«I neri ancora discriminati Eredità della schiavitù»

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Molto è noto della storia di Sister Helen Prejean – la suora di “Dead man walking” – a partire dal fatto che, dopo aver per caso cominciato a corrispondere con un detenuto nel braccio della morte, ha dedicato la vita ad abolire la pena capitale negli Stati Uniti, dove al patibolo finiscono soprattutto gli afroamericani.
Può stupire allora che, a 86 anni e dopo mezzo secolo di attivismo, Prejean dica di comprendere chi discrimina sulla base del colore della pelle, perché, dice, l’ha fatto anche lei.
Sister Helen, razzista? «Diciamo che sono stata a lungo cieca alle ingiustizie sociali subite dai neri e al privilegio di cui godo in quanto bianca», spiega.
Prejean ammette di essere cresciuta «in una bolla bianca» nella nera New Orleans. «Durante la mia infanzia, i miei genitori avevano servitù afroamericana – racconta –. Mangiavano separati da noi e avevano un bagno separato, ma non ho mai pensato che fosse sbagliato. Questo è l’effetto della cultura dominante. Ti dice che è normale, che è il modo giusto di fare le cose».
Da bambina, continua, i suoi genitori l’hanno protetta dalla realtà della disparità razziale. «Me ne sono accorta molti anni più tardi, quando mi sono trasferita in un quartiere povero afroamericano. Non avevo mai avuto coetanei neri, e ascoltare le loro storie mi ha aperto gli occhi su quanto fosse diversa la mia vita a causa del colore della mia pelle».
Nelle case popolari di Saint Thomas, sempre a New Orleans, Prejean ha imparato che privilegio bianco è dare per scontato che chiunque possa entrare in un luogo pubblico e non esserne allontanato a causa del colore della sua pelle. O la convinzione che, in America, se qualcuno vuole un lavoro e lavora sodo, avrà successo indipendentemente dal suo aspetto. «Semplicemente non è vero – dice suor Helen –. Negli Stati Uniti tendiamo a credere che tutti dovrebbero essere come noi, me compresa. È stato solo dopo aver sviluppato rapporti con famiglie afroamericane che ho capito quanto difficile fosse per loro essere “come me”».
Prejean ha appreso anche il concetto di “razzismo istituzionale”, che è diverso dal pregiudizio individuale. «Permea le strutture – spiega –. La gente pensa che, poiché la schiavitù è finita, i suoi effetti negli Stati Uniti siano finiti. Molti, come ho fatto io per molto tempo, non comprendono l’eredità della schiavitù».
Dopo aver operato per decenni al suo interno, ora Prejean vede chiaramente che il sistema penale Usa è un’eredità della schiavitù: «I proprietari delle piantagioni non volevano perdere una fonte di lavoro gratuito una volta liberati gli schiavi, quindi istituirono un sistema di leggi che portò alla diffusa incarcerazione di uomini neri, che venivano poi mandati in campi di lavoro. Molte di quelle leggi esistono ancora».
Erano i primi anni ’80 quando la religiosa si trasferì nel sud di New Orleans per lavorare in un posto chiamato Hope House, che assisteva le donne appena uscite di prigione. «Ronald Reagan stava promuovendo l’idea che i poveri che beneficiano del welfare vivono come dei re sulle spalle dei contribuenti – dice –. Gli americani si chiedevano perché non lavorassero, invece di chiedersi perché non riuscissero a trovare lavoro. Non sapevano che per i genitori poveri, usufruire del welfare è un dilemma. Non dà abbastanza per sostenere la tua famiglia, ma, se ne esci, perdi l’assistenza sanitaria per i tuoi figli».
Quando ha aperto gli occhi, suor Helen ha provato «la sensazione profonda e viscerale che la mia vita aveva avuto una svolta». Era stata chiamata ad agire. «Avevo sempre pensato a me stessa come una persona di preghiera – continua –, ma mi sono resa conto che la mia fede mi chiedeva di diventare anche una persona d’azione».
Allora oggi, quando vede «tutte queste cose atroci accadere intorno alla supremazia bianca e al nazionalismo e al terribile linguaggio sugli immigrati e sulla razza proveniente dall’Amministrazione Trump», suor Helen capisce da dove vengono ed è in grado di indicare la soluzione: «Ciò che dobbiamo fare è educare, a tutti i livelli. Questo è il processo. È ciò in cui la Chiesa ha sempre creduto».
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