Concerti live, ma sono davvero live?

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Il 22 febbraio scorso, al Mediolanum Forum di Assago, andava in scena il surreale “listening party” di Kanye West. Il rapper, con il volto sempre coperto da un passamontagna, ha sorpreso tutti con una curiosa performance che, tra ballerini, proiezioni video e musica diffusa, non prevedeva alcun tipo di esibizione vocale. Tra chi vi ha visto il concerto del futuro e chi semplicemente un furto – il più economico dei biglietti costava 150 euro – l’episodio appare la manifesta esasperazione di un fenomeno sempre più diffuso nel mondo della musica dal vivo.

La discussione sul (non) concerto del rapper statunitense è infatti solo la punta dell’iceberg di un dibattito che torna ciclicamente e che, negli ultimi tempi, sembra essere risalito alla ribalta. Tra basi preregistrate, playback, half-playback e autotune, la maggior parte dei concerti prevede ormai una grande parte di esecuzione non “dal vivo”, con un numero sempre più esiguo di musicisti sul palco e con il cantante spesso accompagnato dalla sua stessa voce registrata. E se, come è noto, il playback di voci o di strumenti per esigenze televisive è da sempre al centro di leggendarie polemiche (è sufficiente citare il caso dei Queen a Sanremo), oggi sembra essere diventato la normalità anche nei concerti.

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Ma quali sono le ragioni di questa consuetudine? Un primo fattore è costituito sicuramente dall’aumento del producing in studio, con l’impiego sempre più frequente in sede di registrazione di suoni difficilmente replicabili dal vivo con strumenti tradizionali.

Il secondo fattore è meramente economico: l’utilizzo di sequenze può sopperire all’assenza di alcuni strumenti, permettendo all’artista di stipendiare un numero minore di musicisti per il tour. In altri casi l’esigenza è invece dettata da necessità sceniche, per ottenere una sincronizzazione perfetta con altre componenti dello spettacolo – come luci, corpi di ballo o contributi video – o semplicemente per consentire al performer di eseguire coreografie senza restare a corto di fiato durante l’esecuzione.

Se fino a qualche anno fa, tuttavia, l’utilizzo di playback durante un concerto tendeva ad essere visto come una sorta di tradimento verso gli spettatori (è noto il caso di Britney Spears, nel 2015 duramente attaccata anche dai propri fan per l’utilizzo dell’half-playback), oggi il pubblico sembra essere la fascia meno interessata al dibattito.

Autenticità

L’altro lato della barricata è infatti difeso in prima linea soprattutto da artisti, che rivendicano un modo di fare spettacolo il più autentico possibile, dove anche gli errori umani sono parte dello show. Alla guida di questo movimento troviamo, ad esempio, Dave Grohl, che ha recentemente affrontato il tema direttamente dal palco di un suo show a Londra. Il frontman dei Foo Fighters ha definito quello della sua band “The Errors Tour”, riprendendo polemicamente l’omofono “The Eras Tour” della collega Taylor Swift: “The Errors Tour perché ne abbiamo fatti di errori. Perché suoniamo per davvero dal vivo”.

Il concetto è stato ribadito, recentemente, da altri mostri sacri del rock, da Axl Rose a Ian Gillian, che senza mezzi termini hanno definito “imbrogliare” suonare con l’aiuto di basi preregistrate. In Italia, il principale esponente di questa “battaglia” è probabilmente Enrico Ruggeri, che ha definito l’utilizzo di sequenze “un’espediente di bassa lega per ingannare i più ingenui”.

Se le voci più convinte si levano dal mondo del rock, sarebbe tuttavia sbagliato ridurre il dibattito a una questione di genere musicale. Sono diversi, infatti, anche gli artisti rap o trap che rivendicano la centralità della liveness: da Salmo, che da sempre fa dell’autenticità del concerto la propria forza, per arrivare addirittura a Chadia Rodriguez, che di recente ha attaccato i colleghi che fanno utilizzo di playback (“il pubblico viene per vederti cantare non per vederti fare la playlist di Spotify”).

Queste dichiarazioni, provenienti da un mondo dove gli strumenti sul palco sono spesso secondari (quando non assenti), sembrano allargare ancora di più la discussione, per ricondurla alla domanda fondamentale: cosa significa “live”? La domanda, a sua volta, dà vita a una ramificazione di interrogativi. Quando una performance si può definire autentica? Qual è il limite invalicabile? La voce del cantante? Ogni suono che esce dalle casse deve essere eseguito in diretta da un essere umano? L’utilizzo di effetti su voce o strumenti – come l’autotune – fa venire meno la condizione di liveness? La risposta non sembra esserci. Il discrimine, se c’è, è dato dalle aspettative del pubblico nei confronti dell’artista e, soprattutto, dalla coerenza con l’immagine di sé che l’artista ha voluto veicolare nel corso della sua carriera.

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Per uno springsteeniano sarebbe un tradimento vedere la E Street Band suonare con delle sequenze, per un fan di Madonna sarebbe una delusione vedere uno spettacolo della Queen of Pop scenograficamente e vocalmente non all’altezza del suo titolo. L’importante, per evitare di gridare al furto, è sapere in anticipo cosa aspettarsi.



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