Il partigiano Alessio era nato nell’anno del congresso di Lione. Dal ‘70 al ‘75 fu alla direzione de l’Unità, più avanti curò l’intero comparto culturale del PCI entrando nell’ultima segreteria del leader più amato e rimpianto. Fu contrario alla Svolta di Occhetto: «Un partito senza un’identità non ha speranza né futuro», diceva. Protagonista anche negli ultimi anni, inquadrando perfettamente la natura della nuova destra incistata al potere
Alla data tonda del secolo mancava meno di un anno, ma il partigiano Alessio se n’è andato prima. Aldo Tortorella era del ‘26, dieci luglio millenovecentoventisei, l’anno del congresso di Lione, quello che vide le tesi di Gramsci imporsi sul massimalismo di Bordiga uscito vincente dalla scissione livornese del 1921. Le date in quella storia e in quella vita contano, e molto.
Per quel ragazzo precoce nato a Napoli e cresciuto tra Genova e Milano aveva significato un’adolescenza e una giovinezza vissute sotto il ricatto e le violenze del regime più odiato. Neppure diciottenne sarebbe stata la scuola filosofica di Antonio Banfi a consolidare una convinzione comunista maturata fino dal liceo. Stagioni drammatiche e decisive nel forgiare il carattere di tante e tanti, lui assieme a un giovane Gillo Pontecorvo organizzava il Fronte della Gioventù, di lì a pochi mesi sarebbe stato arrestato e dopo una fuga rocambolesca avrebbe ripreso la lotta partigiana.
Banfi voleva dire un “razionalismo critico” poco incline allo storicismo egemone nel ceto intellettuale dei dirigenti comunisti. Non un’eresia in senso letterale, ma il rifiuto di dogmi “eternamente validi” e la ricerca di una visione costantemente critica della realtà. Aldo Tortorella quell’impronta ha portato sempre con sé riversandola nella lunghissima parabola di militante, giornalista, parlamentare, dirigente illuminato e illuminante per le generazioni venute dopo.
con berlinguer
Del quotidiano fondato da Antonio Gramsci diresse l’edizione di Genova e poi quella milanese, città dove fu ai vertici della federazione e poi del comitato regionale del Pci. Conosceva Milano, e pure questo non paia dettaglio in una biografia che lo portò nel primo ciclo berlingueriano, dal ‘70 al ‘75, alla direzione de l’Unità, e più avanti a curare l’intero comparto culturale di quel partito entrando dopo il 1980 nell’ultima segreteria del leader più amato e rimpianto.
Dai banchi del consiglio comunale a Palazzo Marino aveva difeso la storica messa in scena del Galileo di Brecht e Strehler con quel mostro di bravura di Tino Buazzelli a spiegare al giovane e incredulo Andrea i segreti dell’universo, metafora pedagogica sull’autonomia della scienza dal potere politico o religioso. Con Berlinguer la collaborazione fu stretta, non senza distinguo di metodo come sul discorso dell’austerità all’Eliseo.
E con una sintonia profonda sull’alternativa democratica e sulla visione coraggiosa che dalla questione morale si sarebbe spinta ad aperture inedite verso istanze sino a quel punto estranee o marginali, dal movimento pacifista coltivato dalla Fgci di Marco Fumagalli alla coscienza ambientalista, dal pensiero femminista che ha saputo leggere nelle sue differenze e nella sua portata rivoluzionaria ai capitoli delle libertà e diritti civili per come impattavano i conflitti della modernità.
contro la svolta
Quella impostazione avrebbe incontrato resistenze severe fuori e dentro il vertice comunista con Tortorella a testimoniarne la matrice in un conflitto che condusse Berlinguer negli ultimi mesi di vita in una condizione di minoranza dentro la direzione del suo partito. Forse fu anche quella coda a motivare la sua opposizione ferma alla Svolta di Occhetto e al superamento del PCI.
Non certo per una fedeltà tardiva a miti che laicamente mai aveva coltivato. Quel suo “No” era per lui espressione di un timore trasformato presto in certezza su di una cultura politica della sinistra annacquata e dispersa. Con tono quasi paterno lo spiegò al segretario dei giovani comunisti in una rapida colazione, «qualunque scelta farete, ricordati che un partito senza un’identità non ha speranza né futuro».
Anni più tardi lo avrebbe ripetuto citando Mitterrand, «tagliare le proprie radici pensando di fiorire meglio può essere solo il gesto di un idiota». Figura integerrima, meno di un anno fa con una punta d’indignazione sul Corriere della Sera aveva smentito d’avere chiesto a Gorbaciov di porre un argine alla linea di Occhetto, e siccome parte integrante dell’uomo era un’ironia elegante e colta, al pari di Mark Twain non si era risparmiato una battuta sull’equivoco di un suo anticipato decesso.
Gli ultimi anni lo hanno visto ancora protagonista e presente, più spesso adoperando la tecnologia e intervenendo da quella casa dove con amorevolezza accompagnava sguardi e silenzi di Chiara Valentini, biografa, giornalista e ultima compagna di vita. Ma lo faceva sempre con quello spirito curioso, analitico, pensante che in questo nostro tempo smagrito di lessico e radicalità continuava ad apparire come una preziosa eccezione.
Aveva perfettamente inquadrato la natura della nuova destra incistata al potere: «Si rispetta, almeno formalmente, la divisione dei poteri, purché la pubblica accusa non dia fastidio». Qualche anno fa nel ricordare la figura di Rossana Rossanda aveva scritto così: «Vedo che è stato scritto del suo essere come di ferro. Non so se sia giusto. Penso che la sua forza fosse quella di essere una fermissima coscienza inquieta, senza illusioni sul genere umano ma senza smettere di amarlo tanto da volerlo cambiare».
Forse perché si erano conosciuti quando non avevano vent’anni, ma è impossibile trovare una sintesi diversa e migliore, credo se ne sia andato anche lui «senza illusioni sul genere umano ma senza smettere di amarlo tanto da volerlo cambiare». Basterebbe questo a far calare il sipario nella convinzione che la storia migliore, al fondo, continuerà.
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