Zero via zero. Nel senso di aumento zero del Pil nel terzo trimestre e aumento zero nel quarto trimestre: il 2025 parte con le ruote sgonfie, con una sorta di effetto di trascinamento al contrario sul 2024, che peserà quando si tireranno i conti delle statistiche. Chi sosteneva che l’ottimismo del governo era propaganda sopra le righe è stato ampiamente ripagato. Il confronto fra realtà e illusioni è impietoso. Nel mondo del ministro del Tesoro, Giorgetti, l’Italia cresceva dell’1 per cento nel 2024 e dell’1,2 per cento nel 2025. In quello reale (nessuna sorpresa: era quanto prevedevano in massa centri studi e istituzioni internazionali) il 2024 si è fermato allo 0,5 per cento e il 2025 regalerà – forse – solo un decimo in più. Insomma, previsioni dimezzate e l’orizzonte è cupo. La produzione industriale cala da 22 mesi, il turismo non tira più, l’occupazione ha smesso di aumentare, con Francia e Germania che non crescono e l’America di Trump pronta a scatenare la guerra commerciale solo i visionari possono puntare sul volano delle esportazioni.
In questa situazione difficile, il dato positivo è la finanza pubblica: non rischiamo una crisi. E il dato negativo? Ancora la finanza pubblica: ci terrà in crisi. La contraddizione è solo apparente.
Il bicchiere mezzo pieno è che, con le vecchie regole di buona condotta europea, saremmo in mezzo ai guai. Sviluppo zero uguale aumento del disavanzo, sfondamento del paletto del 3 per cento rispetto al Pil, allarme a Bruxelles, speculazione in allerta. Ma il vituperato nuovo Patto di stabilità è molto più tollerante sul disavanzo: se, invece che al 3, chiuderemo il 2025 al 3,3 per cento, i vigilantes europei non grideranno allo scandalo. Con il nuovo Patto, il parametro che conta, infatti, più del disavanzo è la spesa pubblica e Giorgetti, che tiene i cordoni della borsa, è convinto di poter restare dentro il limite concordato di un aumento (da qui al 2027) di un 1,5 per cento l’anno.
Giorgetti, però, può tirare un sospiro di sollievo, ma tutti gli altri no. Il bicchiere mezzo vuoto è che un aumento nominale dell’1,5 per cento contro una inflazione prevista (se tutto va bene) fra l’1 e il 2 per cento significa aumento zero della spesa pubblica in termini reali. Vuol dire che per sanità, scuola, sicurezza sociale, sostegno allo sviluppo non c’è neanche un euro (vero, cioè in termini di potere d’acquisto) in più, al di là della pubblicità di Palazzo Chigi. La consegna ufficiale, insomma, è stringere la cinghia e lasciare la crisi abbandonata a se stessa.
La tentazione, a questo punto, di scaricare la responsabilità sul destino cinico e baro è forte e, sulla base dei comportamenti e della psicologia dell’attuale leadership, questo governo non se la lascerà sfuggire. Ma è un gioco delle tre carte. La lucida logica della ultima Finanziaria è stata, infatti, di sacrificare ad una riforma fiscale discutibile e fortemente squilibrata a favore dei ceti più vicini alla maggioranza le risorse di bilancio disponibili e anche quelle – come risulta dal ristagno del Pil e, dunque, delle entrate – non disponibili. Per il resto non è rimasto niente e al paese non resta che arrangiarsi.
Questa scelta ideologica ha aggravato una deriva che non si può imputare, in quanto tale, al governo Meloni, se non nel senso che ha scelto di non trarne le conseguenze e preparare le contromisure, nonostante fosse ampiamente prevedibile. L’attuale rallentamento dell’economia europea, infatti, è, in misura significativa, il risultato della decisione di Francoforte di privilegiare l’effetto annuncio. Di fronte all’impennata dell’inflazione, il vertice della Bce ha imboccato la strada di un brutale (e storicamente inedito per la sua rapidità) aumento dei tassi di interesse, destinato a congelare una economia surriscaldata, come avveniva in America. Solo che, al contrario che in America, l’economia europea non era affatto surriscaldata da una domanda fuori controllo, ma vittima di fattori esterni, come la crisi del metano e la corsa dei prezzi dell’energia. Rientrati quei fattori è rientrata anche, come molti avevano previsto, l’inflazione. Ma i tassi, intanto, lavoravano. Il risultato è stato che l’inflazione è rientrata da sola e il peso dei tassi si sta scaricando solo ora sull’economia europea. Come previsto non solo dagli economisti, ma anche dai manuali di economia, la politica monetaria, infatti, esercita la sua influenza con un ritardo di 18 mesi circa sull’annuncio degli aumenti dei tassi. Ma questo vale anche per le riduzioni. Così l’economia, ora, sta subendo l’aumento dei tassi deciso nel 2023 ma dovrà aspettare un altro anno, prima di approfittare dell’inversione di marcia e della riduzione dei tassi in atto da questa estate.
Tuttavia, neanche la politica della Bce può diventare un alibi per il governo Meloni e per gli altri governi europei. Al di sotto degli effetti congiunturali della politica dei tassi alti, infatti, le difficoltà dell’Europa sono figlie di una debolezza strutturale e pervasiva: un costo dell’energia che è tre volte quello che affrontano le industrie americane. Ma, proprio per questo, liberarsi dalla dipendenza del metano (venga dall’America o dalla Russia) è decisivo. Il Green Deal e un boom delle energia alternative sono il passaporto per mettere l’Europa in grado di competere con il resto del mondo. L’attacco alla politica “verde” di Bruxelles che il governo Meloni e gli altri governi di destra europei stanno cavalcando è, insomma, l’equivalente del maratoneta che si spara ad un piede. Il Green Deal costa, ma un ritorno a petrolio e metano farebbe impazzire i prezzi e costerebbe ancora di più.
Maurizio Ricci
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