Siria del nord-est, «sanità gratuita e per tutti, la sfida del confederalismo»

Effettua la tua ricerca

More results...

Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
Filter by Categories
#finsubito

Cessione crediti fiscali

procedure celeri

 


«La prossima volta spero di potervi incontrare nella capitale. Vorrei tornare in una Damasco aperta a tutti i siriani, ad arabi, curdi, cristiani, musulmani, alawiti. Una città aperta alle donne in un paese che rispetti i loro diritti».

Il dottor Cwan Fadel parla accanto al caminetto acceso, nella sua casa appena fuori Raqqa. È a capo dell’ufficio diplomatico dell’autorità di salute del nord-est siriano, vive nella città liberata dall’Isis nel 2017, dopo quattro anni di occupazione islamista. Chi sa come funzionano le cose da queste parti sostiene sia lui il vero ministro della Sanità. I due ufficiali – Jud Mohammad e Mohammad Noor, una donna e un uomo come per tutte le cariche nel confederalismo democratico – hanno soprattutto un ruolo di rappresentanza politica.

Fadel, 44 anni, ha frequentato la facoltà di medicina a Volgograd, la ex Stalingrado. «Sulla mia carta d’identità c’è scritto Cwan. Sotto il regime di Assad con questo nome era impossibile essere assunti nel pubblico, per i curdi c’erano limiti insuperabili. Ora deve cambiare tutto: vogliamo una Siria unita, ma non andremo da Jolani come cittadini di serie B. Il dialogo è necessario, però deve essere tra pari».

Assistenza per i sovraindebitati

Saldo e stralcio

 

Lei ha dichiarato «la sanità non va ricostruita, va costruita per la prima volta». Ma durante il regime di Assa d i servizi funzionavano.

Il regime poteva contare su importanti risorse e sul sostegno dell’Organizzazione mondiale della sanità. Nonostante ciò a Raqqa c’erano solo tre ospedali con servizi terziari, per le situazioni più complesse. Il sistema poggiava sugli specializzandi, i medici specialisti lavoravano due ore al giorno. C’era corruzione. Nel Nord-est non esistevano facoltà di medicina. Quest’area era considerata sottosviluppata e mancava l’interesse politico a farla crescere. Tutto il focus era su Damasco e sulle città costiere.

Dopo la liberazione dall’Isis com’era la situazione?

Io sono arrivato più tardi, ma per farsi un’idea l’ultimo posto da cui Daesh è stato cacciato è l’ospedale nazionale di Raqqa. Era diventato un forte militare. Metà della clinica ostetrica è stata distrutta. L’ospedale pediatrico andato. Sotto i miliziani islamisti regnava la paura: se ai dottori dicevano “dovete lavorare 48 ore”, quelli lavoravano 48 ore. La situazione che abbiamo trovato era molto difficile. Ora è migliorata, ma c’è molto da fare.

Perché mancano medici?

Il problema principale nella sanità pubblica sono gli stipendi. In questo momento, anche se il cambio oscilla molto, è di circa 260 dollari al mese. Per un insegnante di 100 dollari. Poi la mancanza di sicurezza nell’area scoraggia l’arrivo o il ritorno dei medici. Infine mancano professionisti perché nel Nord-est prima della rivoluzione non c’era mai stata una scuola di medicina. Sette anni fa, l’Amministrazione autonoma ha costruito la prima facoltà e lo scorso anno è terminato il ciclo iniziale. Restano il problema del riconoscimento nazionale dei titoli e della formazione specialistica. Damasco ha deciso di rendere ufficiali i certificati delle università di Idlib, dove governava Jolani, ma non quelli della nostra regione. A febbraio, comunque, cominceranno i primi programmi di specializzazione.


Quali?

Chirurgia generale, ortopedia, ginecologia, pediatria e medicina interna. Ovviamente ci sono tanti altri bisogni, ma senza un supporto nazionale è difficile fare di più. Pensiamo alla salute mentale: in tutto il nord-est siriano ci sono quattro psichiatri, ma abbiamo risorse limitate e abbiamo dovuto valutare in base agli studi sulla popolazione. Servirebbe un piano per attrarre dottori e allenare i medici locali a sviluppare i servizi autonomamente. A questo scopo è nata l’associazione cam-mek.org, composta da medici volontari siriani e internazionali, che punta sullo sviluppo di politiche sanitarie pubbliche. Non come una ong ma supportando direttamente le autorità di salute dell’Amministrazione.

Da dove arrivano i soldi per il sistema sanitario?

Dilazione debiti

Saldo e stralcio

 

Dall’Amministrazione autonoma. Il budget annuale è di circa 17 milioni di dollari. Prima delle occupazioni filo-turche di Manbij e Shahba nella regione si stimavano circa cinque milioni di abitanti. Quindi poco più di tre dollari a testa.

E l’Amministrazione dove prende i soldi?

Non è il mio campo. Suppongo vengano dalla vendita di petrolio e di grano. Sono le uniche cose che si producono qua. Il sistema delle tasse deve ancora essere incrementato.

La sanità pubblica è gratuita?

L’obiettivo è quello, ma al momento dipende da vari fattori: cantone, ospedale e tipo di prestazione. Il sistema sanitario pubblico è decentralizzato tra i cantoni: Jazira, Deir-ez-Zor, Raqqa, Eufrate e Tabqa. Oltre alle nostre strutture ci sono quelle delle ong, completamente gratuite perché finanziate dall’etero, e quelle private, dove i costi sono molto alti. Negli ospedali pubblici in genere è previsto un ticket su alcuni servizi. Chi non ha nulla, per esempio i rifugiati che vivono nei campi, non paga. Per gli altri c’è una piccola percentuale. Resta comunque il problema dei materiali sanitari che dobbiamo importare. Uno stent ci costa 300 dollari, che non riusciamo a coprire. Deve farlo il paziente mentre noi garantiamo la gratuità di ricovero, intervento e farmaci. Nel privato lo stesso trattamento costa 1.200 dollari.

Il pensiero di Öcalan ha effetti anche sul piano sanitario?

Senza il suo pensiero, basato sulla fratellanza tra i popoli, tutto questo non ci sarebbe. Qui non siamo a Kobane, dove quasi l’intera popolazione è curda. A Raqqa c’è di tutto. È qui che il confederalismo deve funzionare. Quando si parla dell’Amministrazione autonoma si dice spesso Rojava, il Kurdistan siriano, ma quella è solo una fetta del territorio. In altre i curdi sono meno degli arabi, e poi ci sono armeni, turkmeni, circassi, assiri. Questi popoli devono avere gli stessi diritti. Senza tale convinzione non esisterebbe il resto, compreso il sistema sanitario.

*****
Dieci anni di Un Ponte Per in Siria
La storica ong italiana Un Ponte Per compie quest’anno dieci anni di attività umanitaria in Siria. Fondata durante la prima guerra del Golfo, l’organizzazione è entrata per la prima volta in territorio siriano nel 2015, durante l’occupazione di Daesh, per avviare un lavoro di base che avrebbe portato, negli anni successivi, a una collaborazione stabile con le istituzioni dell’Amministrazione autonoma della Siria del nord-est. Si è partiti con la consegna di medicinali e aiuti umanitari, per arrivare alle prime cliniche mobili e alle ambulanze in assenza di ospedali agibili. Oggi Un Ponte Per partecipa a dieci diversi progetti sanitari in 35 cliniche. Gestisce 30 ambulanze, due cliniche mobili e opera in due centri medici dentro il campo di detenzione di Al Hol. Nel solo 2024 ha assistito oltre un milione di persone. Tutti i progetti sono realizzati in collaborazione con la Mezzaluna rossa curda e il ministero della Salute, secondo due diverse linee di intervento: emergenza con la Mezzaluna, governance con il ministero. Oltre all’attività prettamente medica, i progetti di Upp sono dedicati anche allo smaltimento dei rifiuti sanitari e urbani e alla protezione delle donne e dei bambini vittime di violenza.



Source link

Prestito condominio

per lavori di ristrutturazione

 

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link