d’arresto della CPI non giustifica l’Italia nel caso di Almasri. Anzi, in base all’articolo 87, se uno Stato che fa parte della CPI «non aderisce ad una richiesta di cooperazione della Corte, […] impedendole in tal modo di esercitare le sue funzioni ed i suoi poteri», la Corte può fare ricorso all’Assemblea degli Stati parti o al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.



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