Hidden Set: i talenti nascosti del cinema/1 “Ho aperto una strada ma non ci pensavo mentre lo facevo”, intervista esclusiva con Daria d’Antonio direttrice della fotografia degli ultimi film di Sorrentino, la prima a vincere un David.

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Arriva controsole. Indossa un maglioncino azzurro cielo e uno sguardo curioso, penetrante e sorridente. È Daria d’Antonio, la direttrice della fotografia di Parthenope e È stata la mano di Dio, delle serie Il miracolo e Supersex, per citare i suoi lavori più noti. È la prima donna vincitrice del David di Donatello come Miglior Autrice della Fotografia. The Hollywood Reporter l’ha incontrata in esclusiva, prima di una serie di interviste che raccontano i talenti nascosti dietro i grandi film.

Non ci sono tante direttrici della fotografia. Possiamo dire che hai aperto una strada alle future generazioni?

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Ho aperto una strada ma non ci pensavo mentre lo facevo. Pensavo di fare quello che mi appassionava e che mi appassiona ancora. Non c’è stato un intento rivoluzionario. Non ho mai pensato di non poterlo fare perché fossi donna, pur rendendomi conto che intorno non avevo tante colleghe. Ho iniziato a Napoli. E ciò sicuramente ha alimentato quel tipo di incoscienza che è stata anche la mia forza: entrare in un contesto un po’ sperimentale, anarchico. Facevano cose con pochi mezzi e tanta creatività, piuttosto distanti dal cinema romano, più ufficiale. C’era la libertà di fare con quello che si aveva a disposizione.

Quando hai capito che questa sarebbe stata la tua strada? 

Non nasco come una cinefila, però quando ho incontrato il cinema, per me è stato salvifico. Ho capito che era un modo per stare in squadra, per dare il meglio di te. Il mio primo set è stato un momento di scoperta incredibile. Ho capito che era quello che volevo fare. Il film era Isotta, forse non avevo neanche l’età per farlo, non so neanche se ho il credito. Mi sono proposta come volontaria sul set. Ho cominciato a lavorare con Pasquale Mari e Cesare Accetta. Sono stata fortunata perché sono entrata in un momento in cui era proprio vacante quel ruolo là. Invece che pagare gente che veniva da Roma, prendevano aspiranti registi che facevano i fuochi. Teatro di guerra è stata un’esperienza alla quale sono molto legata. Sono stati sei mesi di teatro in 16 mm. Non avevo mai visto questa macchina complicatissima: la Aaton. La prima volta che l’ho caricata ho pianto perché aveva tutto un caricamento al contrario. Avevo diciannove anni.

Tu hai lavorato a lungometraggi, serie, documentari. Qual è il genere che preferisci e perché?

Innanzitutto, sicuramente, ci sono delle contaminazioni nei generi. Ho fatto un documentario con una fotografia molto più vicina alla narrazione di un film, Il passaggio della linea. Il corpo della sposa è un’altra forma ancora. Documenta qualcosa; non ci sono attori professionisti.  Sono lavori, ovviamente, diversi, sono budget diversi, sono tempi diversi di produzione: usano il linguaggio del cinema in modo differente. Il mio approccio però è quasi sempre unico: empatico, curioso, quasi mai procedo per cose che già penso di sapere o per tesi. È quello che mi piace del mio mestiere: guardare e scoprire delle cose mentre le sto facendo. Ci sono anche film in cui ho capito cose di me, dalla vita degli altri. Ciò che cambia davvero è la durata della narrazione. Una serie ti dà la possibilità, dal punto di vista narrativo, di seguire dei personaggi più a lungo, svilupparli in un altro modo. Devo dire che a me le serie piacciono sempre meno. Vorrei fare dei documentari come facevo prima e che ora faccio raramente

Come si instaura il rapporto con la regista o il regista? 

Ho un’idea molto rispettosa e romantica del regista. Quando funziona, il direttore della fotografia è il migliore amico del regista. Sono una persona propositiva e ho un gran senso pratico. Parto dal presupposto che io sono lì assolutamente in ascolto e a servizio dell’idea dell’altro. Il compito è anche quello di valorizzare il lavoro di tutti gli altri: quello dei costumisti, dei truccatori, etc. Il film dovrebbe essere un’impresa umana che va condivisa insieme. Dev’essere bello come la vita. 

Sei mai nostalgica della pellicola? 

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A gennaio scorso mi è ricapitato di girare in pellicola con Alice Rohrwacher ed era un po’ che non lo facevo. A seconda del progetto decidi il supporto. Il digitale permette di avere un tipo di illuminazione più leggera. Se posso accorciare i miei tempi per dare più tempo al regista e agli attori , lo preferisco. Ci sono registi che vogliono espressamente girare in pellicola. Io mi faccio spiegare perché. Se rimane una questione solo nostalgica, se ne può discutere. Per me non è un buon motivo. Ne parlavo con Luca Bigazzi, nel workshop che facciamo, “Becoming Maestre”. Non sono conservatrice. Il supporto è un mezzo: è importante quello che tu ci metti dentro. I ragazzi mi dicevano: “Quando girano in pellicola sul set è tutto diverso. Sono tutti più concentrati”, e io capisco qual è per loro il fascino. I set con la pellicola sono più solenni. Però penso che lo stesso atteggiamento deve esserci anche se giri con il cellulare. Non voglio indagare se è giusto o sbagliato ma penso che il digitale abbia reso possibile e più democratica la possibilità di fare, che per me è sacrosanta.

Se non erro, avevi detto che il tuo sogno era di fare un film in bianco e nero?

L’ho fatto. Con Umberto Contarello. Esce a marzo: L’infinito. Ogni volta che raccontava i suoi ricordi e parlavamo del film io me lo immaginavo in bianco e nero. Lo conosco da anni, era molto amico di Carlo Mazzacurati. Li ho sempre identificati in bianco e nero, come delle bande di Kaurismaki, un po’ jarmuschiani. Non osavo ma poi una settimana prima delle riprese, in una casa tutta blu, gli ho detto “Quando ti sento parlare io ti ascolto in bianco e nero”. Sono partita dal colore, perché comunque è girato in digitale. Avevo fatto una sul colore una LUT (è l’acronimo di look-up table e si tratta dell’insieme di informazioni matematiche che vengono utilizzate nelle riprese in digitale per modificare tonalità, saturazione e luminosità, n.d.r.) lavorando in modo particolare sul blu. È un bianco e nero per niente contrastato, veramente al limite: è fermarsi un attimo prima del colore. La storia parla di Umberto. Mi capita spesso di fare film in cui i registi e le registe si mettono a nudo. C’è fiducia, mi piace tanto questa cosa. È una produzione piccola, lo abbiamo girato in poco tempo. Si è creato un rapporto di affetto e di protezione. È la prima volta che fa anche l’attore, quindi sapere che c’era una persona che lo proteggeva con lo sguardo, credo sia stato significativo. Ma forse andrebbe chiesto a loro. Ai registi non gli chiedono mai ‘Come ti sei trovato con il Dop?” 



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