Alta cucina e sostenibilità: il futuro della tradizione napoletana

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Napoli è sempre stata una città di estro e creatività, anche a tavola. La sua cucina, frutto di una storia millenaria, è nata dalla necessità e si è trasformata in un patrimonio di sapori senza sprechi. La frittata di maccheroni, il ragù con i tagli meno nobili della carne, la trippa alla napoletana, il baccalà fritto, la pizza di scarola: piatti iconici che dimostrano come la cucina partenopea abbia sempre avuto un’anima sostenibile. Oggi, però, la sostenibilità non è più solo un principio dettato dalla necessità, ma una scelta culturale ed etica. Nel dibattito contemporaneo sullo spreco alimentare, tre voci autorevoli della gastronomia campana – gli chef Gennaro Esposito e Fabrizio Mellino, il pasticcere Sal De Riso e il critico gastronomico Luciano Pignataro – riflettono su come questa filosofia stia plasmando il futuro dell’alta ristorazione.

Per Fabrizio Mellino, chef tre stelle Michelin del ristorante Quattro Passi a Massa Lubrense, la sostenibilità in cucina non è una scelta, ma un obbligo: “La cucina napoletana è una cucina di estro e fantasia, ma è anche il risultato di una storia di povertà, in cui da necessità è nata la virtù. Nell’alta ristorazione spesso si pensa che un grande piatto debba essere fatto solo con materie prime nobili, ma è un errore. Oggi, più che mai, uno chef si misura anche dalla capacità di fare acquisti consapevoli. Il tema della sostenibilità è strettamente legato a questo: saper usare tutto in maniera intelligente, senza sprechi”. L’innovazione tecnologica aiuta a ottimizzare gli ingredienti: “Le tecniche sono legate allo stile di cucina, ma oggi abbiamo macchinari che ci permettono di limitare gli sprechi. Tuttavia, vince sempre il gusto: un piatto può essere bello e buono anche se nasce da elementi semplici.” Mellino sottolinea inoltre un cambiamento nel pubblico: “Oggi i clienti sono più attenti e informati, ma non credo che scelgano un ristorante per la sua sostenibilità. Si sceglie un ristorante per mangiare bene. Tuttavia, per noi chef, lavorare con un approccio sostenibile è la scelta giusta per il futuro”.

Dello stesso parere è Gennaro Esposito, chef della Torre del Saracino, che ribalta il concetto di “cucina di recupero”: “Non dobbiamo più parlare di recupero, ma di sano utilizzo degli alimenti. La cucina colta è quella che sa cosa fare di ogni parte dell’ingrediente prima ancora di cucinarlo. Pensiamo al sedano: non ha senso usare solo il cuore e buttare il resto. Ogni parte ha un suo valore, e chi sa cucinare lo sa valorizzare.” Un esempio? Le foglie esterne dell’insalata, che spesso si scartano, possono diventare la base per una frittata di lattuga, un piatto povero ma ricco di sapore.

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Secondo il giornalista e autorevole critico gastronomico Luciano Pignataro, la cucina napoletana nasce proprio con il principio della sostenibilità: “La cucina napoletana e meridionale ha radici contadine, una cultura che da sempre riutilizza tutto per necessità e per intelligenza. Ogni ingrediente ha un valore, non solo per il suo costo, ma per il suo gusto. Oggi l’alta ristorazione riscopre questo concetto, che non è una moda ma un’eredità del passato che ci proietta nel futuro. Penso alla tradizione del riuso delle interiora, che oggi si sta perdendo, mentre nel Sud ha sempre avuto un valore fondamentale. Lo stesso vale per il pescato: un tempo si usava tutto, comprese le interiora dei pesci, mentre oggi si tende a buttare via una parte del loro potenziale gusto.” Pignataro ricorda anche il movimento nato in Danimarca con la moda del recupero delle bucce di patate nei ristoranti di Copenhagen, ma sottolinea: “Nel Sud, questo è sempre stato naturale. La cucina povera, in realtà, è la più sostenibile di tutte”.

Anche il maestro pasticcere Sal De Riso condivide questa visione, spiegando il suo metodo per ridurre lo spreco senza mai ricorrere a dolci “di riciclo: un Io non faccio dolci di recupero, ma sto attento alle quantità e adopero tutto per evitare sprechi. Se durante le festività rimangono panettoni invenduti, non vengono buttati, ma donati alla Comunità di Sant’Egidio. Lo stesso vale per gli ingredienti in laboratorio: i succhi di frutta avanzati nelle lavorazioni, ad esempio, possono essere utilizzati per biscotti o creme. È un approccio che punta a ottimizzare, non a riciclare”.
Napoli ha sempre avuto una cucina profondamente sostenibile per natura, nata dalla capacità di trasformare ogni ingrediente in un piatto di valore. Non si tratta solo di utilizzare gli “scarti”, ma di dare un senso a ogni parte del prodotto, come accade nei grandi classici della cucina partenopea. Questa non è “cucina di recupero”, ma cucina consapevole, quella che Esposito definisce “una cucina colta, che sa cosa fare degli ingredienti prima ancora di metterli nel piatto”. Ed è questa la vera sfida della ristorazione contemporanea: trasformare la conoscenza in cultura del cibo, nel rispetto della qualità e della sostenibilità.





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