Siamo davanti a un bivio: democrazia o autoritarismo. E non esistono possibili mediazioni, la sinistra è avvertita

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Gli ultimi fatti dimostrano che tutti i nodi sono arrivati al pettine e quella apparente “semplificazione” di cui tutte le svolte storiche sembrano aver bisogno, ora si presenta senza tanti equivoci. Siamo arrivati al bivio fra democrazia e autoritarismo.

Ci siamo arrivati attraverso mille rivoli tortuosi nei quali spesso abbiamo faticato a distinguere il bene dal male: hanno tentato di farci credere che la guerra sia l’unico strumento di risoluzione delle controversie internazionali in barba all’art. 11 della Costituzione. A tal proposito potrei partire dalla favola delle guerre “umanitarie”. Queste in verità sono sempre esistite come quelle preventive, ma nella storia della nostra Repubblica si iniziava il racconto il 24 marzo 1999 con il primo bombardamento su Belgrado. Poi hanno provato a convincerci che lo stravolgimento della Costituzione è il mezzo migliore per governare senza intralci in onore del falso mito della “governabilità”; che alla massima occupazione si arriva solo rendendo il lavoro qualcosa di precario, provvisorio e insicuro; che l’erosione del potere d’acquisto delle famiglie è un passaggio obbligato per la ripresa; che i diritti dei lavoratori debbono segnare il passo davanti all’altare dei sacrifici; che i migranti sono invasori da combattere che ci rubano il lavoro, ma basta mettersi d’accordo con i paesi di provenienza per ricacciarli indietro ad ogni costo (sganciando soldi a palate sottratti al bilancio dello Stato) e via discorrendo.

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Le tappe dello stravolgimento della Costituzione

Ce l’hanno messa tutta a confondere le menti in questi rivoli tortuosi e oscuri nei quali per decenni si è consumato il rito prodromico della manipolazione delle coscienze. Si tratta di un percorso lunghissimo iniziato dieci anni prima di “mani pulite” con il ben noto “Piano di rinascita democratica” di Licio Gelli nel quale si fissavano obiettivi di stravolgimento del sistema costituzionale. Alcuni di questi sono stati raggiunti allorché su determinati temi il livello di indifferenza popolare derivante da quella manipolazione lo si è ritenuto sufficiente. Solo per un esempio, si pensi alla riduzione del numero dei parlamentari, punto cardine del programma di Licio Gelli, fatto proprio da un Governo non di destra.

Proprio in quei rivoli sono state mescolate e confuse, come in un perverso gioco delle tre carte, democrazia e sistema maggioritario; federalismo e regionalismo solidaristico; rappresentanza democratica, soglie di sbarramento e premi di maggioranza. Una confusione preordinata all’affrancamento di quel mito del capo che pian piano si è fatto strada fino al d.d.l. costituzionale sul premierato con il quale si getta definitivamente la maschera. Ma la frattura fra politica e società civile, in questo coacervo di confusione, si è dilatata al punto che più della metà degli elettori oggi preferisce non esserci. Soprattutto si assenta dalla partecipazione elettorale quella parte degli elettori che non si è riconosciuta nelle politiche della sinistra di governo, ritenute conniventi e complici del processo di smantellamento dell’ordinamento democratico costituzionale.

Ormai i fatti si susseguono piuttosto velocemente: il Governo Meloni – avendo trovato la strada già battuta dalle confusioni politiche sopra succintamente richiamate – punta ora alla rottura degli equilibri costituzionali fra poteri; al ridimensionamento dei diritti (dal lavoro alle libertà personali); alla riedizione delle discriminazioni razziali tipiche del fascismo (pur negandole a parole) attraverso l’odio nei confronti degli immigrati e dei più deboli; all’annullamento della forma di Governo parlamentare (primazia del Parlamento sul Governo) e alla primarietà assoluta del capo su tutto e su tutti; all’assoggettamento della magistratura a favore del capo (e del suo governo) mediante una riforma costituzionale in base alla quale il Pubblico Ministero sarebbe ridotto a questo. Tali fatti si mostrano in una forma particolarmente aggressiva e spietata: l’attacco alla magistratura libera e indipendente si basa proprio sul percorso rituale della manipolazione delle coscienze di cui dicevamo. Una magistratura dapprima resa inefficiente per i tagli agli investimenti economici, infatti, è facile che passi per un Ordine da riformare perché così com’è non funziona.

Per mostrarla poi come nemica del Governo c’è solo un passo: è politicizzata, vuole interferire sulle scelte del Governo che è impegnato a difendere i confini della Nazione contro “l’invasione” di eserciti di disperati che hanno di fronte solo la morte. L’attacco alla magistratura assume anche connotati di singolari superficialità, arroganza e cattiveria: il rimpatrio dei migranti deve essere libero, non ha importanza se tornando nei paesi d’origine questi disperati saranno di nuovo torturati, imprigionati, uccisi. Non è affar nostro, si arrangino. Noi dobbiamo solo dimostrare, in uno slancio “trumpista” piuttosto ostentato, che li respingiamo perché difendiamo i confini della nazione. Ne discende che i giudici non devono applicare leggi e direttive comunitarie; non devono compiere atti dovuti previsti per legge; non devono esprimere pareri né protestare; insomma, non devono fare il loro mestiere, ma sottostare al Governo e alla Premier. Non conta più nulla: né separazione dei poteri, né giurisprudenza, né adattamento alle fonti comunitarie.

Giorgia Meloni riceve a Palazzo Chigi il Presidente dello stato di Israele Isaac Herzog. Foto di Fabio Cimaglia, Agenzia Fotogramma

 

Il senso della “ragion di Stato”

La cosiddetta “ragion di Stato” – che farebbe fare cose “sporchissime” a tutti gli stati come ha avuto modo di sproloquiare il giornalista Bruno Vespa genuflesso in modo indecente di fronte alla Meloni – giustifica anche il silenzio del Governo sul caso squallido del rimpatrio di un torturatore spietato per non compromettere i rapporti con la Libia. Essa giustifica anche l’umiliazione del Parlamento davanti al quale la premier non si presenta, preferendo tuonare e minacciare dai social.

Per inciso, ma vale la pena farne menzione, mentre scrivo giunge la notizia che Lam Magok Biel Ruei, vittima del torturatore Almasri, abbia denunciato il Governo nelle persone di Meloni, Nordio e Piantedosi per favoreggiamento. “Io sono stato vittima e testimone di queste atrocità – afferma – orrori che ho già raccontato alla Corte penale internazionale, ma il Governo italiano mi ha reso vittima una seconda volta […]”.

In questo quadro non può che evidenziarsi l’esito del cammino sinora compiuto, durato decenni, attraverso i rivoli tortuosi della manipolazione delle coscienze popolari con la complicità della disinformazione e della mistificazione che si declinano in indebolimento crescente della programmazione curriculare scolastica per la crescita dei giovani e in marginalizzazione di programmi televisivi idonei alla corretta informazione e all’elevazione culturale. E come dicevamo siamo oramai al bivio fra la democrazia e un fascismo che non usa i manganelli e l’olio di ricino, né omicidi o assalti squadristici, ma (aggiungo) almeno per ora. È un fascismo che usa le istituzioni della democrazia per stravolgerle.

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La sinistra deve uscire dalle ambiguità del passato

All’esito, in questo bivio, non ci sono mezze misure né spazi per “trattative” di nessun genere. Di fronte a un bivio i “mediatori” non hanno una terza via da percorrere, né rinnovata credibilità presso gli elettori in ragione delle passate ambiguità mostrate con scelte politiche tutt’altro che “di sinistra”. Il principale partito di quest’area è al centro della scena e molto dipende da quali orientamenti saprà darsi al proprio interno, partendo inevitabilmente dai grandi errori commessi nel passato e in quale misura, in che modo e con quali uomini saranno superati. Le tematiche salienti sono la guerra, i rapporti con la Nato, le spese militarti, la fornitura di armamenti; tutte le politiche sociali, quelle del lavoro e i diritti dei lavoratori; il regionalismo solidale e la revisione del Titolo V della Costitutzione e molte altre, naturalmente, ma non è più tempo delle formule tattiche per vincere le elezioni, mandare a casa la destra poi si vedrà.

Si parla in questi giorni del cosiddetto “Lodo Franceschini”, una proposta che ancora una volta mette al centro non già la chiarezza di un programma che faccia ammenda degli errori e delle connivenze del passato in quei mille rivoli di confusione che hanno allontanato la fiducia degli elettori, bensì un’alleanza meramente elettorale per fare numeri, conquistare i collegi uninominali, poi si vedrà. Ma come si può pensare che l’elettorato di sinistra torni a votare senza alcuna chiarezza sui temi programmatici sopra elencati e nel persistere delle ambiguità di sempre? La sfida che abbiamo davanti è troppo alta per non compiere, stavolta, una scelta netta verso la democrazia: si è mondializzata l’irruzione del capitalismo diretto nelle leve di decisioni politiche globali attraverso un trumpismo spietato che non fa sconti. Il disprezzo mostrato da Trump nelle scorse settimane verso gli organismi di garanzia costituzionali liberando tutti i partecipanti al suo colpo di Stato è un metodo immorale che il Governo Meloni prova apertamente ad emulare. Questo scenario esplosivo impone più di sempre che la sinistra ritrovi al più presto la sua identità. È vero: i neofascisti non si battono “rincorrendoli sul loro terreno, copiando le [loro] posizioni”, come dice oggi la Schlein in un’intervista offrendo indubbiamente un buon messaggio, ma siamo ancora lontani dalla svolta che oggi si impone. In passato le democrazie degli antichi rimasero in vita alcuni secoli, questa nostra ancora giovanissima e non compiutamente attuata, potrebbe non arrivare a cento anni.



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