La violenza negli ospedali e le aggressioni agli operatori sanitari, soprattutto medici ed infermieri, sono una piaga sociale che influisce sulla qualità di vita dei professionisti coinvolti e sulla qualità dell’assistenza fornita alla popolazione. Per eradicare questo problema globale occorre sensibilizzare l’opinione pubblica promuovendo, attraverso la consapevolezza del fenomeno, un cambiamento culturale sociale e politico che deve partire prima di tutto negli ambienti professionali.
Tolleranza zero verso le aggressioni ai danni degli operatori sanitari
Occorre poi emanare leggi per sanzionare gli attacchi riconoscendoli come reati penali, denunciare gli aggressori, condannarli a pene detentive e fare leva sulle sentenze dei processi legali per produrre effetti dissuasivi.
La tolleranza contro le aggressioni degli operatori sanitari deve essere zero. A sostenerlo, già nel 2014, un World report in cui si denunciava che i professionisti della salute subivano alti tassi di violenza ed abusi sul posto di lavoro.
Alla luce di quei dati i sanitari spagnoli avevano chiesto al Ministero della Salute l’istituzione di una giornata nazionale contro tali aggressioni, fissata il 20 aprile. In Italia è stata prevista soltanto nel 2020, con la legge n.113 “Disposizioni in materia di sicurezza per gli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie” e si celebra il 12 marzo.
La violenza fisica e non fisica contro il personale infermieristico era già diventata undici anni fa un problema endemico, come denunciavano gli esperti in vari articoli pubblicati all’epoca su The Lancet.
Si riportano numerosi casi di infermieri presi a calci, a pugni in faccia, feriti con arma da fuoco, accoltellati e non soltanto negli Stati Uniti, dove è più diffusa una cultura di violenza, ma in tutto il mondo industrializzato, diffondendosi rapidamente anche nei Paesi in via di sviluppo.
Già nel 2013 risultava che su un campione rappresentativo globale di 150mila infermieri circa un terzo era stato aggredito fisicamente, vittima di bullismo o ferito e circa due terzi avevano subito aggressioni non fisiche.
Già allora la maggior parte della violenza avveniva in un numero limitato di aeree, con tassi elevati in pronto soccorso e nei reparti geriatrici e psichiatrici. Gli infermieri in ambienti ad alto rischio lavorano con persone che soffrono, sono sotto stress, spesso sentono di avere perso il controllo della loro vita ed hanno uno scarso controllo degli impulsi
, riporta il report internazionale. Uno studio condotto allora dall’Oms confermava che oltre la metà del personale sanitario aveva subito almeno un episodio di violenza fisica o psicologica nell’anno precedente.
L’aggressione fisica è una delle cose che storicamente è stata accettata come parte del lavoro degli infermieri
, denunciava sottolineando come spesso fossero gli stessi infermieri a credere che essere aggrediti potesse essere semplicemente parte del loro lavoro.
Nell’assistenza domiciliare ci si aspetta, ad esempio, che gli infermieri vadano in aree in cui la polizia non andrebbe nemmeno
. Anche oggi gli infermieri sul territorio entrano da soli nei campi rom o in abitazioni con grande degrado.
Un sondaggio condotto nel 2011 dall’Emergency Nurses Association negli Stati Uniti segnalava che in quasi la metà di tutti i casi di violenza fisica non veniva intrapresa alcuna azione contro l’aggressore e che gli infermieri non ricevevano alcuna risposta dall’ospedale in merito all’aggressione in circa il 70% dei casi.
Oggi, ma soltanto recentemente, in Italia fortunatamente non è più così. Già dieci anni fa 30 Stati americani su 50 avevano approvato leggi che rendevano reato aggredire i lavoratori ospedalieri. In Italia la legge che punisce severamente chi aggredisce i sanitari è stata promulgata soltanto nel 2024.
L’American College of Emergency Room Physicians aveva raccomandato già nel 2014 una serie di interventi mirati per fronteggiare il problema della violenza. Si tratta di strategie che in Europa e in Italia si stanno discutendo soltanto da qualche anno. Le proposte includevano l’aumento del numero di addetti alla sicurezza, telecamere a circuito chiuso con osservatori addestrati 24 ore su 24, pulsanti antipanico e un miglior controllo dell’ingresso al pronto soccorso.
Nel 2014 Cary Cooper, illustre professore di psicologia organizzativa e salute alla Lancaster University nel Regno Unito affermava che se l’infermiere non spiega perché l’attesa è lunga, o forse perché l’assistenza non viene fornita abbastanza velocemente, ciò può portare ad un accumulo di aggressività
.
Spiegava che era più facile vedere aumentare l’aggressività soprattutto nelle aree di emergenza dove l’attesa era spesso lunga e le persone erano malate, ansiose, ferite, preoccupate, ubriache. Ci sono molte ragioni per cui le persone diventano violente ma la chiave è come affrontarle
, affermava ribadendo che le strutture devono essere ferme nel non tollerare un comportamento violento, indipendentemente dal motivo.
Dai casi attuali di cronaca emerge che la violenza esplode spesso anche se tali informazioni vengono fornite al cittadino in attesa negli stessi contesti, talvolta anche senza motivo. La stanchezza nell’attesa sembra pertanto solo uno dei tanti determinanti che possono scatenare l’aggressione.
Prevenire gli attacchi resta, ieri come oggi, la strategia migliore. La violenza può essere ridotta tramite un abile trattamento interpersonale dei pazienti e dei loro familiari, che vivono lo stesso stress emotivo e perdono parimenti il controllo, come fornire informazioni e mostrare preoccupazione
, suggeriva Cooper. Proponeva allora che nei pronto soccorso, dove i lavoratori affrontano i rischi più elevati, potesse essere utile formare l’infermiere che si occupa dell’accettazione a riconoscere un problema e cercare di risolverlo prima che degenerasse in violenza.
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