Stiamo assistendo ad una trasformazione della forza lavoro, sempre più anziana e “sempre meno incline all’innovazione”, ma paradossalmente chiamata a guidare grandi cambiamenti e rivoluzioni epocali come l’intelligenza artificiale e la sostenibilità. La domanda sorge spontanea: esiste una criticità relativa a stigmi e stereotipi generazionali sul posto di lavoro? Questi pregiudizi possono influenzare negativamente le politiche aziendali e la coesione tra i dipendenti? Nonostante la forza lavoro sia da sempre composta da generazioni diverse, gli stereotipi generazionali continuano a persistere, portando a discriminazioni in particolare verso i lavoratori più anziani. Attraverso l’analisi degli stigmi più comuni, proviamo a sfatare queste credenze errate e sottolineare l’importanza di concentrarsi sulle competenze e sull’esperienza individuale. L’obiettivo è sempre quello di promuovere un ambiente di lavoro più equo e inclusivo, libero da pregiudizi generazionali.
Cosa tratta:
Per la prima volta nella storia, la forza lavoro è composta da cinque generazioni di lavoratori. Siamo di fronte ad una svolta epocale, peraltro mai vista nella storia industriale.
- Negli ultimi venti anni abbiamo perso oltre di due milioni di under 34 occupati, altrettanti nella fascia 35-49.
- Al contrario sono cresciuti e cresceranno ancora in maniera esponenziale gli occupati tra i 50 e i 64 anni. Nel 2004 erano 4 milioni e mezzo, nel 2024 hanno superato i 9 milioni. (Fonte: Il Sole 24 ore).
Mai prima d’ora una gamma così ampia di prospettive ed esperienze è stata rappresentata sul posto di lavoro. Tuttavia, invece di sfruttare questa diversità, spesso ci fermiamo davanti alle eventuali differenze. Vecchi stereotipi da sempre presenti nella vita lavorativa, possono contribuire ad amplificare eventuali disparità, basti pensare alla facilità con cui vengono giudicate intere classi di lavoratori come “pigri”, “sfaticati” o “presuntuosi” in base al decennio di nascita ed alla classificazione generazionale (boomer ecc).
Secondo diverse fonti (ad es. sondaggi AARP, e/o EU-OSHA), ben oltre il 40% dei lavoratori di età superiore ai 40 anni afferma di aver subito discriminazioni basate sull’età sul posto di lavoro negli ultimi tre anni. Si tratta di un numero allarmante se si considera il tasso di crescita della forza lavoro più anziana. Vere e proprie etichette generazionali che possono avere sulle politiche di un’organizzazione.
Gli psicologi del lavoro sia industriali che organizzativi, sottolineano che molte policy sul posto di lavoro non si basano su approcci scientifici o strategie di lungo termine. Ad esempio, è convinzione comune a seguito del fenomeno delle grandi dimissioni seguito al Covid, che i lavoratori più giovani richiedono più flessibilità, e le aziende stanno in effetti concedendo diversi livelli di flessibilità in base all’età, ma in realtà tutti apprezzano la flessibilità (non solo i giovani).
L’eliminazione di pregiudizi e stigmi legati all’età, a partire dal processo di assunzione dovrebbe essere una priorità assoluta per le aziende in ogni settore, ed in particolare per i professionisti della selezione del personale. Concentrarsi su competenze, esperienza, personalità di un candidato, e non sulla generazione di appartenenza, può essere un primo passo per costruire una forza lavoro più equa, in un mercato del lavoro che sta cambiando radicalmente.
Il primo dei mille stigmi legati all’ età, riguarda la mancanza di creatività. La storia e la scienza sono pieni talenti tardivi la cui creatività ci ha regalato di tutto, dai dipinti rinascimentali ai capolavori del jazz fino alla teoria dell’evoluzione. Camilleri, trova il successo come scrittore dopo i settant’anni. Rita Levi Montalcini o Dario Fo, hanno ricevuto il premio Nobel ben oltre i settant’anni. Paolo Conte scopre il successo dopo i 40 anni. Vi sono vari tipi di creatività che possono sbocciare in fasi diverse della carriera di una persona: alcune nascono velocemente e si esauriscono rapidamente, altre si basano su processi più lenti di osservazione e perfezionamento.
Un altro stigma molto comune riguarda il fatto che siano scontrosi. Non è automatico che le persone anziane siano sempre più irritabili di qualsiasi altro gruppo di persone. Diversi studi, così come diversi sondaggi, concordano nell’ affermare che le persone anziane tendono ad essere più felici della popolazione generale, ma soprattutto che i lavoratori più anziani hanno maggiori probabilità di essere soddisfatti del proprio lavoro, (ma anche della propria posizione e retribuzione), rispetto ai più giovani.
Uno degli stigmi più radicati è invece il fatto che siano meno produttivi. Se lasciamo parlare i numeri, e non le sensazioni, si scopre che i lavoratori più anziani sono altrettanto produttivi di quelli più giovani e svolgono un ruolo fondamentale nel successo continuo di molte aziende. È stato dimostrato che i lavoratori più anziani surclassano persino i colleghi più giovani in molte aree di performance chiave, sono spesso più disponibili, ed inclini ad allungare se serve l’orario di lavoro. Inutile dire che cambiano lavoro con più difficoltà.
Lo stigma più attuale al giorno d’oggi, è che la generazione over 50, non sappia gestire la tecnologia. I lavoratori più anziani risultano in grado di assorbire nuove informazioni da una base di conoscenze preesistente. Gli esempi sono molti, ad esempio il software, oppure la sicurezza nei luoghi di lavoro, sono via via cresciute dagli anni novanta. Chi ha potuto seguire l’intero processo, partendo da Windows 3.1 per il software o dalla 626 del 1994 per quanto riguarda la sicurezza, può capire e spiegare le scelte tecnologiche e/o normative che vengono fatte oggi, trasformando l’esperienza in vantaggio e può formare le nuove leve con basi più solide.
Infine lo stigma più difficile da abbattere in azienda, riguarda il fatto che siano più costosi. O addirittura troppo costosi. Assumere lavoratori aged (con più di 50 anni) può comportare un aumento minimo dei costi. Dopo il Covid, per ragioni diverse (smart working in primis) sempre più aziende, si stanno indirizzando a basare l’intera retribuzione o parte di essa sulla performance piuttosto che esclusivamente sull’anzianità, scoprendo che in questa fascia di età i risultati sono più solidi e raggiunti con maggiore concretezza. Infine come già detto, i lavoratori più anziani tendono a rimanere al lavoro più a lungo sia in termini di orario che di anzianità lavorativa, risparmiando alle aziende i costi di sostituzione, rimpiazzo provvisorio, reclutamento e formazione.
Lo stigma generazionale è un concetto sociologico e psicologico che si riferisce come tutti gli stigmi ad un marchio di disonore o disapprovazione associato a una persona o a un gruppo di persone a causa di una caratteristica particolare, (ad es. una malattia, un comportamento, un aspetto fisico, un’etnia, un’età o un’altra condizione). Questo marchio può portare a discriminazione, isolamento sociale e pregiudizi.
Vi sono diversi tipi di stigma. Analizziamoli nell’ ottica della diversità generazionale.
Stigma sociale: Si verifica quando la società o una comunità come quella lavorativa, attribuisce un’etichetta negativa a un gruppo di persone (es. aged). Ad esempio, le persone con malattie mentali spesso affrontano stigma sociale, che può portare a esclusione e discriminazione.
Stigma autoimposto: Si verifica quando una persona interiorizza le opinioni negative della società e inizia a sentirsi vergognosa o indegna a causa della propria condizione. E’ il caso di alcuni “boomer”, messi in qualche modo in discussione, (soprattutto ad es. in alcuni ambiti militari, dove l’età può essere il primo sintomo di inefficacia). Questo può influenzare negativamente l’autostima e il benessere psicologico.
Stigma istituzionale: Si manifesta attraverso politiche, leggi e pratiche che discriminano un gruppo di persone. Questo articolo alla fine parla di questo. Tutti conosciamo ad esempio, le leggi che limitano i diritti delle persone LGBTQ+ possono essere considerate una forma di stigma istituzionale, ma si parla ancora poco del gap generazionale. I numeri però impongono di ragionarne e subito.
Inutile dire che lo stigma può avere gravi conseguenze sulla vita delle persone, tra cui:
Isolamento sociale: Le persone stigmatizzate possono essere evitate o escluse dall’ambiente lavorativo, il che può portare a sentimenti di solitudine e depressione.
Discriminazione: Lo stigma può portare a trattamenti ingiusti o diseguali in vari ambiti, in primis il lavoro in cui passiamo la maggior parte della giornata, ,ma anche l’istruzione e l’assistenza sanitaria.
Barriere all’accesso ai servizi: Le persone stigmatizzate possono evitare di cercare aiuto o servizi per paura di essere giudicate o trattate male.
Per combattere lo stigma dell’ età, è importante:
Educazione: Informare e sensibilizzare le persone sulle cause e le conseguenze dello stigma può aiutare a ridurre i pregiudizi.
Empatia: Promuovere l’empatia e la comprensione verso le persone stigmatizzate può contribuire a creare un ambiente più inclusivo.
Politiche inclusive: Implementare politiche che promuovano l’uguaglianza e combattano la discriminazione può aiutare a ridurre lo stigma istituzionale.
A chiudere
I numeri, più che le convinzioni e i pregiudizi, impongono scelte radicali. Eliminare gli stigmi generazionali e concentrarsi sulle competenze e sull’esperienza può portare a una forza lavoro più equa e produttiva. È tempo di ripensare gli stereotipi generazionali e ricalibrarli sull’ effettiva composizione della attuale forza lavoro italiana. Discriminare la fetta più importante inizia a diventare ridicolo e controproducente.
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