A Roccaraso il problema non sono i turisti, ma i turisti poveri

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Qualche settimana fa ha postato dal suo profilo, nello stile che l’ha resa inconfondibile, alcuni video del suo weekend a Roccaraso in compagnia della famiglia. Goffi e impreparati nelle tute termiche, spritz alla mano, in una  versione post-vanziniana, Rita ha voluto mostrare ai suoi follower le bellezze della montagna, la quietezza dei paesaggi innevati. A voler esagerare, ha mostrato la possibilità, culturalmente negata al popolo napoletano (se ancora adesso c’è chi si stupisce dell’esistenza dell’università a Napoli, figuriamoci le reazioni di fronte alla possibilità di poter andare in montagna, a sciare, prerogativa di regioni dal PIL significativo), di trascorrere un weekend in montagna. Addirittura di poter sciare, e non limitarsi a scivolare sulle buste dell’immondizia come da sempre accade a Roccaraso al disgraziato che si avventura di domenica, a bordo dei carrozzoni che partono da piazza Garibaldi alle sei del mattino, e che non può affrontare la spesa di attrezzatura e skipass per tutta la famiglia. Provocatorio, oltre alle sue discese con tanto di curve e spazzaneve, è il reel che inquadra lei con due amiche (anche loro tiktoker improvvisate, una delle due nasce come venditrice ambulante di spighe) mentre sorridono con le bocche protese verso la telecamera, ballando al ritmo di una canzone il cui testo recita: “Ci odia tutta Italia, siamo di Napoli, puzziamo di monnezza, Vesuvio lavaci”. Il marito di Rita è un ormeggiatore. Insieme avranno passato una vita su quelle piccole imbarcazioni –  chissà se con le giuste autorizzazioni – che scorrono lente intorno a Castel dell’Ovo. Siamo soliti collocare   una certa fauna popolare napoletana in un ecosistema marino: scogli, reti, barchette, pescatori. Difficile figurarsi lo scugnizzo con la pelle bruciata dal sole, solito tuffarsi dagli scogli, che si lancia sulle piste con indosso dei moon boot. Al resto del mondo piace feticizzare i vecchi napoletani in slip, seduti sulle sedie di plastica al lido Mappatella, o immortalare in reel patinati su Instagram vaiasse che litigano rumorosamente al telefono. Ma c’è appunto chi si ritrova disorientato, fuori da questi rassicuranti luoghi comuni. Ad esempio: come reagirebbero, i cultori dell’esotismo napoletano, se gli oggetti delle loro fantasie trascorressero il fine settimana in una località sciistica? Rita De Crescenzo l’ha fatto, portando all’attenzione di tutti un grande rimosso culturale, e generato un cambio di paradigma. I barcaioli sulla neve potrebbe essere un buon titolo per un romanzo di De Giovanni. Lo scrittore si è già espresso sulla questione Roccaraso, dichiarando il suo disappunto per l’inciviltà dei turisti occasionali. Non è quella la Napoli che ci rappresenta. Perché è questo il vero dramma che si è consumato a Roccaraso. Non quello ambientale – i turisti della domenica inquinano meno delle strutture sciistiche – né quello dell’overtourism. Il dramma è quello della narrazione che si fa di Napoli. I napoletani sono ossessionati dalla percezione che il resto d’Italia ha di loro.  Il deputato dei Verdi Borrelli,  nemico della sguaiataggine, lotta senza sosta contro il cattivo gusto dei nuovi fenomeni social della città. La sua voglia di riscattare Napoli, il desiderio che il resto d’Italia ci riconosca finalmente soprattutto come i concittadini di De Filippo e di Sophia Loren è al limite dell’isterico. O forse rivela la fragilità di questa nuova era della leggibilità partenopea, tutta volta al riscatto dalle gomorroidi, e smaniosa di una rappresentazione mite e addomesticata di Napoli, come se la patina di docile irrealtà di Un posto al sole si potesse estendere al resto della città. Nascono nuovi divi, Stefano de Martino, Serena Rossi, belli, bravi e rappresentanti di una napoletanità positiva. Il buonismo di un’assistente sociale come Mina Settembre rassicura anche il turista più diffidente, spingendolo a scendere dalla Costa Crociera appena ormeggiata al porto. Venite pure, siamo persone perbene, non vogliamo i vostri orologi. Mi viene sempre da ridere quando, chi ricorda da che zona di Napoli provengo, mi identifica quasi sempre come un vomerese. Niente di più lontano dalla realtà. Quando ammetto di essere nato invece a Mugnano di Napoli, a pochi chilometri da Scampia, in piena terra dei fuochi, posso percepire  lo sforzo, la fronte aggrottata, di chi prova a collegare la mia faccia pulita con le vele di Scampia. Crescere a Napoli significa fare i conti anche con un racconto parallelo (e reale) di criminalità, folklore – ahimè negli ultimi anni molto sguaiato – un po’ ai limiti dell’Occidente, risultato di un disagio sociale tanto antico quanto difficile da risolvere (reso benissimo dal film di Antonio Capuano, La guerra di Mario, altro che Mina Settembre), che rende questa città un luogo complesso che rischia di smarrire la propria identità nell’era della semplificazione. E questo racconto non si può eliminarlo, ammacchiarlo, cancellarlo per sempre, neanche schierando l’esercito, come paventato dal sindaco di Roccaraso.





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