Medio Oriente: il futuro passa da Washington

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Il futuro della Striscia di Gaza e dei palestinesi in generale si decide a Washington, dove però questi ultimi non sono invitati. È infatti un incontro a quattr’occhi quello di oggi tra Donald Trump e Benjamin Netanyahu, primo capo di governo straniero ad essere ricevuto dal tycoon alla Casa Bianca. Una visita, quella del premier israeliano, che avviene mentre in patria il suo consenso è in calo: Netanyahu si trova ad affrontare pressioni contrastanti da parte della sua coalizione di destra, che vuole riprendere al più presto la guerra contro Hamas a Gaza, e da parte degli israeliani che vogliono che gli ostaggi ancora nelle mani dei miliziani tornino a casa e che il conflitto, durato 15 mesi, finisca. Dal canto suo, Trump –  che si attribuisce il merito per il cessate il fuoco entrato in vigore il giorno prima del suo insediamento –  è cauto sulle prospettive di lungo periodo. “Non ho garanzie che la pace regga”, ha detto ai giornalisti. Al centro dell’incontro la definizione della seconda fase dell’accordo, ma anche le prospettive di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita e le preoccupazioni relative al programma nucleare iraniano. Quello in corso negli Stati Uniti è il primo viaggio di Netanyahu fuori da Israele da quando la Corte penale internazionale ha spiccato contro di lui e il suo ex ministro della difesa, Yoav Gallant, mandati di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità. Nessuno si aspetta però che alle ingiunzioni venga dato seguito: gli Stati Uniti, infatti, non riconoscono l’autorità della CPI sui propri cittadini o sul proprio territorio.

A che punto è la tregua?

L’accordo di tregua tra Israele e Hamas, mediato da Egitto, Qatar e Stati Uniti ed entrato in vigore il 19 gennaio scorso, comprende una prima fase di 42 giorni. Da allora Hamas e le milizie palestinesi alleate hanno rilasciato 18 ostaggi rapiti negli attacchi del 7 ottobre 2023, tra cui 13 israeliani e cinque cittadini thailandesi. Israele, in cambio, ha sospeso i bombardamenti su Gaza, ritirato le sue truppe dalle principali postazioni nell’enclave, consentito l’afflusso di aiuti e liberato più di 580 detenuti palestinesi. Entro la sua scadenza, a inizio marzo, Hamas dovrebbe consegnare in tutto 33 ostaggi, 8 dei quali morti. Quello che verrà dopo è un’incognita. Nelle intenzioni dei negoziatori, alla prima fase dovrebbe seguirne una seconda in cui Hamas si riserva di liberare gli ultimi 40 ostaggi ancora nelle sue manima stavolta in cambio di un accordo di pace e dell’avvio di negoziato sulla nascita di un futuro Stato palestinese. È qui che ostacoli insormontabili si profilano all’orizzonte. Quello di un’entità statuale palestinese in cui Hamas sia ancora presente – come lo è di fatto ancora nella Striscia – è indigeribile per l’estrema destra messianica che compone l’ala più estremista del governo israeliano e che ha più volte minacciato di far cadere il governo se quest’ultimo non riprenderà la guerra allo scadere della prima fase.

Netanyahu tra due fuochi?

In altre parole, se Netanyahu non vuole far cadere il suo governo deve portare avanti la guerra. Un obiettivo che contrasta con i piani della nuova amministrazione Usa per la regione, che richiederebbero al contrario la fine dei combattimenti. Trump, infatti, è tornato alla Casa Bianca con l’obiettivo dichiarato di riprendere il suo progetto degli Accordi di Abramo lì dove lo aveva lasciato ed è interessato a ricostruire Gaza attraverso un’intesa regionale con gli Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. Il tycoon ha chiaramente indicato che vuole che Israele e l’Arabia Saudita normalizzino le relazioni come parte di ‘un grande patto’ per il Medio Oriente. I funzionari sauditi però hanno chiarito che un tale passo richiederebbe un percorso chiaro verso la creazione di uno Stato palestinese. il principale interrogativo, a questo punto, è quanto duramente il team di Trump spingerà perché Netanyahu rispetti l’accordo di cessate il fuoco che alla fine determinerà chi amministrerà e ricostruirà l’enclave. “Con ogni probabilità Trump e Netanyahu si mostreranno pubblicamente gentili prima e dopo l’incontro, affermando entrambi che Trump è il presidente più filo-israeliano nella storia degli Stati Uniti – osserva oggi il corrispondente di Haaretz da Washington – ma è chiaro a tutti che Trump è in una posizione dominante e che qualsiasi tentativo del premier israeliano di ostacolare questa situazione potrebbe ritorcersi contro di lui molto prima di quanto possa immaginare”.

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Ridisegnare il Medio Oriente?

Intanto, la fragile tregua in corso a Gaza è minacciata anche da un’escalation di violenze in Cisgiordania: l’operazione militare ‘Muro di ferro’ avviata dalle forze armate israeliane nella città e nel campo profughi di Jenin in concomitanza con il cessate il fuoco nella Striscia, ha portato finora alla distruzione di oltre 120 edifici e allo sfollamento di circa 15mila persone. L’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei profughi palestinesi (Unrwa), ha paragonato Jenin a una città fantasma mentre l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) – che molti palestinesi accusano di collaborare con Israele – ha chiesto agli Stati Uniti di fermare l’alleato “prima che sia troppo tardi”. Il timore dimolti osservatori è che, in cambio della pace a Gaza, Trump conceda a Netanyahu l’approvazione per annettere formalmente grandi porzioni della Cisgiordania, una rivendicazione in linea con le richieste dei partiti dell’estrema destra israeliana. In fondo, ha detto Trump ai giornalisti che lo interrogavano, Israele si estende “su un pezzo di terra davvero piccolo” e ha aggiunto: “È incredibile che siano riusciti a fare quello che sono stati in grado di fare”.

In gioco a Washington, insomma, non sarebbe ‘solo’ la prosecuzione della tregua ma la riorganizzazione dell’intero Medio Oriente. Per Netanyahu potrebbe profilarsi un’altra vittoria: “Le operazioni militari israeliane a Gaza, Iran, Libano, Siria e Yemen, hanno già ridisegnato la mappa della regione — ha detto — ma credo che lavorando a stretto contatto con il presidente Trump, possiamo ridisegnarla ancora di più e in meglio”. 

Il commento

Di Ugo Tramballi, ISPI Senior Advisor

“Ci devono ritornare il favore” diceva Donald Trump, dopo aver chiesto/preteso che Egitto e Giordania aprissero le porte agli oltre due milioni di sopravvissuti di Gaza. Che si tratti di un’operazione immobiliare per svuotare la Striscia, ricostruire e vendere al miglior offerente; o di una nuova moltiplicazione di profughi palestinesi in Medio Oriente, il presidente americano non lo precisa. Ma come sempre, quando si parla di israeliani e palestinesi, futuro, progetti e crescita economica sono irrilevanti rispetto alla dimensione politica e militare del conflitto. Gaza, i due Stati e gli interessi dei sauditi. Quel che conta ora è la tregua: se ci sarà una seconda fase, quanto durerà e cosa accadrà dopo, se la pace o di nuovo la guerra. In tutto questo, ad essere ora determinante è la visita dl Benjamin Netanyahu a Washington: cosa dirà a Donald Trump e soprattutto cosa Trump dirà a Netanyahu”.



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