La guerra al multilateralismo di Donald Trump passa per l’Africa

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La sospensione degli aiuti internazionali allo sviluppo USA apre una voragine nel sud del mondo e punta alla giugulare del sistema internazionale

Eppure nel continente c’è chi ci vede un’opportunità per riformare un sistema che stava fallendo

(Crediti: Official White House Photo by Joyce N. Boghosian. Da Rawpixel)

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La guerra al multilateralismo e alla cooperazione internazionale è come qualsiasi altra guerra: non teme di causare vittime – soprattutto se fra le persone più vulnerabili del sud globale – né si preoccupa di fare da incubatrice a crisi magari peggiori in futuro.

La (terribile) lezione la sta dando in questi giorni il neo eletto presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, con il suo utilizzo dell’interesse nazionale come oggetto contundente. Il capo di stato ha sospeso gli aiuti esteri allo sviluppo per 90 giorni in attesa di verificare l’allineamento dei contenuti dei vari programmi alle priorità politiche della sua amministrazione.

La decisione espone in modo particolare l’Africa. Nella regione molti paesi dipendono dal sostegno dei donatori internazionali e degli Usa in modo critico. Eppure, nel continente c’è che ritiene che la misura di Trump tocchi sì un nervo scoperto, ma quello giusto: la dipendenza del continente dagli aiuti internazionali. Una terapia d’urto quindi magari inconsapevole, quella targata Casa Bianca, che potrebbe dimostrarsi utile nel lungo periodo.

Per capire cosa sta succedendo bisogna però tornare a Washington, e nello specifico al primo giorno di mandato del presidente Trump. Una giornata nera per il multilateralismo: il capo di stato ha inaugurato la sua amministrazione, lo scorso 20 gennaio, ordinando l’uscita di Washington dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), a cui Washington apporta circa il 15% del budget, così come dagli accordi di Parigi per il contrasto al cambiamento climatico.

La decisione di Trump

Non certo da ultimo, Trump ha ordinato la «sospensione di 90 giorni nell’assistenza allo sviluppo estero degli Stati Uniti per la valutazione dell’efficienza programmatica e della coerenza con la politica estera» del paese. La misura comporta il blocco immediato all’esborso di nuovi aiuti e il congelamento dei lavori di tutti i progetti già in essere.

Il governo motiva il provvedimento affermando che «l’industria degli aiuti esteri e la burocrazia degli Stati Uniti non sono allineate con gli interessi americani e in molti casi sono antitetiche ai valori americani. Servono a destabilizzare la pace mondiale promuovendo idee nei paesi stranieri che sono direttamente inverse alle relazioni armoniose e stabili interne ai paesi e tra i paesi». La misura ha comunque contemplato fin dal principio delle esenzioni per «l’assistenza militare a Egitto e Israele» e per «aiuti alimentari d’emergenza».

Successivamente, le esenzioni sono state estese ad altri programmi ritenuti di «assistenza umanitaria salvavita».  In linea teorica, la deroga ha toccato anche i programmi di contrasto e la prevenzione dell’Hiv/Aids e in modo particolare il Piano d’emergenza del presidente sugli aiuti per l’Aids (PEPFAR), fiore all’occhiello della cooperazione internazionale statunitense nonché punto di riferimento mondiale nella lotta contro la pandemia scatenata dalla sindrome.

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Il programma è stato fondato nel 2003 e secondo il governo Usa ha contribuito a salvare circa 25 milioni di vite con un investimento di 100 miliardi di dollari. Stando a quanto riportato da alcuni media, come Wired Us, nella pratica le iniziative sul campo del PEPFAR sono ancora bloccate a causa di una serie di effetti domino del provvedimento voluto da Trump.

La lotta contro USAID

Provvedimento che dal 20 gennaio a oggi ha in effetti innescato un’escalation, la cui prima vittima è stata l’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale (USAID), principale ente a gestire gli aiuti internazionali Usa insieme al Dipartimento di stato, fondata nel 1961 e attiva in 130 paesi. L’ente ha gestito l’anno scorso circa 40 miliardi di dollari facendo affidamento su uno staff di circa 10mila persone, nonché contribuendo con finanziamenti vitali alle iniziative di decine di ong e imprese statunitensi e internazionali.

Le aziende Usa sono i secondi maggior destinatari degli aiuti che partono da Washington. Solo per fare un esempio invece, il 17% dei fondi di una ong italiana come Intersos provengono da USAID. I programmi coperti dall’agenzia vanno dalla lotta contro povertà e malnutrizione infantile al sostegno ai rifugiati (in Yemen, Palestina, Rd Congo), dal contrasto al cambiamento climatico e al terrorismo fino alla promozione della parità di genere e della salute riproduttiva.

L’agenzia è stata oggetto degli strali sia di Trump che del magnate Elon Musk, presidente del nuovo Dipartimento per l’efficienza del governo (DOGE) istituito dal capo di stato. In due settimane a USAID è successo di tutto, dalla messa in congedo di massa senza paga dei contractor dell’azienda, fino all’incursione nella sede centrale dell’agenzia da parte di agenti del DOGE, che hanno preso il controllo dei sistemi informatici di sicurezza dell’agenzia.

In settimana alcuni deputati democratici hanno cercato di entrare nella sede di USAID per capire cosa stesse succedendo, ma si sono visti impedire l’accesso. Il colpo di grazia è arrivato ieri 4 febbraio: se si prova a entrare nel sito web di USAID si legge una comunicazione che informa della messa in congedo di tutti i dipendenti a livello globale eccetto quelli coinvolti nei progetti esentati. Un piano per rimpatriare tutti i lavoratori all’estero è già in preparazione, si comunica inoltre.

Devex, piattaforma di informazioni legate alla cooperazione internazionale allo sviluppo di base negli Usa, oggi 5 febbraio titola laconica: «È la fine del più grande donatore al mondo». Il destino di USAID, si capisce da quanto comunicato finora dal governo USA, sarà quello di essere ridimensionata e accorpata nel Dipartimento di stato.

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«La Capitol Hill del multilateralismo»

«È la Capitol Hill della cooperazione internazionale allo sviluppo e della lotta alla povertà», conferma a Nigrizia Francesco Petrelli, specialista del settore con esperienza ventennale nonché esponente dell’Associazione delle ong italiane (AOI). L’esperto allude all’assalto al Campidoglio dei sostenitori di Trump il 6 gennaio 2021. «Le modalità con cui viene implementata questa misura fanno capire che alla Casa Bianca sono venuti meno tutti i freni inibitori. Al di là di questo però, va chiarita un cosa: questa mossa è da intendersi come volta a rafforzare un’egemonia.

Un’egemonia – chiarisce Petrelli – che si fonda sulla guerra ai poveri e sulla totale rimessa in discussione del multilateralismo». La speranza, a questo punto, sono i paradossi. «Quando si assiste ad attacchi come questo, non di rado si osserva anche un ricompattamento nella parte colpita: ci auguriamo che ciò avvenga anche in questo caso e come ong e società civile globale ci impegniamo in questa direzione», chiosa Petrelli.

Per capire l’entità della decisione del governo USA, sono necessarie alcune coordinate di base. Nel 2024 gli Stati Uniti hanno fornito il 41% di tutto l’aiuto umanitario globale con quasi 14 miliardi di dollari. Al secondo posto c’è la Commissione europea, con poco più di 2 miliardi. In totale, nell’anno fiscale 2023 gli Usa hanno impegnato circa 67 miliardi di dollari in aiuti esteri, 59 miliardi di natura economica e circa 8 di tipo militare. Oltre 40 miliardi, come già scritto, sono stati gestiti da USAID.

Somme queste, che rendono gli Stati Uniti di gran lunga il maggiore attore della cooperazione internazionale al mondo, ma che sul budget statale incidono solo per l’1%. Gli Stati Uniti sono anche i principali finanziatori di molte delle agenzie delle Nazioni Unite, arrivando a provvedere da soli fino a metà dei fondi del Programma alimentare mondiale (PAM) e al 40% per l’alto commissariato per i Rifugiati (UNHCR).

Stando a un sondaggio interno rilanciato sempre da DEVEX, per quasi metà delle 20 agenzie ONU che ricevono finanziamenti da Washington l’impatto della sospensione USA si fa già sentire in modo «severo», mentre solo per il 12% degli intervistati le conseguenze della misura sono «minime».

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Il peso specifico degli USA è figlio del ruolo di primo piano avuto dal paese nell’ordine post-seconda guerra mondiale e quindi nella creazione dell’odierno sistema multilaterale nonché nella grandezza dell’economia statunitense, per decenni la prima al mondo. Ora però sembra essere visto soprattutto come un capitale politico e una leva di pressione.

Guerra alla Cina o solo politica interna?

Diversi analisti, come il ricercatore della Rd Congo Jacques Mukena, ascoltato da Radio France Internationale (RFI), hanno puntato i riflettori sulla possibilità che gli USA di Trump vogliano di fatto costringere il sud globale a scegliere: con Washington o con la Cina. Magari nell’ottica di recuperare il terreno perso con Pechino nell’approvvigionamento di minerali critici come il coltan, essenziali per la grande partita della transizione energetica.

Che la questione degli aiuti possa giocare un ruolo nelle tensioni con i singoli paesi lo dimostrano le schermaglie di questi giorni con il Sudafrica. Dopo l’approvazione da parte del governo sudafricano di una legge che consente l’esproprio delle terre in alcune condizioni, Trump ha minacciato ritorsioni come lo stop alla cooperazione, accusando Pretoria di discriminare «alcune fasce di popolazione».

Un riferimento questo, molto probabilmente, ai presunti effetti negativi della misura per i possidenti terrieri bianchi. Una questione a sua volta collegata a una vecchia – e al quanto infondata – accusa di violenze sistematiche nei confronti di questa popolazione che Trump aveva già mosso al paese africano in passato.

Per Mario Giro, professore straordinario di Storia delle relazioni internazionali all’Università stranieri di Perugia, già viceministro degli Esteri, per capire Trump non bisogna spostarsi troppo dagli USA. Sollecitato sulla possibilità di un utilizzo degli aiuti come “pedine” nel grande gioco con la Cina, Giro afferma che «la priorità degli USA adesso è quella di riallineare le politiche interne».

In quest’ottica, «USAID viene sottomessa alla politica estera con l’accorpamento nel Dipartimento di stato». Giro fa notare, inoltre: «L’amministrazione Trump vuole eliminare dai programmi in corso tutti i riferimenti alla politica di gender. Ci vorrà tempo per esaminare tutti i progetti in corso». Quanto sostenuto dal professore è evidente fin dalle già citate premesse della misura, in cui si fa riferimento alla dimensione «antitetica» ai valori americani che informerebbe «l’industria degli aiuti esteri».

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L’esenzione agli aiuti non riguarda a esempio tutti i progetti impegnati nella promozione dell’inclusività e dell’equità, mentre Trump e Musk hanno accusato USAID di essere un covo di estremisti di sinistra. Già da decenni inoltre, gli aiuti esteri allo sviluppo statunitensi prevedono di non finanziare progetti che promuovono la pratica dell’aborto elettivo, in linea con quanto previsto dal cosiddetto emendamento Hyde anche per i finanziamenti federali dentro il confine Usa. 

Il tema è spinoso è lo è ancora di più in Africa. Durante l’amministrazione Biden, le condizionalità legate al rispetto dei diritti umani e in modo particolare di quelli di genere e delle persone lgbtq sono state più volte motivo di tensioni. Esemplare il caso dell’Uganda, che è stata anche esclusa dalle agevolazioni tariffarie alle esportazioni previste dall’AGOA dopo l’approvazione di una legge che, fra le altre cose, prevede la pena di morte per l’accusa di “omosessualità aggravata”.

Aspetti politici che vanno tenuti in conto nell’analisi degli effetti della misura di cui si scrive in Africa. Le conseguenze economiche e umanitarie sono del resto «devastanti», come sottolinea a Nigrizia lo stesso Giro.

La situazione in Africa 

L’Africa è il secondo continente ad aver ricevuto più aiuti dagli USA nel mondo con circa 15 miliardi di dollari nel 2023. Al primo posto c’è l’Europa con 20 miliardi, ma va anche considerato che nel conteggio ben 17 miliardi sono quelli destinati alla sola Ucraina. La terza regione comprende poi i paesi dell’Africa settentrionale, insieme al Medio Oriente, con 10 miliardi di dollari. A conti fatti, l’Africa è il primo destinatario. Quasi sei miliardi di dollari sono stati destinati all’assistenza umanitaria, 5,7 miliardi alla sanità – di cui una fetta importante al contrasto all’Hiv/Aids – 1,2 miliardi allo sviluppo economico.

Il paese che ha ricevuto la quota maggiore dei fondi – 1,5 miliardi di dollari – è stata l’Etiopia, seguita da Somalia, Nigeria, Rd Congo, Kenya e Mozambico. Paesi alle prese con sacche di instabilità ormai cronica – basti guardare al nord-est della Rd Congo, a una parte importante di territorio somalo, al nord della Nigeria e al nord del Mozambico – o con crisi sanitarie che hanno anche il potenziale di diventare pandemie, come l’ebola sempre in Rd Congo.

Il taglio agli aiuti significa fiaccare in modo decisivo la possibilità di questi paesi di far fronte a crisi che in realtà non conoscono confini, come hanno dimostrato il Covid-19 o l’espansione del terrorismo.

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In alcuni paesi poi, gli aiuti Usa arrivano a rappresentare da soli l’equivalente di quote significative del Pil. È il caso del Sud Sudan: nello stato “più giovane del mondo”, il sostegno statunitense è pari a circa il 10% della ricchezza nazionale.

Nel paese, il blocco voluto da Trump già si sta facendo sentire. «Il supporto di Washington è importante per la salute, a livello umanitario, nel capacity building», spiega a Nigrizia da Juba, la capitale sud-sudanese, Oketayot Santo Obwoya, giornalista dell’emittente locale Radio Tamazuj. «Sono già molti gli operatori sud sudanesi di ong finanziate da USAID che sono stati mandati a casa perché gli enti per cui lavorano si sono visti sospendere i fondi». Nel paese, riporta ancora Radio Tamazuj, alcune stati federali hanno già bloccato i programmi di sostengo alle persone che vivono con Hiv/Aids.

Non tutti i mali vengono per nuocere?

Il caso del Sud Sudan fa luce sugli effetti devastanti della misura voluta da Trump ma dice molto anche di ciò che non andava già prima. Ne è convinto XN Iraki, professore dell’Università di Nairobi ed editorialista del quotidiano kenyano The Standard. «Gli aiuti, a maggior ragione in settori chiave come la sanità, sono finiti per creare una condizione di forte dipendenza. È per questo che tagliarli è tabù in Africa», denuncia a Nigrizia.

Eppure, afferma Iraki, «la sospensione potrebbe spingere i paesi africani a concentrarsi finalmente su soluzioni sviluppate localmente, a riformare le istituzioni e a concentrarsi sul commercio». Quanto questo è possibile però, in un sistema finanziario globale ancora molto diseguale, caratterizzato da meccanismi che rendono difficile affrancarsi dal debito sovrano? «È possibile – taglia corto il professore – abbiamo le istituzioni in grado di farlo, bisogna farla finita con l’afro-pessimismo».

Un altro dei temi, sollevato dal settimanale The Conversation, è che in realtà ben poco degli aiuti allo sviluppo Usa finisce nelle casse della società civile africana, o anche solo a imprese e ong dei paesi partner. Buona parte resta negli Usa, fra imprese e organizzazioni locali. Una criticità questa, che si riscontro anche fuori dai confini statunitensi, a partire dall’Europa. 

L’imprenditore ghanese Gregory Rockson, padre di Mpharma, una società che si occupa di garantire l’approvvigionamento di medicinali in Africa e che ha raggiunto 1,4 milioni di persone i 10 paesi, si è poi chiesto su Semafor come è possibile approfittare di questa malaugurata decisione USA per riformare l’aiuto.  

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Rockson parte da esempi poco virtuosi: «Mentre USAID annunciava un piano da cinque anni per il contrasto alla malaria, nel 2022, il governo dell’Uganda ha portato a un miliardo le spese militari. Con un’adeguata definizione delle priorità, il governo potrebbe ridistribuire in modo fattibile il budget annuale che ha perso di recente per mantenere il programma anti-malaria».

Urge una pianificazione diversa: «È tempo di elaborare piani di sostenibilità dettagliati che non solo salvaguardino i risultati attuali, ma che gettino anche le basi per un futuro in cui le comunità locali guidino il proprio sviluppo – afferma Rockson -. Invece di fare pressioni per una continuazione indefinita degli aiuti, questi piani dovrebbero articolare una chiara strategia di transizione».





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