Consumi, non possiamo più fare a meno di acquistare

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Sono frequenti le opinioni critiche nei confronti del mondo dei consumi, raramente, però, i consumatori condividono queste posizioni.

D’altronde, come sarebbe la loro esistenza senza i numerosi benefici che i beni di consumo sono in grado di offrire? Come farebbero cioè a sopravvivere, ma anche a divertirsi e a trascorrere piacevoli momenti di convivialità con gli amici o con i familiari? E come farebbero a comunicare agli altri chi sono? Come farebbero dunque a effettuare scelte d’acquisto in grado di definire con notevole precisione la loro identità agli occhi del prossimo?

Rinunciare a consumare non è pertanto possibile e di questo sono di solito pienamente consapevoli tutti coloro che consumano. Il loro problema, semmai, è che non sempre riescono a farlo quanto vorrebbero.

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Va considerato, d’altronde, che l’economia italiana è entrata da alcuni anni in una condizione decisamente critica e ciò ha imposto pesanti limitazioni alle scelte, perché molte persone hanno dovuto fare i conti con una riduzione del reddito a disposizione, causata principalmente dalla forte crescita dei prezzi in un contesto inflattivo.

Foto: Shutterstock

E va anche considerato che gli atti d’acquisto sono da sempre fortemente influenzati dalla percezione che gli individui hanno di sé e della loro collocazione nel mondo.

Poiché negli ultimi anni l’intero Occidente è entrato in una fase di declino culturale, ciò ha determinato una riduzione della propensione verso la spesa.

Le persone, infatti, hanno raggiunto un livello di benessere che considerano tutto sommato soddisfacente, ma non condividono più progetti e ideologie in grado di costituire un tessuto sociale capace di aggregarle e, allo stesso tempo, di spingere la società verso nuovi traguardi, come succedeva qualche decennio fa, quando la condivisione di progetti di sviluppo di tipo espansivo ha trascinato l’economia verso la crescita e un vero e proprio “boom” consumistico.

Oggi, invece, a eccezione delle merci che appartengono a settori in grado di offrire reali innovazioni (come per esempio quello dell’elettronica di consumo), la maggior parte dei prodotti deve fare i conti con un modesto livello di sensibilità dei consumatori nei confronti delle proposte d’acquisto che vengono loro formulate.

Quello che i consumatori solitamente fanno, in una situazione di crisi come quella odierna, è provare a “tirare la cinghia”, cioè tentare di mantenere il più possibile il livello di benessere raggiunto e sperare che nei prossimi anni la situazione migliori.

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Vengono utilizzate a tale scopo diverse strategie: ridurre le spese considerate eccessive o quelle che riguardano prodotti visti come non essenziali (abbigliamento, cosmetici, vacanze, ecc.); attingere ai risparmi accantonati in precedenza; fare ricorso al credito al consumo erogato da banche e società finanziarie; approfittare il più possibile delle promozioni e delle offerte speciali; scegliere sugli scaffali dei supermercati prodotti delle marche delle catene di distribuzione (che solitamente sono venduti a un prezzo inferiore rispetto a quelli delle marche importanti); acquistare prodotti usati; recarsi presso i venditori ambulanti e i mercati, ma anche presso gli hard discount, gli outlet, le catene di negozi low cost, oppure andare direttamente dai produttori. Insomma, la tendenza è quella di diventare maggiormente attenti e selettivi.

Nuovi stili di acquisto con molteplici impatti socio-ambientali

È una patologia, ed ha un nome: «compulsive shopping disorder», il disturbo da shopping compulsivo, che è aumentato nel corso degli ultimi anni in relazione a qualsiasi tipologia di merce, da quando l’e-commerce ha soppiantato il retail tradizionale. Generando, quindi, l’esplosione di un ulteriore fenomeno: il fast e-commerce.

Il fast e-commerce e la sociologia degli acquisti (e dei resi)

Lasciamo stare, in questa sede, le analisi sociologiche sulle cause (colpe) che hanno portato a tutto ciò: l’avvento dei grandi player mondiali del fast e-commerce, la pandemia, le spesso troppe lunghe catene di intermediari che hanno creato aumenti ingiustificati dei prezzi, solo per fare qualche esempio.

Quello che interessa analizzare, in questa sede, sono gli aspetti ambientali non solo (e non tanto) dell’e-commerce in quanto tale, ma di una delle sue perverse conseguenze: la questione dei resi. Gratuiti per i consumatori, che devono essere indotti a comprare (compulsivamente), ma dannosi per l’ambiente.

I fenotipi e il minimo comun denominatore

Non c’è un “minimo comun denominatore sociologico” per i nuovi “buyers”.

C’è il “compulsive shopper” – indotto, invogliato e financo incentivato a comprare (per comprare) – che fa acquisti in serie, ma poi si fa pervadere da una sorta di “senso di colpa”, e una volta arrivata l’enorme quantità di merce ordinata, restituisce tutto (o quasi).

Poi c’è il “wardrober” (influencer o presunto tale), che acquista un capo per indossarlo a un evento o postarlo sui social con l’hashtag #OOTD (outfit of the day) e restituirlo poco tempo dopo, una volta che la sua “funzione” di apparire è stata appagata.

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C’è anche il “bracketer“, il fenotipo di persona che acquista diverse taglie o colori dello stesso capo, riservandosi il diritto di provare tutto e tenere solo ciò che gli sta meglio.

C’è, invece, un “minimo comun denominatore sociale”: tutti quanti questi garruli fenotipi di consumatori (ai quali si affiancano, naturalmente gli scammers, i truffatori) sono accomunati dal fatto che effettuano i resi. Chi realmente, chi – gli scammers – per finta…

I numeri del fenomeno

Secondo la NRF (la «National Retail Federation», la federazione americana dei commercianti), nel solo 2023 sono stati restituiti in modo fraudolento prodotti per circa cento miliardi di dollari (che rappresenta il 13,7 per cento dei beni acquistati e restituiti dai clienti). Un dato in aumento rispetto al passato, e l’outlook per il futuro non promette meglio…

Secondo l’indagine, per ogni miliardo di dollari di vendite, il rivenditore medio sostiene 166 milioni di dollari in resi di merce. Si è inoltre scoperto che, per ogni 100 dollari di merce restituita accettata, i rivenditori perdono 10,30 dollari a causa di frodi sui resi.

I rivenditori – ha affermato Steve Prebble, Ceo di Appriss Retail, società che si occupa di ridurre le perdite derivanti da frodi e furti nel commercio al dettaglio – “devono riconsiderare i rendimenti come una parte fondamentale della loro strategia aziendale. Il commercio al dettaglio sta affrontando un afflusso di articoli restituiti, ed è venuto il momento di smettere di considerare i resi come un costo per fare affari e di iniziare a vederli come un momento per coinvolgere veramente i propri consumatori”.

More than click: cosa si nasconde a monte del fast e-commerce

La tematica è delicata, perché investe profili:

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  • di diritto dei consumatori;
  • economici (chi ci guadagna);
  • logistici e
  • ambientali.

In relazione al primo punto, e volendo concentrarci su “casa nostra”, occorre sottolineare come il diritto di recesso (o di ripensamento…) rappresenti un’importante facoltà in capo ai consumatori, che nell’ambito degli acquisti online possono esercitarlo restituendo il prodotto entro 14 giorni, senza essere tenuti a fornire alcuna motivazione e ottenendo il rimborso di quanto pagato.

Dal punto di vista economico, a guadagnarci di più sono i trasportatori, che hanno visto aumentare i propri fatturati anche del 25%.
Dal punto di vista logistico (ad esclusione del trasporto), bisogna essere consapevoli che il processo non è così lineare, come potrebbe sembrare a prima vista. Una volta che il prodotto è stato venduto, infatti:

  • chi l’ha fabbricato non entra più in gioco (il reso passa nelle mani di diversi intermediari, subendo molteplici passaggi);
  • il (prodotto) reso deve essere nuovamente trasportato (i guadagni, di cui sopra), controllato, (eventualmente) riparato, (sicuramente) riconfezionato e (di nuovo) rimesso in vendita (forse: se il processo è troppo costoso, infatti, l’azienda può scegliere di mandare il prodotto – di fatto nuovo – direttamente al macero, soprattutto se ha uno scarso valore economico. Cioè spesso…).

Ma il mix fra l’abuso dei diritti dei consumatori, che nel nuovo contesto dello shopping compulsivo (alimentato da chi vuole vendere-vendere-vendere) sconfina nella patologia, cui si è fatto riferimento, la voglia di guadagnare (guadagnare-guadagnare) senza tenere in conto tutto ciò che gira attorno al “mercato del reso” (gli aspetti logistici di cui sopra) comporta gravi ripercussioni sull’ambiente.

Gli impatti socio-ambientali dell’«esperienza di acquisto»

Non è difficile immaginare le conseguenze ambientali della sommatoria di tante piccole azioni. Oltre all’inquinamento atmosferico generato per portare al consumatore un prodotto di cui non ha bisogno, ci sono “quelli [gli inquinamenti] di ritorno”, in una duplice accezione:

  • quello “fisico”, del singolo prodotto (portare un prodotto dal luogo di produzione-stoccaggio a quello dove risiede il consumatore, e ritorno. La “reverse logistic”)
  • quello “psicologico” (il “reso-avanti-indietro” come “life-style”: in realtà un potente circolo vizioso).

Foto: Shutterstock

E non mi riferisco solo alla fase di trasporto, ma anche a quella di packaging e dello smaltimento, senza dimenticare l’aumento dei consumi energetici.

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I dati, leggermente diversi da studio a studio, indicano in ogni caso chiaramente un trend di crescita che sembra non doversi arrestare.

Ma oltre agli aspetti ambientali ci sono quelli sociali: oltre alle patologie, con le quali abbiamo aperto questo contributo, occorre tenere conto delle conseguenze sui piccoli venditori online. Se, infatti, i grandi players mondiali possono permettersi di spalmare i costi dell’enorme mole di resi su un fatturato miliardario, altrettanto non possono fare i piccoli, che non potendo fornire al consumatore la stessa “esperienza di acquisto”, sono costretti a scegliere politiche del reso più drastiche (a pagamento).

Le soluzioni

In un recente studio di Quantis (“Sostenibilità: aggiungi al carrello”), relativo all’e-commerce nel settore fashion in Italia – ma estendibile a tutto l’e-and-fast-commerce in generale –, dopo un’analisi delle cause e degli effetti della nuova era del commercio bulimico online, ci si sofferma sulle 10+1 soluzioni per un e-commerce più sostenibile.
Una sorta di “decalogo con aggiunta” pieno di inventiva, che prevede, in rigoroso ordine di “ranking”, interventi:

  1. sul packaging, che consistono: in investimenti in sistemi di packaging riutilizzabili e con materiali 100% riciclati; nell’alleggerimento del packaging stesso (“un packaging semplice, flessibile e leggero in carta o plastica genera emissioni inferiori fino all’80%”)
  2. sulle modalità di spedizione e consegna “last mile”. Occorrerebbe previlegiare veicoli elettrici, che garantirebbero di diminuire del 72% le emissioni. Ma non solo.
    Si potrebbe ricorrere:
  • a “cargo bikes” (che consentirebbero sostanzialmente di azzerare le emissioni per l’ultimo miglio, riducendo di circa il 15% la carbon footprint della spedizione al cliente), o
  • al ritiro dell’ordine in locker o nel negozio (click & collect), laddove presenti entro un raggio di 5 km dal consumatore, che consente di ridurre dal 5% al 15% le emissioni di gas serra dovute alla spedizione;
  • a tempistiche di consegna più sostenibili (“a parità di prodotto e distanza percorsa, una spedizione next-day genera emissioni di gas serra fino al 20% più alte rispetto ad una consegna standard, a causa della saturazione più bassa dei mezzi”)
  • sulla gestione dei consumi energetici (“l’utilizzo di energia rinnovabile autoprodotta o certificata consente di ridurre le emissioni della logistica di magazzino di circa il 73”) sull’ottimizzazione delle dimensioni dei contenuti e degli strumenti del sito web; sulla necessità di evitare le spedizioni transfrontaliere via aereo,
  • sulla necessità di ridurre il numero dei resi.

Ecco, fra tutte le regole indicate nel decalogo (+1: ormai la Rowling ha fatto scuola), sopra sintetizzate e accorpate per materia, che sembrano improntate più ad una sorta di compromesso fra esigenze economiche e para-mediche (assecondare il nuovo life-style degli acquisti spasmodici) che a motivi ambientali, forse l’unica che potrebbe avere efficacia è proprio l’ultima: ridurre il numero di resi.

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Ma per un motivo diverso da quello sintetizzato nello studio, dove si afferma che «la facilità e i termini del reso sono fattori determinanti per il completamento dell’acquisto online, fino a un reso su quattro potrebbe essere evitato fornendo maggiori informazioni o soluzioni innovative per la scelta della taglia corretta, o informazioni chiare e rappresentative su colore, taglia, fit e composizione del capo, azioni che potrebbero ridurre fino al 20% le emissioni di gas serra dovute ai resi».

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No, per un altro motivo, che ha a che fare con la sostenibilità culturale, di cui abbiamo parlato spesso nelle pagine di Teknoring, che potrebbe avere un effetto positivo allo stesso tempo sugli aspetti ESG dell’acquisto online, che diventerebbe ambientalmente e socialmente più accettabile (la “E” e la “S”), e contribuirebbe alla creazione di una nuova governance (la “G”), a partire da quella personale-familiare.

 

 


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