Genova: Omicidio Nada Cella, il processo non si ferma

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È iniziato oggi, giovedì 6 febbraio, al tribunale di Genova il processo per il delitto di Nada Cella, la segretaria chiavarese massacrata, all’età di 24 anni, il 6 maggio 1996 a Chiavari, nello studio di via Marsala del suo datore di lavoro, il commercialista Marco Soracco.

Imputati Annalucia Cecere, accusata di omicidio, lo stesso Soracco e la madre di lui, Marisa Bacchioni, accusati di favoreggiamento. Il procedimento per false dichiarazioni al pubblico ministero, Gabriella Dotto, è stato stralciato e rientrerà nell’eventuale processo di appello. Le indagini furono riaperte anche grazie alle intuizioni della criminologa Antonella Pesce Delfino.

Soracco unico imputato presente in aula

Soracco è stato l’unico fra gli imputati a presentarsi in aula. Poco prima di entrare ha dichiarato di essere vittima di illazioni da 29 anni, ritenendo giusto esserci oggi. Il commercialista è assistito dall’avvocato Andrea Vernazza, il quale si è visto respingere dalla Corte d’Assise, presieduta da Massimo Cusatti, l’eccezione di legittimità costituzionale riguardante il rinvio a giudizio della Corte d’Appello nei confronti dei tre. Il processo, dunque, continua, con udienze già programmate fino a luglio. La famiglia di Nada Cella è assistita dall’avvocato Sabrina Franzone, che rappresenta la madre, Silvana Smaniotto, oggi assente, e dall’avvocato Laura Razetto, che assiste la sorella Daniela, presente in aula.

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«Si riparte da zero»

«Si riparte da zero». Ecco le parole che Stefano Signoretti, capo della squadra mobile di Genova nel 2021, ha riferito ai suoi uomini quando è stato riaperto il caso. Signoretti, oggi a capo della mobile di Roma, lo ha raccontato sedendo al banco dei testimoni.

«Il nostro approccio – ha riferito Signoretti in aula – fu quello di ripartire da zero, come se il delitto fosse avvenuto il giorno prima». Il lavoro che lo stesso poliziotto ha definito immane, ha visto impegnato l’intero reparto della mobile alle prese con la ricerca dei reperti dell’epoca, sparsi tra i commissariati di Genova e Chiavari e tra le due procure. Nel corso delle indagini durate mesi sono state sentite molte testimonianze e per alcuni dei soggetti interessati sono state disposte le intercettazioni.

«Abbiamo dovuto farlo perché da subito – ha sottolineato Signoretti -, abbiamo avuto difficoltà ad acquisire informazioni perché le persone erano reticenti, si è sfiorata l’omertà perché non dicevano quello che sapevano».

Il bottone

La svolta nelle indagini è arrivata con il rinvenimento dei cinque bottoni appartenuti a Cecere, simili, anche se apparentemente diversi, da quello rinvenuto, sporco di sangue, sulla scena del delitto, sotto il corpo della vittima, trovata nello studio di Soracco in una pozza di sangue. Nel tentativo di salvarle la vita i sanitari intervenuti spostarono il corpo e alcuni oggetti all’interno della stanza, tra cui una scrivania, inquinando la scena del crimine.

«Ovviamente la priorità era quella di soccorrere la vittima, si capì subito che era stata vittima di un’aggressione». Tornando al bottone, Signoretti spiega che fin da subito era sembrato «riconducibile all’omicida», proprio per la posizione in cui fu ritrovato, «ma né il titolare dello studio né i genitori della vittima ne hanno riconosciuto la proprietà». I bottoni trovati a casa di Cecere furono ritenuti diversi da quello trovato sulla scena del delitto, ma una recente perizia ha svelato che si tratterebbe dello stesso modello, solo che a quello ritrovato nello studio del commercialista mancava una cornice di plastica che lo ricopriva, rendendolo alla vista diverso da quelli trovati a casa dell’imputata.

Il Dna

Nel 1996 le tecniche oggi note di rilevazione di prove non erano evolute come quelle odierne, a partire dal Dna. Come ha spiegato Signoretti, «all’epoca non era contemplato per la ricerca della prova, l’evoluzione arrivò a metà degli anni 2000, l’approccio si è evoluto negli anni. Oggi in generale c’è una maggiore attenzione a non inquinare la scena, all’epoca l’approccio era più approssimativo, si cercava il gruppo sanguigno, non il profilo biologico».

Come ricordato dall’ex capo della squadra mobile di Genova, Annalucia Cecere fu indagata per alcuni giorni seguenti al delitto, ma la sua posizione venne stralciata dopo poco. «A sfiorare Annalucia Cecere – ha detto Signoretti – furono la squadra mobile e i carabinieri di Sestri Levante». C’è un’informativa del 27 maggio del 1996 in cui si riporta l’informazione riservata in cui emergeva che una donna aveva rappresentato ai carabinieri i sospetti su Cecere. «Esistono anche due verbali di due testimoni che indicano la presenza sotto lo studio, in un orario compatibile con l’omicidio, di una giovane donna, descritta con una mano fasciata da cui si intravedevano tracce di sangue», ha detto Signoretti.

Dopo il rinvenimento dei bottoni è stata disposto di intercettare Anna Lucia Cecere, nel frattempo le indagini si sono concentrate sugli elementi raccolti in passato. «Sapevamo dell’attività nei confronti di una donna, archiviata in modo repentino, ma non avevamo altre informazioni», ha detto il poliziotto. Nel 1996, sulla base delle testimonianze fu creato un ‘photo-fit’, antesignano del moderno identikit, «fu fatto sulla base della descrizione fatta all’epoca e i carabinieri rilevarono la somiglianza con le fotografie di Anna Lucia Cecere», ha aggiunto Signoretti.

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Le segnalazioni anonime

Nel frattempo le forze di polizia ricevevano segnalazioni molto spesso anonime, su tutte una donna, proprietaria di una concessionaria, si presentò in commissariato a Chiavari chiedendo di rimanere anonima perché temeva ripercussioni per la sua attività commerciale. Ai poliziotti chiese che fine avessero fatto le informazioni già date ai carabinieri. Oltre a questa segnalazione ne arrivò un’altra dopo il delitto in cui una voce faceva riferimento a una donna con una giacca senape in sella a un motorino nero allontanarsi dalla scena del crimine. In quegli stessi giorni, un avvocato che di cognome fa Cella, ma non è parente della vittima, disse di avere ricevuto una chiamata anonima su una certa Anna Lucia, anche lei vista in sella a un motorino nero, che indossava una giacca color senape. «La polizia all’epoca fece un accertamento per verificare quante persone di nome Anna avessero uno scooter a Chiavari, ne risultarono due, una era Anna Lucia Cecere», ha detto Signoretti. Su questo punto della sua deposizione, l’avvocato Gianni Roffo, che assiste Cecere insieme alla collega Susanna Martini, ha fatto presente al poliziotto che nel 2021 fu sequestrato uno scooter di proprietà dell’imputata, oggi trasferitasi a Boves, in provincia di Cuneo, ma che il mezzo è di colore azzurro, non nero come nella descrizione fatta al telefono all’epoca.

La telefonata

Un altro elemento è l’intercettazione telefonica tra Marisa Bacchioni e una voce anonima. Durante il colloquio, l’anonima diceva a Bacchioni: «L’ho vista che andava via col motorino, l’ho vista tutta sporca che metteva tutto sotto la sella. L’ho salutata e manco mi ha guardata. Le dico la verità. L’ho vista quindici giorni fa nel carruggio e non mi ha nemmeno guardata». Questa intercettazione, nonostante le opposizioni della difesa. è stata definitivamente inserita questa mattina agli atti del processo.

 

Al termine dell’udienza a parlare è stata Daniela Cella, sorella di Nada che, risalendo le scale che dall’Aula Magna del tribunale portano all’uscita ha commentato: «Questo processo è come queste scale: un gradino alla volta».

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