Mentre Canada, Messico e Cina lanciano le loro contromisure, persino il presidente dei dazi è costretto ad ammettere che la sua guerra porterà «dolori» agli statunitensi stessi
La storia si ripete e questa volta è più fosca di prima. Già nel suo primo mandato, Donald Trump aveva indetto una guerra commerciale. Ma i dazi annunciati questo weekend contro Canada, Messico e Cina sono persino più dirompenti, e non soltanto per il maggiore volume di beni coinvolti (dai 380 miliardi della volta scorsa ai 1400 miliardi di valore di beni colpiti ora).
A cambiare scala è anche il potenziale antidemocratico e antiegualitario di queste misure, sia sul piano domestico che internazionale. Imposte in nome di una presunta emergenza, scavalcando il Congresso, le tariffs di ultima generazione trumpiana minacciano più che mai sia il potere di acquisto dei suoi stessi elettori (per gli effetti a cascata su consumatori e inflazione), sia la già infragilita convivenza internazionale.
Come era prevedibile e previsto, adesso i primi paesi a essere colpiti – l’Ue si aspetta già di essere la prossima – avviano le contromisure, e intanto gli effetti scuotono tutti, dagli Stati Uniti stessi (analisti e Camera di commercio inclusi) fino al Giappone, che non è direttamente bersagliato; ma conosce l’impatto globale di una guerra commerciale.
Meno potere, più dolore
Tanto per cominciare, la leva utilizzata per imporre i dazi è l’ennesimo caso inedito.
Già nel 2018 Trump aveva fatto ricorso alla sezione 232 del Trade Expansion Act, risalente agli anni Sessanta, e che consentiva l’imposizione di dazi in nome di una «minaccia alla sicurezza nazionale» data dall’importazione eccessiva o iniqua di un bene. Una leva che mai era stata utilizzata, da quando l’Organizzazione mondiale per il commercio esiste. Nel caso dei dazi di nuova generazione, di nuovo il magnate fa qualcosa di inedito: ricorre all’International Emergency Economic Powers Act.
In comune con la volta precedente c’è la mossa di operare senza aspettare autorizzazioni parlamentari, e soprattutto c’è l’uso (abuso) di norme emergenziali. In nome di quali emergenze? «Crimini e droga», migrazioni e Fentanyl, tuona Trump, che usa in realtà i dazi come grimaldello negoziale, prendendosi non a caso del «bullo» dai politici canadesi.
Le misure consistono non soltanto in prelievi aggiuntivi del 10 per cento per la Cina, considerata un’antagonista, ma pure del 25 per cento per l’import dai vicini Messico e Canada; e se l’energia canadese fa eccezione (è colpita solo al 10 per cento) è soltanto perché la stessa industria petrolifera americana ha fatto pressioni in tal senso, facendo presente quanto il mercato sia interconnesso (viene dal Canada la maggior parte del greggio importato dall’estero). L’imposizione delle tariffs è stata preceduta da una intensa attività negoziale sotto traccia (con Messico e Canada ancor più che con la Cina) e lobbistica (da parte dei settori e delle aziende interessate), ed è stata seguita da un’ondata crescente di critiche.
«I dazi faranno impennare i prezzi per le famiglie americane e perturberanno le catene di approvvigionamento», avverte inascoltata la Camera di commercio Usa. Il punto che preoccupa di più negli Stati Uniti è che dai dazi derivi una spinta inflazionistica che vanifichi le mosse della Federal Reserve, e c’è inoltre la consapevolezza che gli statunitensi stessi vedranno impennarsi i prezzi di beni di uso comune (non solo auto ma fagioli canadesi, avocado messicani…).
Quando i prezzi aumentano, e così pure l’inflazione, mentre gli stipendi restano fermi, viene intaccato uno dei pochi poteri alla portata di tutti, e cioè il potere di acquisto. Persino Trump ha dovuto riconoscere che «forse ci sarà pain, sofferenza», ma continua a concludere che «ne sarà valsa la pena». E dà del «globalista» al Wall Street Journal che definisce quella trumpiana «la più stupida guerra commerciale della storia».
Reazioni internazionali
Nel frattempo l’attacco di Trump scatena reazioni, anche perché a dispetto delle chiacchiere – la minaccia di provocare «dolore economico» alla Russia per costringerla a un accordo – il presidente al momento sta colpendo i vicini, se non i suoi stessi elettori.
«Il Canada diventi il 51esimo stato Usa, e così niente dazi!», infierisce Trump. Proprio il dibattito sui dazi (e le accuse di stile troppo morbido) ha già portato alle dimissioni di Justin Trudeau, che è ancora in carica fino alla nomina del successore, e annuncia i contro-dazi su beni Usa per 155 miliardi. «Tutte le volte che potete, scegliete canadese», dice. «Choose Canadian!».
Claudia Sheinbaum, la presidente messicana, ribadisce fino allo sfinimento la sua posizione – «meglio il dialogo che la contrapposizione» – ma predispone comunque la reazione: «Dazi e non solo». Anche la Cina prepara «contromisure», e in più avvia la sfida legale in sede di Organizzazione mondiale per il commercio.
L’Ue (tramite un portavoce della Commissione) si «rammarica» dei dazi, dice che «c’è molto in gioco» e insiste: «Preferiremmo rafforzare le nostre relazioni». Ma constata infine (col sentimento di essere la prossima) che «risponderemo con fermezza» qualora siano imposti dazi alle merci Ue.
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